È trascorso più di un anno dalla morte di
Lucio Magri. L’ultima volta che lo vidi fu anche la prima della mia vita
e conservo una memoria particolarmente vivida di quella giornata. Non
so neppure perché, ma mi ritrovai insieme con mia moglie nella sua
accogliente casa in piazza del Grillo, seduto su dei lunghi divani
bianchi. Tutt’intorno, la giovane moglie Mara, prematuramente scomparsa,
sembrava scrutarci dalle foto sugli
scaffali di un salotto che in un tempo ormai dissipato aveva ospitato la
sede del primo Manifesto, quando Praga bruciava insieme con la speranza
che un altro socialismo fosse ancora possibile.
Al centro
dell’ampia stanza stava un uomo triste e solo, disperatamente
sofferente, fanciullesco nel suo esibito dolore. Aveva appena terminato
quello che sapeva essere il suo testamento umano e politico, Il sarto di
Ulm. Una possibile storia del Pci, l’ultima resistenza al vortice di
una depressione divorante. Ricordo ancora nitido il disagio di essere
ospitati dentro quella tragedia, i nostri tentativi di comunicare con un
muro dagli occhi cerulei ancora bellissimi, ma resi smarriti
dall’angoscia.
Nella sua decisione di porre termine alla sua vita
con il suicidio assistito vidi il solco di un radicalismo e un gusto per
l’intransigenza che avevano accompagnato tutta la sua esistenza: dalla
giovanile militanza cattolica e democristiana nel gruppo dossettiano nel
segno della riforma morale e intellettuale dell’Italia, allo scontro
con Fanfani, all’ingresso nel Pci dopo il 1956, conquistato
dall’inquieta sensibilità di Franco Rodano; dalla radiazione nel 1970
dal partito all’avventura giornalistica, umana e politica prima del
Manifesto e poi del Pdup; dal rientro, all’inizio degli anni Ottanta,
nel Pci di Berlinguer, ma non da pentito della sua esperienza nella
sinistra extraparlamentare, sino al rigetto della svolta del 1989,
all’ingresso in Rifondazione comunista e alla difesa dell’esperienza del
comunismo italiano.
[...]
Come ricorda Castellina, Magri è stato un uomo integralmente
novecentesco che ha vissuto in modo drammatico la crisi della sinistra, a
causa del suo «assolutismo caratteriale diventato un rovello costante».
Un rovello, intorno al peso di una sconfitta che era anche un atto di
amore nei confronti di una storia. Questo pensai quando vidi i suoi
occhi brillare l’ultima volta dall’alto della tromba delle scale, mentre
accompagnava la nostra vitalità con un sorriso triste, troppo triste,
per non dirci addio: «Io son giunto alla disperazione calma, senza
sgomento. Scendo. Buon proseguimento».
Il dolore calmo di Lucio Magri
A un anno dalla morte, i saggi del fondatore del “Manifesto”
la Repubblica, 8 gennaio 2013
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