mercoledì 3 novembre 2021
Almodóvar complesso e totale
SIMONE LORENZATI
Madres Paralelas di Pedro Almodovar (Spagna, 2021)
Madres Paralelas di Pedro Almodovar (Spagna, 2021)
Janis (Penélope Cruz) ha quarant’anni e fa la fotografa. E’ una donna matura, emancipata, apparentemente molto sicura di sé, mentre Ana (Milena Smit) è una ragazzina impacciata e triste, stritolata tra due genitori distratti quanto egocentrici, specie la madre, la cui presenza è palpabile pure quando è assente. Due donne, quindi, profondamente differenti, che si ritrovano nel corridoio di un ospedale madrileno a condividere l’esperienza più importante delle loro vite, ossia poco prima di dare alla luce le rispettive figlie. Cosa le accomuna davvero, in effetti, è il non aver assolutamente programmato la maternità. Ma se Janis non ha rimpianti, Ana vive quelle ultime ore di gravidanza con una crescente angoscia.
Pedro Almodóvar, dopo il Leone d’oro alla carriera di un paio di anni fa, e dopo la presentazione del corto The Human Voice, quest’anno ha avuto il compito di aprire Venezia 78 con Madres Paralelas. E se con Dolor y Gloria il regista spagnolo aveva ricordato la sua infanzia, rendendo plasticamente omaggio a sua madre, con Madres Paralelas ecco che l’attenzione di Almodóvar si sposta verso una maternità tanto contemporanea quanto imperfetta.
E’ un film che parla di memoria e di sentimenti, che coniuga istinto e legami di sangue fino ad allargare il suo campo d’indagine alla genetica di un Paese – ovviamente la Spagna - che ancora oggi non riesce, per davvero, a mettere la parola fine ad una vergognosa pagina di storia. Ed è la pagina dei desaparecidos, desaparecidos che, appunto, ancora oggi aspettano che venga data loro la dignità di un nome e di una tomba.
La maternità di due donne diviene la metafora di un Paese che pare aver dimenticato i propri figli. Madres Paralelas, per la prova intensa dei suoi interpreti – su tutti una fantastica Penelope Cruz che porta sulle sue spalle gran parte della pellicola – e per le tematiche trattate, parla di una identità che viaggia su due binari paralleli, esattamente come lo sono quelli delle vite delle due protagoniste che finiscono per intrecciarsi divenendo un tutt’uno.
Insomma con Madres paralelas il dramma borghese penetra nella tragedia di stampo classico adoperando come denominatore una meccanica del sospetto simil Dostoevskij, un dramma che, come detto, parte da una suggestione pubblica, anzi meglio dire politica, per poi ritornare sul senso della famiglia, biologica e non. Il racconto è tipicamente matriarcale nel senso più stretto del termine, lasciando alla sfera maschile una incapacità, parrebbe atavica, di entrare nelle viscere profonde della maternità.
E il destino pare essere il punto di incontro tra le due protagoniste del film. Un destino che piano piano si trasforma in dilemma tessendo tra loro amore, tragedia e non detti rispetto ai quali, per una precisa scelta del regista, lo spettatore percepisce tensione ma anche speranza.
Eppure, per l’intero arco del film, non viene mai meno l’affetto che il regista ripone verso i suoi personaggi ma, più in generale, verso l’umanità, scegliendo - come d’abitudine - di accogliere tutte le sfumature dell’esistenza, senza mai inseguire la morale e senza nemmeno mai lasciarsi andare a giudizi secchi. Almodóvar, in fondo, ancora una volta, si dimostra in grado di orientarsi in mezzo al caos, di controllare le esplosioni grazie al suo gusto per le composizioni, per le architetture, per i colori e per il montaggio ma, soprattutto, grazie alla capacità di non perdere mai di vista il quadro generale dell’insieme.
Ed è un quadro in cui il film prova a conciliare la dimensione pubblica con quella privata riuscendo, tuttavia, a mischiare sia il punto di vista dei personaggi sia quello degli spettatori. Madres paralelas è probabilmente uno dei migliori film di Almodóvar, certamente è il migliore degli ultimi anni. Troviamo la maturità della regia insieme ad un ritorno dell’autore agli spazi del dramma borghese e della tragedia, caratterizzata da personaggi insieme semplici eppure complessi, in un mix ottimamente riuscito di tensioni pubbliche e di necessità private.
Attraverso le ottime interpretazioni di Milena Smit, di Aitana Sánchez-Gijón e di Penélope Cruz (giustamente premiata a Venezia con la Coppa Volpi di migliore attrice), e servendosi di un meccanismo narrativo che mescola passato e presente, pubblico e privato, il film costruisce una storia veramente notevole, in grado di mutare tanto i personaggi quanto gli spettatori che vi assistono.
Senza, tuttavia, mai dimenticare, nemmeno per un attimo, l’indulgenza. Il che non è affatto poco.
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