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domenica 14 novembre 2021
Wilbur Smith, il richiamo di mondi lontani
Antonio Carioti, Corriere della Sera
Wilbur Smith, uno degli autori più prolifici e famosi al mondo, è morto a 88 anni nella sua casa di Cape Town, in Sudafrica. Ha scritto 49 romanzi e venduto oltre 140 milioni di copie. Il primo libro è del 1964, l’ultimo solo poche settimane fa.
Sembrava nato apposta per narrare l’avventura, con un talento naturale impressionante. Lo scrittore Wilbur Smith, scomparso ieri all’improvviso all’età di 88 anni, aveva una sorta di tocco magico nel catturare l’affetto dei lettori, in particolare di quelli italiani, che lo seguivano con convinta e durevole assiduità. Si calcola che nel mondo i suoi oltre quaranta romanzi avessero venduto qualcosa come 123 milioni di copie, dei quali circa 24 soltanto nel nostro Paese. Produrre bestseller era il suo mestiere, sin dall’esordio nel 1964 con Il destino del leone (Longanesi, 1981; HarperCollins Italia, 2020).
Il segreto di Smith? Una miscela d’ingredienti ben calibrati. Vicende appassionanti e drammatiche, personalità spiccate, sentimenti intensi, ambientazioni esotiche, a partire dall’Africa australe, dove l’autore era nato, per arrivare all’Egitto antico dei faraoni.
La sua prosa afferrava il lettore e lo trascinava quasi di forza in un mondo pieno di suggestioni emozionanti, dal quale era impossibile staccarsi e che invogliava a conoscere altri passaggi delle sue lunghe saghe narrative in diverse tappe. Erano mirabolanti itinerari nel mondo della fantasia, ai quali il pubblico si affezionava facilmente. Aveva costituito anche una fondazione, intitolata a sé stesso e alla quarta moglie Niso, per promuovere la narrativa d’avventura con annesso un premio letterario.
Smith sosteneva di essere stato accompagnato nella vita da una «fortuna sfacciata», ma aveva conosciuto anche momenti difficili prima di affermarsi come romanziere di successo negli anni Sessanta. Era nato il 9 gennaio 1933 a Broken Hill, oggi Kawbe, in quella che allora era la Rhodesia del Nord, protettorato britannico, e in seguito è diventata lo Stato indipendente dello Zambia. A diciotto mesi era stato colpito dalla malaria cerebrale, ma l’aveva superata felicemente. Gli piaceva ripetere che però era rimasto «un po’ matto» e questo lo aveva aiutato nella carriera di romanziere.
Il padre di Smith, tipico colonizzatore dell’epoca vittoriana, era un uomo severo, pronto a infliggere punizioni corporali al figlio per le sue marachelle. Allevava bestiame nella sua tenuta di 12 mila ettari, dove il piccolo Wilbur, che adorava il papà come un semidio, aveva trascorso anni di giochi nella boscaglia e piccole battute di caccia con la fionda insieme ai figli dei dipendenti neri dell’azienda. A otto anni aveva ricevuto in dono il primo fucile e aveva presto imparato a sparare con grande precisione.
Dalla madre Elfreda Lawrence aveva invece mutuato l’amore intenso per la narrativa di ogni genere. «Ogni sera — ricordava — mi leggeva storie della buonanotte». Smith aveva preso dimestichezza con i libri per ragazzi, poi con autori come Henry Rider Haggard, John Steinbeck, Rudyard Kipling. Era nata in lui l’aspirazione a scrivere, magari nella veste di giornalista, alimentata più tardi negli anni al collegio Cordwalles, in Sudafrica, grazie al sostegno di un insegnante d’inglese che gli si era molto affezionato.
Il padre di Smith riteneva però che ci si dovesse guadagnare la vita in ben altro modo e il giovane Wilbur, dopo la laurea in Scienze commerciali alla Rhodes University, aveva intrapreso il mestiere di contabile per il fisco britannico. Poi si era sposato, ma il suo primo matrimonio, da cui erano nati due figli, era rapidamente naufragato, lasciandolo in difficoltà economiche.
Non aveva però abbandonato il sogno di diventare un narratore e aveva pubblicato i primi racconti, con un soddisfacente riscontro. Invece il romanzo The Gods First Made Mad («Gli dei prima ti fanno impazzire») era stato rifiutato da parecchi editori e non è mai uscito. Lo stesso Smith, rievocando quel suo maldestro tentativo, ne parlava in tono fortemente autocritico, ammettendo di aver commesso «tutti i grossi errori nei quali un giovane scrittore può incappare».
Tutt’altra musica per Il destino del leone, un successo immediato che nel 1964 aveva proiettato l’autore verso la notorietà, consentendogli di diventare un romanziere a tempo pieno, anche se nel Sudafrica bigotto di allora il romanzo era stato vietato. Le vicende drammatiche e strazianti dei fratelli Sean e Garrick Courtney, ambientate nel Natal ottocentesco, avevano affascinato una vasta platea di lettori e dato il via a una saga destinata a durare — coinvolgendo antenati e discendenti dei protagonisti — e a suddividersi in tre cicli che coprono un arco di tempo dal XVII secolo (Uccelli da preda, Longanesi, 1997) ai nostri giorni (Tempesta, HarperCollins Italia, 2021).
Ai Courtney si sarebbero poi aggiunti, a cominciare dal romanzo Quando vola il falco (Longanesi, 1986), i Ballantyne: un’altra stirpe di avventurieri immersa nello scenario di un’Africa selvaggia e contesa lungo un periodo di circa un secolo. E infine le due famiglie si sarebbero incontrate in una ulteriore trascinante saga cominciata con Il trionfo del sole (Longanesi, 2006).
Nel frattempo l’infaticabile Smith aveva prodotto dagli anni Novanta in poi la serie dei suoi romanzi egizi, che si dipanano nell’antica terra delle piramidi: un ciclo di alcuni libri nel quale spicca la figura dell’eunuco Taita, scriba, mago e generale. Altro personaggio al centro di una saga concepita da Smith è Hector Cross, ex ufficiale dei corpi speciali britannici, che ai giorni nostri diventa titolare di un’agenzia di sicurezza e affronta nemici spietati con la determinazione e la prestanza atletica di uno 007 aggiornato.
La vita privata di Smith aveva attraversato diverse fasi. Dopo un secondo matrimonio andato a monte, aveva sposato nel 1971 Danielle Thomas, morta nel 1999 per un tumore al cervello, e quindi nel 2000 erano giunte le quarte nozze con la giovane tagika Mokhiniso Rakhimova, detta Niso. Aveva avuto dai primi due matrimoni una figlia e due figli, con cui i rapporti non erano stati facili.
Ben saldo, come si è detto, era il legame di Smith con l’Italia, dove viaggiava spesso e le sue opere andavano a ruba. Con sincera gratitudine mista forse a un pizzico di adulazione, usava lodare l’eredità culturale dell’antica Roma e anche la missione civilizzatrice svolta dalle legioni nelle isole britanniche. Ma il suo primo amore restava ovviamente l’Africa. Grande ammiratore del presidente sudafricano Nelson Mandela, che definiva «eroe globale», auspicava che il continente riuscisse a difendere meglio il suo patrimonio naturale e a utilizzare in modo equo le tante risorse disponibili.
Innamorato perdutamente del suo lavoro, Smith sosteneva di avere un gran numero di libri in testa «che chiedono a gran voce di essere scritti». In età avanzata continuava a lavorare con immutato entusiasmo, avvalendosi dell’assistenza di coautori ai quali riconosceva il loro ruolo: Giles Christian, Tom Harper, David Churchill, Tom Cain, Mark Chadbourn e altri. Con Chris Wakling aveva inaugurato una serie di libri per ragazzi.
Nel 2018 aveva pubblicato il libro di ricordi Leopard Rock, soffermandosi in particolare sulle vicende più curiose e rocambolesche del periodo in cui trovava eccitante il pericolo. Ma la vocazione più imperiosa di Smith era sempre stata mettersi alla scrivania davanti a fogli da riempire. Sentirsi «creatore di mondi» lo rendeva felice.
giovedì 23 luglio 2015
Il jihadismo radicale: una bibliografia
Paolo Di Motoli
L’Egitto come laboratorio della Jihad
Doppiozero, 22 luglio 2015
Il recente attentato al consolato italiano in Egitto offre lo
spunto per una possibile genealogia del jihadismo radicale che parte
proprio dal paese delle piramidi. La piccola biblioteca che ci può
aiutare, in un panorama ricco di testi sul fenomeno jihadista, si
compone di due volumi che affrontano il fenomeno, il primo è il
fondamentale Il Profeta e il Faraone
di Gilles Kepel (Laterza 2006; il testo faceva seguito alla
dissertazione di dottorato dell’autore sui movimenti islamisti
nell’Egitto degli anni Settanta), il secondo è Il partito di Dio
di Renzo Guolo (Guerini e Associati 2004) che in poche pagine ha il
pregio di riuscire a collegare figure e movimenti che contribuiranno a
formare il nucleo dei movimenti islamisti radicali degli ultimi
vent’anni.
Rileggendo la presentazione di Kepel si comprende la soddisfazione di chi ha saputo comprendere l’importanza dei fenomeni politico-religiosi del mondo islamico quando gli accademici degli anni Ottanta li consideravano un residuo di arcaismo reazionario. Stesso discorso può farsi per lo studioso italiano che in tempi non sospetti ha compiuto un cammino simile al collega francese in un paese dove il ritardo della sociologia e il clima di fiducia verso la secolarizzazione avanzante proiettavano sul tema religione e politica un alone di “esotismo”. L’Egitto è centrale per il fenomeno jihadista radicale in quanto ha dato vita a movimenti che hanno prodotto pensatori, gruppi e leader decisivi per la storia recente.
La nascita dei Fratelli Musulmani nel 1928 rimane un evento fondamentale per tutto ciò che ne è seguito. Se la condotta dei suoi fondatori era volta a costruire un “ordine islamico” che pacificamente avrebbe portato le istituzioni a conformarsi ad esso nel corso degli anni (una sorta di egemonia gramsciana applicata all’Islam politico) la repressione nasseriana e le crisi degli anni settanta sotto Sadat produrranno invece nuovi movimenti volti a uccidere sovrani “empi” opponendosi frontalmente alle istituzioni con la violenza. L’ideologo centrale della fase iniziale fu quel Sayyid Qutb che Nasser fece impiccare nel 1966. La riflessione dell’ideologo egiziano maturò nel terribile carcere di Tura che contribuì ad esacerbarne la costruzione ideologica.

Sayyid Qutb
Nel libro Ma'alim fi'l-Tariq (Pietre miliari sulla via) Qutb elaborò le categorie politiche del radicalismo islamico. La jihad contro l'apostasia e l'ignoranza, la rottura con l'ambiente empio sul modello del Profeta, la sovranità divina e il Jihad globale contro i nemici “interni” e quelli “esterni”. Il Nemico è centrale nella visione di Qutb che rifiutava la dicotomia della geopolitica religiosa per cui il mondo è diviso in Casa dell’Islam e casa della guerra. I musulmani considerano tutto ciò che si trova fuori dal proprio spazio casa della guerra. Per Qutb il nemico era interno al mondo musulmano. L’occidente diventava così interno e i partiti in campo erano il Partito di Dio e il Partito di Satana.
Detto questo bisogna sottolineare che la condotta dei Fratelli Musulmani fu molto prudente e che il pensiero di Qutb verrà disconosciuto dalla seconda guida spirituale del movimento, quell’Hasan Al Hudaybi che era succeduto al fondatore Al Banna. La fratellanza completò lo smantellamento del braccio armato proprio negli anni Settanta, avviando quella che gli studiosi come Omar Ashour chiamano la de-radicalizzazione. Proprio la costante diplomazia della fratellanza produrrà un fiorire di movimenti e militanti che ne usciranno per fondare gruppi di chiaro orientamento radicale e jihadista. Tra questi possiamo citare Takfir wa hijra (movimento che tentò di creare una vera e propria contro società in Egitto e uccise un ministro del governo Sadat nel 1977) e al Jihad, i cui esponenti uccisero il presidente egiziano Sadat nell’ottobre del 1981.

Anwar al-Sadat sulla copertina del Time, 2 gennaio 1978. Crediti di copertina Audrey Flack
La decisione di uccidere Sadat era maturata sulla via dell’analisi dell’ingegnere Muḥammad ʿAbd al-Salām Faraj che nella sua opera dal titolo Al farida al Ghaiba (L’obbligo assente) sosteneva che compiere un atto di Jihad contro il governante empio era il sesto pilastro dell’Islam. Faraj fallì nei suoi intenti a breve termine ma il suo libretto ebbe un'eco importante nel mondo del radicalismo islamico, e non solo in esso. Le idee contenute in quel libro, come quelle di Qutb, funsero da faro nel mondo dell'estremismo fondamentalista e terrorista di matrice islamica in Egitto durante tutti gli anni Ottanta e Novanta. Tra gli esponenti del gruppo al Jihad (oggi ormai de-radicalizzato come gli altri) troviamo figure di riferimento per l’islamismo globale come Ayman al Zawahiri e Omar ʿAbd al-Rahman. Alcuni teologi reagirono alle analisi compiute da questi “teologi mancati”. Jadd al-Haqq, dell’università al-Azhar, attaccò la dichiarazione che Sadat era un apostata e criticò certe interpretazioni del Corano, non appoggiate a solidi e ben sedimentati studi e riflessioni, incluso il noto passaggio del "versetto della Spada". Altri hanno misero in dubbio ancor più esplicitamente la debolezza della preparazione culturale di Muhammad Salam al Faraj, ricordando che i suoi studi avevano riguardato più l'elettricità che la Sharia. La scarsa solidità degli studi islamici è un fatto caratteristico di pressoché tutti i "nuovi dotti" del radicalismo.
Filiazioni dei Fratelli Mussulmani
Per comprendere meglio il fenomeno del radicalismo potremmo paragonare i Fratelli Musulmani al Partito Comunista Italiano e i gruppi jihadisti al fenomeno terroristico degli anni Settanta. Alcuni studiosi sostengono che la fratellanza sarebbe stata utile a contenere le spinte violente e radicali della società egiziana. La politica internazionale e quella interna al paese delle piramidi sembra essere andata però verso una direzione opposta. Sarebbe inoltre un errore considerare movimenti che pure hanno avuto la propria gestazione all’interno dei Fratelli Musulmani come espressione di questo movimento così come non possiamo considerare il ramo reggino delle Brigate Rosse espressione del partito comunista emiliano.
www.paolodimotoli.it
Rileggendo la presentazione di Kepel si comprende la soddisfazione di chi ha saputo comprendere l’importanza dei fenomeni politico-religiosi del mondo islamico quando gli accademici degli anni Ottanta li consideravano un residuo di arcaismo reazionario. Stesso discorso può farsi per lo studioso italiano che in tempi non sospetti ha compiuto un cammino simile al collega francese in un paese dove il ritardo della sociologia e il clima di fiducia verso la secolarizzazione avanzante proiettavano sul tema religione e politica un alone di “esotismo”. L’Egitto è centrale per il fenomeno jihadista radicale in quanto ha dato vita a movimenti che hanno prodotto pensatori, gruppi e leader decisivi per la storia recente.
La nascita dei Fratelli Musulmani nel 1928 rimane un evento fondamentale per tutto ciò che ne è seguito. Se la condotta dei suoi fondatori era volta a costruire un “ordine islamico” che pacificamente avrebbe portato le istituzioni a conformarsi ad esso nel corso degli anni (una sorta di egemonia gramsciana applicata all’Islam politico) la repressione nasseriana e le crisi degli anni settanta sotto Sadat produrranno invece nuovi movimenti volti a uccidere sovrani “empi” opponendosi frontalmente alle istituzioni con la violenza. L’ideologo centrale della fase iniziale fu quel Sayyid Qutb che Nasser fece impiccare nel 1966. La riflessione dell’ideologo egiziano maturò nel terribile carcere di Tura che contribuì ad esacerbarne la costruzione ideologica.
Sayyid Qutb
Nel libro Ma'alim fi'l-Tariq (Pietre miliari sulla via) Qutb elaborò le categorie politiche del radicalismo islamico. La jihad contro l'apostasia e l'ignoranza, la rottura con l'ambiente empio sul modello del Profeta, la sovranità divina e il Jihad globale contro i nemici “interni” e quelli “esterni”. Il Nemico è centrale nella visione di Qutb che rifiutava la dicotomia della geopolitica religiosa per cui il mondo è diviso in Casa dell’Islam e casa della guerra. I musulmani considerano tutto ciò che si trova fuori dal proprio spazio casa della guerra. Per Qutb il nemico era interno al mondo musulmano. L’occidente diventava così interno e i partiti in campo erano il Partito di Dio e il Partito di Satana.
Detto questo bisogna sottolineare che la condotta dei Fratelli Musulmani fu molto prudente e che il pensiero di Qutb verrà disconosciuto dalla seconda guida spirituale del movimento, quell’Hasan Al Hudaybi che era succeduto al fondatore Al Banna. La fratellanza completò lo smantellamento del braccio armato proprio negli anni Settanta, avviando quella che gli studiosi come Omar Ashour chiamano la de-radicalizzazione. Proprio la costante diplomazia della fratellanza produrrà un fiorire di movimenti e militanti che ne usciranno per fondare gruppi di chiaro orientamento radicale e jihadista. Tra questi possiamo citare Takfir wa hijra (movimento che tentò di creare una vera e propria contro società in Egitto e uccise un ministro del governo Sadat nel 1977) e al Jihad, i cui esponenti uccisero il presidente egiziano Sadat nell’ottobre del 1981.
Anwar al-Sadat sulla copertina del Time, 2 gennaio 1978. Crediti di copertina Audrey Flack
La decisione di uccidere Sadat era maturata sulla via dell’analisi dell’ingegnere Muḥammad ʿAbd al-Salām Faraj che nella sua opera dal titolo Al farida al Ghaiba (L’obbligo assente) sosteneva che compiere un atto di Jihad contro il governante empio era il sesto pilastro dell’Islam. Faraj fallì nei suoi intenti a breve termine ma il suo libretto ebbe un'eco importante nel mondo del radicalismo islamico, e non solo in esso. Le idee contenute in quel libro, come quelle di Qutb, funsero da faro nel mondo dell'estremismo fondamentalista e terrorista di matrice islamica in Egitto durante tutti gli anni Ottanta e Novanta. Tra gli esponenti del gruppo al Jihad (oggi ormai de-radicalizzato come gli altri) troviamo figure di riferimento per l’islamismo globale come Ayman al Zawahiri e Omar ʿAbd al-Rahman. Alcuni teologi reagirono alle analisi compiute da questi “teologi mancati”. Jadd al-Haqq, dell’università al-Azhar, attaccò la dichiarazione che Sadat era un apostata e criticò certe interpretazioni del Corano, non appoggiate a solidi e ben sedimentati studi e riflessioni, incluso il noto passaggio del "versetto della Spada". Altri hanno misero in dubbio ancor più esplicitamente la debolezza della preparazione culturale di Muhammad Salam al Faraj, ricordando che i suoi studi avevano riguardato più l'elettricità che la Sharia. La scarsa solidità degli studi islamici è un fatto caratteristico di pressoché tutti i "nuovi dotti" del radicalismo.
Per comprendere meglio il fenomeno del radicalismo potremmo paragonare i Fratelli Musulmani al Partito Comunista Italiano e i gruppi jihadisti al fenomeno terroristico degli anni Settanta. Alcuni studiosi sostengono che la fratellanza sarebbe stata utile a contenere le spinte violente e radicali della società egiziana. La politica internazionale e quella interna al paese delle piramidi sembra essere andata però verso una direzione opposta. Sarebbe inoltre un errore considerare movimenti che pure hanno avuto la propria gestazione all’interno dei Fratelli Musulmani come espressione di questo movimento così come non possiamo considerare il ramo reggino delle Brigate Rosse espressione del partito comunista emiliano.
www.paolodimotoli.it
domenica 15 febbraio 2015
La Libia terra di conquista per le truppe del Califfato
Renzo Guolo
Perché l’Is vuole la Libia
la Repubblica, 14 febbraio 2015
LA LIBIA è sempre più terra di conquista dell’Is. Le milizie che hanno giurato fedeltà a al Baghdadi conquistano anche Sirte. Dopo Derna, dove dallo scorso autunno le milizie del Consiglio della Shura hanno proclamato la loro adesione al Califfato, Sirte è la seconda città libica a finire sotto i vessilli nerocerchiati. Ma l’influenza dell’Is si estende ormai a Bengasi, sino a poco tempo fa incontrastato regno della qaedista Ansar al-Sharia. Ora, sotto la possente spinta simbolica del Califfato, molti dei seguaci di Ansar cominciano a affluire tra i ranghi dell’Is.
Un processo analogo a quanto accaduto in Siria, con il progressivo svuotamento di Al Nusra a favore dell’Is. A Sirte la radio trasmette già discorsi del Califfo Nero, sintomo del nuovo e cruento ordine che si annuncia. E, come ha mostrato anche l’attacco all’hotel Corinthia, gli jihadisti agiscono anche a Tripoli.
Che la situazione sia precipitata lo dimostra non solo l’invito dell’ambasciata italiana ai nostri connazionali ad abbandonare il paese; ma anche la decisione dell’Egitto di far evacuare i propri cittadini. Le immagini da cronaca di una morte annunciata pubblicate sulla rivista Dabiq , con gli incapucciati in nero che fanno sfilare sulla spiaggia di Sirte i ventuno cristiani copti rapiti nei mesi scorsi, definiti come da copione “crociati”, fanno capire che ormai anche l’Egitto è un bersaglio dell’Is. Anzi, un doppio nemico, politico e religioso. Perché il Cairo appoggia e fornisce supporto logistico e aereo alla milizie di Al Hattar, il generale che vuole fare piazza pulita di ogni gruppo islamista in Libia; perché Al Sissi, nemico giurato degli jihadisti in riva al Nilo, vede nei copti un pilastro della sua diga antislamista. La cattura dei copti il Libia viene presentata dai nerocerchiati con la necessità di vendicare le donne musulmane, a loro avviso, vittime del «complotto della chiesa egiziana». Una vicenda annosa, quella delle donne cristiane convertite all’islam, che, secondo la propaganda islamista, sarebbero poi state costrette dalla Chiesa copto-ortodossa a rinnegare la loro conversione. Ma pur sempre una questione sensibile in Egitto, che viene non a caso agitata per rafforzare influenza e reclutamento dell’Is.
In quel grande buco nero che è la Libia, Stato fallito ormai preda delle sue migliaia di milizie armate l’una contro l’altra, il Califfato guadagna terreno. A poche centinaia di miglia dall’Italia e dai confini dell’Europa. Un pericolo enorme per l’Occidente. Non solo da quella sponda i traffici di migranti possono essere gestiti, sotto il controllo jihadista, come attiva forma di destabilizzazione dei paesi europei, Italia in testa. Con le tante katibe che controllano le coste della Tripolitania al servizio, in una logica di convenienza e sopravvivenza, degli obiettivi strategici del Califfo Nero. Ma il Califfato in riva al Mediterraneo può anche diventare il magnete per gli jihadisti del Magheb, dell’Africa subsahiarana, dell’area egiziana e sudanese. Oltre che un mito politico per la gioventù musulmana radicalizzata in Europa. Una sorta di Somalia davanti alla Sicilia. Gli uomini in nero sullo sfondo azzurro del mare non sarebbero, allora, solo un mero effetto cromatico ma una seria minaccia.
Che fare, dunque? Intervenire? E come? Una missione di peace-keeping sotto mandato Onu, come ipotizza il governo italiano, appare problematica in un contesto in cui gli schieramenti, le alleanze, gli interessi di fazioni e milizie locali sono assai mutevoli. Le forze inviate dal Palazzo di Vetro potrebbero diventare un bersaglio senza produrre effettivi risultati politici. Qui più che mantenere la pace, bisognerebbe imporla. Ma un’operazione di peace-enforcement, un intervento militare sotto forma dell’ennesima “coalizione dei volenterosi” di turno, sarebbe ancora più problematica senza avere un realistico progetto strategico per il dopo. Difficilmente Stati Uniti e Europa potrebbero assumersi un simile rischio. Il Califfato, però, e’ ormai alle porte e urge una risposta a questo dilemma tragico. La vicenda riguarda innanzitutto l’Italia, se non altro per i risvolti storici e geopolitici che la legano all’antica Quarta sponda, ma non solo. Più che mai qui i confini sono i confini di tutti. In gioco c’è la sicurezza delle società europee e gli equilibri nel Mediterraneo. Tergiversare sarebbe catastrofico. La questione libica richiede un intervento, e una precisa strategia, da parte della comunità internazionale. Dopo, potrebbe essere tardi.
Perché l’Is vuole la Libia
la Repubblica, 14 febbraio 2015
LA LIBIA è sempre più terra di conquista dell’Is. Le milizie che hanno giurato fedeltà a al Baghdadi conquistano anche Sirte. Dopo Derna, dove dallo scorso autunno le milizie del Consiglio della Shura hanno proclamato la loro adesione al Califfato, Sirte è la seconda città libica a finire sotto i vessilli nerocerchiati. Ma l’influenza dell’Is si estende ormai a Bengasi, sino a poco tempo fa incontrastato regno della qaedista Ansar al-Sharia. Ora, sotto la possente spinta simbolica del Califfato, molti dei seguaci di Ansar cominciano a affluire tra i ranghi dell’Is.
Un processo analogo a quanto accaduto in Siria, con il progressivo svuotamento di Al Nusra a favore dell’Is. A Sirte la radio trasmette già discorsi del Califfo Nero, sintomo del nuovo e cruento ordine che si annuncia. E, come ha mostrato anche l’attacco all’hotel Corinthia, gli jihadisti agiscono anche a Tripoli.
Che la situazione sia precipitata lo dimostra non solo l’invito dell’ambasciata italiana ai nostri connazionali ad abbandonare il paese; ma anche la decisione dell’Egitto di far evacuare i propri cittadini. Le immagini da cronaca di una morte annunciata pubblicate sulla rivista Dabiq , con gli incapucciati in nero che fanno sfilare sulla spiaggia di Sirte i ventuno cristiani copti rapiti nei mesi scorsi, definiti come da copione “crociati”, fanno capire che ormai anche l’Egitto è un bersaglio dell’Is. Anzi, un doppio nemico, politico e religioso. Perché il Cairo appoggia e fornisce supporto logistico e aereo alla milizie di Al Hattar, il generale che vuole fare piazza pulita di ogni gruppo islamista in Libia; perché Al Sissi, nemico giurato degli jihadisti in riva al Nilo, vede nei copti un pilastro della sua diga antislamista. La cattura dei copti il Libia viene presentata dai nerocerchiati con la necessità di vendicare le donne musulmane, a loro avviso, vittime del «complotto della chiesa egiziana». Una vicenda annosa, quella delle donne cristiane convertite all’islam, che, secondo la propaganda islamista, sarebbero poi state costrette dalla Chiesa copto-ortodossa a rinnegare la loro conversione. Ma pur sempre una questione sensibile in Egitto, che viene non a caso agitata per rafforzare influenza e reclutamento dell’Is.
In quel grande buco nero che è la Libia, Stato fallito ormai preda delle sue migliaia di milizie armate l’una contro l’altra, il Califfato guadagna terreno. A poche centinaia di miglia dall’Italia e dai confini dell’Europa. Un pericolo enorme per l’Occidente. Non solo da quella sponda i traffici di migranti possono essere gestiti, sotto il controllo jihadista, come attiva forma di destabilizzazione dei paesi europei, Italia in testa. Con le tante katibe che controllano le coste della Tripolitania al servizio, in una logica di convenienza e sopravvivenza, degli obiettivi strategici del Califfo Nero. Ma il Califfato in riva al Mediterraneo può anche diventare il magnete per gli jihadisti del Magheb, dell’Africa subsahiarana, dell’area egiziana e sudanese. Oltre che un mito politico per la gioventù musulmana radicalizzata in Europa. Una sorta di Somalia davanti alla Sicilia. Gli uomini in nero sullo sfondo azzurro del mare non sarebbero, allora, solo un mero effetto cromatico ma una seria minaccia.
Che fare, dunque? Intervenire? E come? Una missione di peace-keeping sotto mandato Onu, come ipotizza il governo italiano, appare problematica in un contesto in cui gli schieramenti, le alleanze, gli interessi di fazioni e milizie locali sono assai mutevoli. Le forze inviate dal Palazzo di Vetro potrebbero diventare un bersaglio senza produrre effettivi risultati politici. Qui più che mantenere la pace, bisognerebbe imporla. Ma un’operazione di peace-enforcement, un intervento militare sotto forma dell’ennesima “coalizione dei volenterosi” di turno, sarebbe ancora più problematica senza avere un realistico progetto strategico per il dopo. Difficilmente Stati Uniti e Europa potrebbero assumersi un simile rischio. Il Califfato, però, e’ ormai alle porte e urge una risposta a questo dilemma tragico. La vicenda riguarda innanzitutto l’Italia, se non altro per i risvolti storici e geopolitici che la legano all’antica Quarta sponda, ma non solo. Più che mai qui i confini sono i confini di tutti. In gioco c’è la sicurezza delle società europee e gli equilibri nel Mediterraneo. Tergiversare sarebbe catastrofico. La questione libica richiede un intervento, e una precisa strategia, da parte della comunità internazionale. Dopo, potrebbe essere tardi.
martedì 20 agosto 2013
Il ruolo dei militari in Egitto
Bernardo Valli
Mubarak e il generale. In Egitto tornano i rais
la Repubblica, 20 agosto 2013
Il generale Abdel Fattah al-Sisi è un sentimentale. Gli capita di far piangere la platea. In aprile, a conclusione di un concerto, ha preso la parola per ringraziare gli interpreti, e li ha commossi al punto che sono scoppiati in lacrime. Il generale Sisi sorride spesso. Sembra un ictus. Le migliaia di ritratti appesi alle finestre, ai balconi, in molti quartieri del Cairo, non solo quelli borghesi, anche i sobborghi operai ne sono pieni, mostrano un volto disteso, sereno, senza il piglio militaresco che verrebbe spontaneo attribuire a chi ha promosso una repressione il cui bilancio supera il migliaio di vittime. Il suo sguardo è spesso mascherato da grossi occhiali ray-ban. Gli egiziani appartengono al mondo arabo dell’ulivo (i cui alberi ombreggiano il delta del Nilo che si getta nel Mediterraneo); un mondo contrapposto dagli storici per la sua gentilezza a quello arabo assai più rude della palma (i cui alberi punteggiano le rive irachene del Tigri e dell’Eufrate che si gettano nell’Oceano).
Con i sorrisi e il linguaggio suadente, dietro i quali si nasconde un freddo calcolatore, il generale affascina oggi la maggioranza degli egiziani, riluttanti a riconoscersi investiti da un’ondata di odio, ben evidente a un osservatore straniero. L’espressione serena del generale rassicura e funziona da alibi: dà l’impressione che, nonostante il sangue versato, il paese dell’ulivo non sia cambiato. E che sia nelle mani di un uomo duro ma giusto. Il quale, per la dignità che irradia, non può essere l’istigatore di non nobili istinti popolari.
Il generale Sisi è un personaggio complesso. È riservato, dosa le parole, ma a volte si abbandona a confidenze, sia pure senza mai abbandonare il riserbo di un ufficiale che ha diretto l’intelligence militare. È religioso, la moglie porta il velo, e lui compie le cinque preghiere quotidiane prescritte dal Corano, ma non è un bigotto. Non pensa che la religione debba essere confusa con la politica. Nel 2006,
quando frequentava negli Stati Uniti l’US Army War College, scrisse alcune considerazioni sulla società americana e sulla società musulmana. Gli americani credono nella vita, nella libertà e nella ricerca della felicità. Mentre la cultura islamica punta all’equità, alla giustizia, all’uguaglianza e alla carità. A questi giudizi il generale aggiungeva che una democrazia deve appoggiarsi su principi religiosi. Ma la teocrazia non rientrava tuttavia nelle sue idee. La escludeva. Il suo scritto fu tuttavia interpretato come molto vicino alle tesi dei fratelli musulmani.
Il generale Sisi non ha mai partecipato a una guerra. Nel ‘77, a 23 anni, uscì dall’accademia militare quando l’allora presidente Sadat faceva la pace con Israele, mettendo fine ai conflitti con lo Stato ebraico. Egli appartiene quindi alla nuova generazione arrivata all’apice della gerarchia, vale a dire nel Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), proprio quando con l’elezione dell’islamista Morsi i vecchi generali, che avevano governato per un anno con pessimi risultati, furono mandati in pensione. Il generale Sisi sembrava destinato a convivere con gli islamisti.
Non erano in pochi ad avere questa impressione, ma si sbagliavano. Nonostante l’età, 59 anni, relativamente giovane per un capo delle forze armate, e le esperienze nelle scuole di guerra americane e inglesi, il generale Sisi è fedele alla vecchia tradizione militare egiziana, che risale ai primi dell’Ottocento, all’epoca di Mohammed Ali pascià, e che è poi stata rilanciata nel 1952 dagli “ufficiali liberi” repubblicani, dopo la fine della monarchia. L’esercito è la spina dorsale e l’arbitro della vita nazionale. Controlla più di un terzo dell’economia ed è l’arbitro in campo politico. Anzi, lo domina. Il rosario di disfatte inflitte da Israele (‘48, ‘56, ‘67, ‘73) non ha intaccato il suo prestigio, perché all’interno del paese, non avendo avversari in grado di abolire i suoi privilegi e la sua autorità di fatto al di sopra delle leggi, l’esercito vanta soltanto vittorie. È passato dal socialismo al liberismo, e ha imposto non poche versioni di autoritarismo, sempre con presidenti usciti dai suoi ranghi. Naghib, Nasser, Sadat, Mubarak. Tutti leader politici e generali. Abdel Fattah al Sisi non è ancora il presidente, al momento dice di non volerlo diventare, ma la strada è tracciata. La tradizione riprende.
Il 3 luglio Sisi ha cacciato dalla presidenza l’usurpatore, l’intruso, il borghese Mohammed Morsi, e nelle settimane successive ha disperso i suoi seguaci, i Fratelli musulmani. Mentre la repressione è ancora in corso, è stato annunciato che le accuse contro Hosni Mubarak, l’ex presidente scalzato dal potere dalla “primavera araba” e condannato da un tribunale, stanno per essere alleggerite. In particolare potrebbe cadere quella di corruzione e questo trasformerebbe la detenzione di Mubarak in libertà condizionata. Il generale Sisi cancella una macchia vergognosa del suo vecchio superiore? Èun segno della solidarietà di casta? L’improvvisa clemenza nei confronti di Mubarak sconcerta molti animatori della primavera araba dichiaratisi in favore del “golpe” dell’esercito contro il presidente islamista e il governo dei fratelli musulmani. Adesso si sentono un po’ beffati. Hanno l’impressione che il vecchio rais corrotto stia per essere riabilitato. È una restaurazione rampante? Il ripristino dello stato d’emergenza, che restituisce i vecchi poteri ai militari, può essere considerato un altro segnale.
A suo modo il generale Sisi è rispettoso delle regole. È l’esercito che, contenendo e poi cavalcando l’insurrezione di piazza Tahrir, cominciata il 25 gennaio 2011, ha deposto Mubarak, e che l’ha arrestato. Poi, sempre i militari, hanno condotto il paese alle elezioni e hanno insediato alla presidenza il vincitore Mohammed Morsi. Il generale Sisi è diventato il suo ministro della difesa, di fatto il garante dell’esercito nel governo islamista. Per la sua fama di musulmano osservante sembrava l’uomo adatto. Si sospettava appunto che fosse affiliato alla Confraternita dei Fratelli. Alcuni nella sua famiglia della media borghesia (il padre era un commerciante) lo erano e lo sono. Un cugino, Khaled Lufti al Sisi, è stato ucciso durante lo sgombero di Rabaa al Adawij, a Nasr City, il quattordici agosto, giorno del massacro.
Le voci sulla supposta appartenenza alla fratellanza musulmana del generale sono state bruscamente smentite quando lui di persona, senza ricorre ad intermediari, ha invitato la popolazione a manifestare contro i “terroristi”, come ormai chiamava apertamente gli islamisti. Sentendosi appoggiata dall’esercito la maggioranza della popolazione ha sfogato la sua collera, alimentata da giornali e televisioni, contro i fratelli musulmani rivelatisi incapaci di governare e ritenuti responsabili del disastro economico. Il compassato ufficiale, con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali neri, si è rivelato un laconico ma efficace tribuno, poiché senza perdersi in lunghi discorsi è riuscito a mobilitare la maggioranza del paese contro i fratelli musulmani, un anno prima votati come salvatori della patria. Il sospetto che fosse tutto orchestrato è abbastanza fondato. Mentre la collera montava contro il governo inefficiente, le stazioni di benzina sono rimaste senza carburante e il Cairo si è paralizzato. Per miracolo hanno ripreso a funzionare subito dopo la destituzione di Morsi. Il compassato generale Sisi si è dimostrato un buon agitatore e un esperto nel tessere trame. Non a caso ha comandato l’intelligence militare.
Molti puntano sul generale Sisi. La maggioranza del paese è con lui: dagli uomini d’affari dei tempi di Mubarak, che sperano in una restaurazione e comunque in un ritorno all’ordine, agli operai trascurati dai fratelli musulmani, insensibili ai problemi sociali. Quelli che non sperano in una sua rapida ascesa, lo detestano. L’odio è reciproco. Per gli uni, per la maggioranza, i fratelli musulmani sono terroristi, per gli altri, una minoranza, sono i difensori della legittimità essendo stati eletti con il primo libero voto nella storia dell’Egitto.
Quest’ ultima affermazione è contestata da molti. Un gesuita che vive al Cairo, Henri Boulad, sostiene che l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza fu una grande mascherata, e che l’esercito non aveva scelta. Le milizie dei fratelli musulmani, armate fino ai denti, seminavano il terrore in tutto l’Egitto. Omicidi, rapimenti, stupri. Chiese e scuole cristiane bruciate o saccheggiate, religiosi cattolici e copti uccisi. Padre Henri Boulad giustifica l’azione dei militari e denuncia l’atteggiamento dei paesi occidentali, e le critiche dei mass media. Il gesuita è un evidente grande sostenitore del generale Sisi.
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Sergio Romano
L’Egitto, i militari, la democrazia, quei golpe fuori dai nostri schemi
Corano e colonnelli, l’eterna tentazione
La «via militare al progresso» inaugurata da Atatürk come costante della storia moderna del mondo islamico
Corriere della Sera, 5 luglio 2013
La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana. Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.
Mubarak e il generale. In Egitto tornano i rais
la Repubblica, 20 agosto 2013
Il generale Abdel Fattah al-Sisi è un sentimentale. Gli capita di far piangere la platea. In aprile, a conclusione di un concerto, ha preso la parola per ringraziare gli interpreti, e li ha commossi al punto che sono scoppiati in lacrime. Il generale Sisi sorride spesso. Sembra un ictus. Le migliaia di ritratti appesi alle finestre, ai balconi, in molti quartieri del Cairo, non solo quelli borghesi, anche i sobborghi operai ne sono pieni, mostrano un volto disteso, sereno, senza il piglio militaresco che verrebbe spontaneo attribuire a chi ha promosso una repressione il cui bilancio supera il migliaio di vittime. Il suo sguardo è spesso mascherato da grossi occhiali ray-ban. Gli egiziani appartengono al mondo arabo dell’ulivo (i cui alberi ombreggiano il delta del Nilo che si getta nel Mediterraneo); un mondo contrapposto dagli storici per la sua gentilezza a quello arabo assai più rude della palma (i cui alberi punteggiano le rive irachene del Tigri e dell’Eufrate che si gettano nell’Oceano).
Con i sorrisi e il linguaggio suadente, dietro i quali si nasconde un freddo calcolatore, il generale affascina oggi la maggioranza degli egiziani, riluttanti a riconoscersi investiti da un’ondata di odio, ben evidente a un osservatore straniero. L’espressione serena del generale rassicura e funziona da alibi: dà l’impressione che, nonostante il sangue versato, il paese dell’ulivo non sia cambiato. E che sia nelle mani di un uomo duro ma giusto. Il quale, per la dignità che irradia, non può essere l’istigatore di non nobili istinti popolari.
Il generale Sisi è un personaggio complesso. È riservato, dosa le parole, ma a volte si abbandona a confidenze, sia pure senza mai abbandonare il riserbo di un ufficiale che ha diretto l’intelligence militare. È religioso, la moglie porta il velo, e lui compie le cinque preghiere quotidiane prescritte dal Corano, ma non è un bigotto. Non pensa che la religione debba essere confusa con la politica. Nel 2006,
quando frequentava negli Stati Uniti l’US Army War College, scrisse alcune considerazioni sulla società americana e sulla società musulmana. Gli americani credono nella vita, nella libertà e nella ricerca della felicità. Mentre la cultura islamica punta all’equità, alla giustizia, all’uguaglianza e alla carità. A questi giudizi il generale aggiungeva che una democrazia deve appoggiarsi su principi religiosi. Ma la teocrazia non rientrava tuttavia nelle sue idee. La escludeva. Il suo scritto fu tuttavia interpretato come molto vicino alle tesi dei fratelli musulmani.
Il generale Sisi non ha mai partecipato a una guerra. Nel ‘77, a 23 anni, uscì dall’accademia militare quando l’allora presidente Sadat faceva la pace con Israele, mettendo fine ai conflitti con lo Stato ebraico. Egli appartiene quindi alla nuova generazione arrivata all’apice della gerarchia, vale a dire nel Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), proprio quando con l’elezione dell’islamista Morsi i vecchi generali, che avevano governato per un anno con pessimi risultati, furono mandati in pensione. Il generale Sisi sembrava destinato a convivere con gli islamisti.
Non erano in pochi ad avere questa impressione, ma si sbagliavano. Nonostante l’età, 59 anni, relativamente giovane per un capo delle forze armate, e le esperienze nelle scuole di guerra americane e inglesi, il generale Sisi è fedele alla vecchia tradizione militare egiziana, che risale ai primi dell’Ottocento, all’epoca di Mohammed Ali pascià, e che è poi stata rilanciata nel 1952 dagli “ufficiali liberi” repubblicani, dopo la fine della monarchia. L’esercito è la spina dorsale e l’arbitro della vita nazionale. Controlla più di un terzo dell’economia ed è l’arbitro in campo politico. Anzi, lo domina. Il rosario di disfatte inflitte da Israele (‘48, ‘56, ‘67, ‘73) non ha intaccato il suo prestigio, perché all’interno del paese, non avendo avversari in grado di abolire i suoi privilegi e la sua autorità di fatto al di sopra delle leggi, l’esercito vanta soltanto vittorie. È passato dal socialismo al liberismo, e ha imposto non poche versioni di autoritarismo, sempre con presidenti usciti dai suoi ranghi. Naghib, Nasser, Sadat, Mubarak. Tutti leader politici e generali. Abdel Fattah al Sisi non è ancora il presidente, al momento dice di non volerlo diventare, ma la strada è tracciata. La tradizione riprende.
Il 3 luglio Sisi ha cacciato dalla presidenza l’usurpatore, l’intruso, il borghese Mohammed Morsi, e nelle settimane successive ha disperso i suoi seguaci, i Fratelli musulmani. Mentre la repressione è ancora in corso, è stato annunciato che le accuse contro Hosni Mubarak, l’ex presidente scalzato dal potere dalla “primavera araba” e condannato da un tribunale, stanno per essere alleggerite. In particolare potrebbe cadere quella di corruzione e questo trasformerebbe la detenzione di Mubarak in libertà condizionata. Il generale Sisi cancella una macchia vergognosa del suo vecchio superiore? Èun segno della solidarietà di casta? L’improvvisa clemenza nei confronti di Mubarak sconcerta molti animatori della primavera araba dichiaratisi in favore del “golpe” dell’esercito contro il presidente islamista e il governo dei fratelli musulmani. Adesso si sentono un po’ beffati. Hanno l’impressione che il vecchio rais corrotto stia per essere riabilitato. È una restaurazione rampante? Il ripristino dello stato d’emergenza, che restituisce i vecchi poteri ai militari, può essere considerato un altro segnale.
A suo modo il generale Sisi è rispettoso delle regole. È l’esercito che, contenendo e poi cavalcando l’insurrezione di piazza Tahrir, cominciata il 25 gennaio 2011, ha deposto Mubarak, e che l’ha arrestato. Poi, sempre i militari, hanno condotto il paese alle elezioni e hanno insediato alla presidenza il vincitore Mohammed Morsi. Il generale Sisi è diventato il suo ministro della difesa, di fatto il garante dell’esercito nel governo islamista. Per la sua fama di musulmano osservante sembrava l’uomo adatto. Si sospettava appunto che fosse affiliato alla Confraternita dei Fratelli. Alcuni nella sua famiglia della media borghesia (il padre era un commerciante) lo erano e lo sono. Un cugino, Khaled Lufti al Sisi, è stato ucciso durante lo sgombero di Rabaa al Adawij, a Nasr City, il quattordici agosto, giorno del massacro.
Le voci sulla supposta appartenenza alla fratellanza musulmana del generale sono state bruscamente smentite quando lui di persona, senza ricorre ad intermediari, ha invitato la popolazione a manifestare contro i “terroristi”, come ormai chiamava apertamente gli islamisti. Sentendosi appoggiata dall’esercito la maggioranza della popolazione ha sfogato la sua collera, alimentata da giornali e televisioni, contro i fratelli musulmani rivelatisi incapaci di governare e ritenuti responsabili del disastro economico. Il compassato ufficiale, con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali neri, si è rivelato un laconico ma efficace tribuno, poiché senza perdersi in lunghi discorsi è riuscito a mobilitare la maggioranza del paese contro i fratelli musulmani, un anno prima votati come salvatori della patria. Il sospetto che fosse tutto orchestrato è abbastanza fondato. Mentre la collera montava contro il governo inefficiente, le stazioni di benzina sono rimaste senza carburante e il Cairo si è paralizzato. Per miracolo hanno ripreso a funzionare subito dopo la destituzione di Morsi. Il compassato generale Sisi si è dimostrato un buon agitatore e un esperto nel tessere trame. Non a caso ha comandato l’intelligence militare.
Molti puntano sul generale Sisi. La maggioranza del paese è con lui: dagli uomini d’affari dei tempi di Mubarak, che sperano in una restaurazione e comunque in un ritorno all’ordine, agli operai trascurati dai fratelli musulmani, insensibili ai problemi sociali. Quelli che non sperano in una sua rapida ascesa, lo detestano. L’odio è reciproco. Per gli uni, per la maggioranza, i fratelli musulmani sono terroristi, per gli altri, una minoranza, sono i difensori della legittimità essendo stati eletti con il primo libero voto nella storia dell’Egitto.
Quest’ ultima affermazione è contestata da molti. Un gesuita che vive al Cairo, Henri Boulad, sostiene che l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza fu una grande mascherata, e che l’esercito non aveva scelta. Le milizie dei fratelli musulmani, armate fino ai denti, seminavano il terrore in tutto l’Egitto. Omicidi, rapimenti, stupri. Chiese e scuole cristiane bruciate o saccheggiate, religiosi cattolici e copti uccisi. Padre Henri Boulad giustifica l’azione dei militari e denuncia l’atteggiamento dei paesi occidentali, e le critiche dei mass media. Il gesuita è un evidente grande sostenitore del generale Sisi.
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Sergio Romano
L’Egitto, i militari, la democrazia, quei golpe fuori dai nostri schemi
Corano e colonnelli, l’eterna tentazione
La «via militare al progresso» inaugurata da Atatürk come costante della storia moderna del mondo islamico
Corriere della Sera, 5 luglio 2013
La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana. Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.
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sabato 17 agosto 2013
La politica delle alleanze in Egitto
L'interesse degli intellettuali arabi e musulmani per il pensiero di
Antonio Gramsci non è un fenomeno nuovo. Gramsci ha fornito, infatti,
alcune cruciali categorie concettuali per analizzare le drammatiche
trasformazioni politiche, sociali ed economiche che hanno investito le
società arabe, in particolare quella egiziana, negli ultimi decenni.
Oggi, in particolare, Gramsci ci permette di guardare alle rivolte
arabe degli ultimi mesi con occhi nuovi.
Nel suo classico Overstating the Arab State (1996), lo studioso egiziano Nazih Ayubi spiegava come i regimi arabi fossero fragili poiché, pur avendo sviluppato raffinate strutture per la sistematica repressione del dissenso, non erano stati in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato. Servendosi di categorie gramsciane, Ayubi sosteneva che le élite al potere nei regimi arabi avevano sviluppato la dimensione del dominio, senza veramente riuscire a esercitare una direzione intellettuale e morale.
Questa strutturale debolezza dei regimi arabi aveva consentito a movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani di sviluppare progetti contro-egemonici, per esempio in paesi come l'Egitto e la Giordania, utilizzando il linguaggio e i simboli dell'Islam per articolare l'islamismo come ideologia politica.
In Making Islam Democratic (2007), lo studioso iraniano Asef Bayat, poi seguito dall'egiziano Hazem Kandil, aveva interpretato le strategie dei Fratelli Musulmani egiziani come una gramsciana guerra di posizione volta a conquistare le "casematte" della società civile. I Fratelli Musulmani erano infatti riusciti a creare una rete di ospedali, scuole e attività caritatevoli grazie alle quali erano stati in grado di costruire una comunità morale e ideologica, ma anche un settore privato islamista.
Negli ultimi decenni, i movimenti islamisti sono stati in grado di attuare pervasivi processi di re-islamizzazione in numerosi paesi musulmani, anche non arabi, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan. In alcune società arabe, come quella egiziana e giordana, i Fratelli Musulmani sono inoltre riusciti a costruire un "blocco storico", rivolgendosi a due ceti sociali profondamente diversi ma uniti dalla frustrazione nei confronti dei regimi: la nuova borghesia islamista e il sottoproletariato urbano. La leadership dei Fratelli Musulmani, che è espressione di una borghesia islamista la cui ascesa è da leggere nel contesto delle trasformazioni economiche neoliberiste degli ultimi trent'anni, ha infatti individuato nel sottoproletariato urbano una massa di manovra.
Sulla base delle riflessioni di Gramsci sui modelli di partito, gli islamisti appaiono come coloro che additano alle masse un'età dell'oro nella quale tutte le tensioni e le contraddizioni si risolveranno, in questo caso grazie all'Islam. Gli islamisti, adottando il mito, nell'accezione di Sorel, della società islamica da instaurare, hanno oscurato la realtà storica delle relazioni di produzione, spostando il conflitto dal campo degli assetti socio-economici a quello della cultura in senso lato.
Il progetto contro-egemonico islamista non mette, infatti, realmente in discussione le relazioni socio-economiche sulle quali si basano le società arabe. L'obiettivo dei Fratelli Musulmani, e delle nuove e dinamiche classi medie di cui sono espressione, è quello di divenire classe dirigente, non di trasformare le relazioni di produzione, nonostante i populistici appelli alla giustizia sociale. Secondo Ayubi, la reazione del regime di Mubarak nei confronti del movimento islamista è stata una gramsciana "rivoluzione passiva". Il regime ha infatti adottato un'articolata strategia di cooptazione e repressione, sostenendo il processo di islamizzazione a patto che esso non provocasse alcun reale mutamento dello status quo.
In questo senso, si sono verificate convergenze tra la guerra di posizione dei Fratelli Musulmani e la rivoluzione passiva attuata dal regime; ha dunque ragione Samir Amin a considerare i Fratelli Musulmani come una forza tendenzialmente reazionaria.
Negli ultimi mesi, le rivolte arabe hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, oltre a una serie di sollevazioni popolari; ma si è trattato, almeno finora, di vere rivoluzioni? Le deposizioni di Ben Ali e di Mubarak somigliano più a colpi di stato attuati dai regimi con lo scopo di frenare le rivoluzioni, non di attuarle. In Egitto, i militari sembrano aver compreso che, per impedire una reale trasformazione degli assetti socio-economici della società egiziana, è ora necessario allearsi con i Fratelli Musulmani in modo da costituire un blocco d'ordine.
...
Daniel Atzori
Gramsci e le rivolte arabe
il manifesto, 27 giugno 2011
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Nel suo classico Overstating the Arab State (1996), lo studioso egiziano Nazih Ayubi spiegava come i regimi arabi fossero fragili poiché, pur avendo sviluppato raffinate strutture per la sistematica repressione del dissenso, non erano stati in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato. Servendosi di categorie gramsciane, Ayubi sosteneva che le élite al potere nei regimi arabi avevano sviluppato la dimensione del dominio, senza veramente riuscire a esercitare una direzione intellettuale e morale.
Questa strutturale debolezza dei regimi arabi aveva consentito a movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani di sviluppare progetti contro-egemonici, per esempio in paesi come l'Egitto e la Giordania, utilizzando il linguaggio e i simboli dell'Islam per articolare l'islamismo come ideologia politica.
In Making Islam Democratic (2007), lo studioso iraniano Asef Bayat, poi seguito dall'egiziano Hazem Kandil, aveva interpretato le strategie dei Fratelli Musulmani egiziani come una gramsciana guerra di posizione volta a conquistare le "casematte" della società civile. I Fratelli Musulmani erano infatti riusciti a creare una rete di ospedali, scuole e attività caritatevoli grazie alle quali erano stati in grado di costruire una comunità morale e ideologica, ma anche un settore privato islamista.
Negli ultimi decenni, i movimenti islamisti sono stati in grado di attuare pervasivi processi di re-islamizzazione in numerosi paesi musulmani, anche non arabi, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan. In alcune società arabe, come quella egiziana e giordana, i Fratelli Musulmani sono inoltre riusciti a costruire un "blocco storico", rivolgendosi a due ceti sociali profondamente diversi ma uniti dalla frustrazione nei confronti dei regimi: la nuova borghesia islamista e il sottoproletariato urbano. La leadership dei Fratelli Musulmani, che è espressione di una borghesia islamista la cui ascesa è da leggere nel contesto delle trasformazioni economiche neoliberiste degli ultimi trent'anni, ha infatti individuato nel sottoproletariato urbano una massa di manovra.
Sulla base delle riflessioni di Gramsci sui modelli di partito, gli islamisti appaiono come coloro che additano alle masse un'età dell'oro nella quale tutte le tensioni e le contraddizioni si risolveranno, in questo caso grazie all'Islam. Gli islamisti, adottando il mito, nell'accezione di Sorel, della società islamica da instaurare, hanno oscurato la realtà storica delle relazioni di produzione, spostando il conflitto dal campo degli assetti socio-economici a quello della cultura in senso lato.
Il progetto contro-egemonico islamista non mette, infatti, realmente in discussione le relazioni socio-economiche sulle quali si basano le società arabe. L'obiettivo dei Fratelli Musulmani, e delle nuove e dinamiche classi medie di cui sono espressione, è quello di divenire classe dirigente, non di trasformare le relazioni di produzione, nonostante i populistici appelli alla giustizia sociale. Secondo Ayubi, la reazione del regime di Mubarak nei confronti del movimento islamista è stata una gramsciana "rivoluzione passiva". Il regime ha infatti adottato un'articolata strategia di cooptazione e repressione, sostenendo il processo di islamizzazione a patto che esso non provocasse alcun reale mutamento dello status quo.
In questo senso, si sono verificate convergenze tra la guerra di posizione dei Fratelli Musulmani e la rivoluzione passiva attuata dal regime; ha dunque ragione Samir Amin a considerare i Fratelli Musulmani come una forza tendenzialmente reazionaria.
Negli ultimi mesi, le rivolte arabe hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, oltre a una serie di sollevazioni popolari; ma si è trattato, almeno finora, di vere rivoluzioni? Le deposizioni di Ben Ali e di Mubarak somigliano più a colpi di stato attuati dai regimi con lo scopo di frenare le rivoluzioni, non di attuarle. In Egitto, i militari sembrano aver compreso che, per impedire una reale trasformazione degli assetti socio-economici della società egiziana, è ora necessario allearsi con i Fratelli Musulmani in modo da costituire un blocco d'ordine.
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Daniel Atzori
Gramsci e le rivolte arabe
il manifesto, 27 giugno 2011
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Queste le premesse. Ma poi qualcosa non ha
funzionato nell'alleanza dei militari con gli islamisti. E il popolo stesso - o
una larga parte di esso - si è ritrovato all'opposizione rispetto al governo
dei Fratelli Musulmani. Qui si colloca l'occasione storica che l'esercito ha
saputo cogliere. Ai militari è stata offerta la possibilità di tornare da
protagonisti al centro della scena con il ruolo degli arbitri se non dei
giustizieri. C'è stata una ampia mobilitazione popolare contro i Fratelli
Musulmani. Le forze armate sono intervenute lanciando un ultimatum al governo.
Il presidente eletto Morsi ha replicato allora con un appello al martirio. Ai
militari invece ha detto di preferire un governo di coalizione nazionale che
non si è potuto realizzare. Esclusa la via del negoziato è
scattato il golpe. Stando ai risultati delle ultime elezioni i Fratelli
Musulmani rappresentavano una metà del popolo in Egitto. E i loro seguaci sono
ancora molto numerosi. Il golpe quindi non mirava a esautorare una sparuta
minoranza, era un attacco diretto contro una buona parte del popolo egiziano. Eppure
è parso concepibile. Perché? Per l’isolamento nel quale sono caduti i Fratelli
Musulmani; anche una parte dei salafiti, pure appartenenti al campo islamista,
non era più schierata con loro. Non parliamo poi della società egiziana che
appare polarizzata all’estremo ormai e che non sembra lasciare spazio a un’area di influenza al di fuori dei
seguaci e sostenitori. L'opinione pubblica egiziana è stata in gran parte favorevole allo smantellamento dei sit in islamisti. E non parliamo
poi dei sostegni esterni che favoriscono di gran lunga i militari.
Dalla loro parte, e in modo ostentato, ci
sono i grandi finanziatori dello Stato egiziano, l’Arabia saudita, il Kuwait e
gli Emirati Arabi Uniti, con i loro 10 miliardi di euro. C’è, di fatto,
Israele, basta vedere quello che è successo nel Sinai dove ai droni dello Stato
ebraico è stato permesso di bombardare il jihad locale. Gli Stati Uniti che non
si schierano fanno la parte del parente povero con il loro miliardo di euro.
Con i Fratelli Musulmani ci sono solo la Turchia e il Qatar. Non è molto. Anche
la Siria sta con i militari, per ovvie ragioni.
giovedì 15 agosto 2013
Gamal Abd el-Nasser (1918-1970)
La costante che fu maggiormente tipica di Nasser fu la sua lotta contro i sistemi che promuovevano "egemonia" sul piano locale, regionale e internazionale. Inoltre, potremmo aggiungere, il costante sforzo a "ristrutturare l'edificio economico e sociale allo scopo di alimentare la giustizia sociale e le pari opportunità".
Muhamad Sid Ahmad, The Future of Nasserism, al-Ahram Weekly, n. 501 del 28 sett. - 4 ott. 2000
Bernardo Valli
la Repubblica, 15 agosto 2013
... Dal dramma del quattordici agosto è spuntato un nuovo Nasser. Si parla da tempo della reincarnazione del capo della rivolta militare che nel ‘52 cacciò re Faruk e proclamò la repubblica. Il generale Abdul-Fattah al-Sisi (59 nove anni, con soggiorni militari in Arabia Saudita e negli Stati Uniti) sarebbe una nuova edizione di quel famoso rais nazionalista, morto di crepacuore più di quarant’anni fa. L’islamista Mohammed Morsi, un ingegnere baciapile, sarebbe stata una parentesi: Sisi appare come il successore di Naguib, di Nasser, di Sadat, di Mubarak, tutti generali o colonnelli. La primavera araba, versione egiziana, ha finito col creare una nuovo leader in uniforme? Capita che le rivoluzioni conoscano svolte “bonapartiste”. L’Egitto, storica società militare fin dall’epoca ottomana, è un terreno favorevole. Il generale Sisi è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico. Ma è un militare che non tollera l’inefficienza e la concorrenza di una organizzazione che assomiglia a una setta. È lui che ha rafforzato Mohammed Morsi eletto
presidente della repubblica, ed è sempre lui
che l’ha destituito quando è apparsa evidente la sua incapacità di governare. Il generale Sisi è un personaggio complesso. Quando in piazza Tahrir, vecchia ribalta della rivoluzione, fu controllata la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di violenze carnali. Non sarà tanto imprudente da occupare nell’immediato la presidenza della Repubblica (le elezioni sono previste per l’anno prossimo), ma non avrà bisogno di quella carica per esercitare il vero potere. Lo ha già.
Capo del supremo consiglio delle forze armate, vice presidente del consiglio e ministro della difesa, il generale Sisi ha deciso di usare il pugno di ferro. E lo ha sferrato quando tutti si aspettavano che adottasse una tattica meno brutale, per non scandalizzare le capitali occidentali e i liberali del governo provvisorio, come El Baradei, che consigliavano prudenza e tempi lunghi, al fine di evitare un massacro. Il generale se ne è infischiato degli inevitabili richiami al rispetto dei diritti dell’uomo e dell’altrettanto inevitabile critica delle autorità religiose di al-Azhar, le più ascoltate del mondo sunnita, che pur approvarono la destituzione di Mohammed Morsi. Ha ordinato lo sgombero immediato dei due accampamenti e poi ha imposto il coprifuoco al Cairo e in altre città (dalle sette di sera alle sei del mattino). Ha dichiarato inoltre lo stato d’emergenza, che aumenta il potere dei militari e dei loro tribunali. Il giorno prima aveva nominato dei generali governatori di diciannove province. Convinto di essere approvato dalla maggioranza degli egiziani, ormai ostile ai Fratelli musulmani, e comunque infastidita dalle loro plateali proteste che impedivano
la ripresa della vita economica, il generale Sisi ha colto tutti di sorpresa. Erano all’incirca le sette quando la polizia ha fatto irruzione nell’accampamento di piazza Nahda, vicino all’Università del Cairo, e a due passi dal Nilo.
Ed è accaduto quel che ci si aspettava. Anziani, donne e figli hanno ubbidito all’ordine di evacuazione impartito dalla polizia e hanno abbandonato la piazza. Subito dopo, secondo la polizia, dei cecchini appostati nelle case vicine hanno cominciato a sparare
e sono volate bombe molotov. La risposta è stata immediata: gas lacrimogeni, avanzata dei bulldozer per demolire le barricate e spari, raffiche vere, come provano i feriti curati nell’ospedale da campo. E i cadaveri (in un primo tempo quarantacinque) contati dai giornalisti. Quest’ultimi, testimoni sgraditi e quindi spesso aggrediti, e trattenuti, non hanno avuto la vita facile. L’esercito ha lasciato fare alla polizia, non è intervenuto direttamente all’interno dei campi trincerati, ma li ha circondati con mezzi blindati per isolarli. Molti Fratelli musulmani sono riusciti a sfuggire all’accerchiamento e si sono dispersi nella città, dove fino a tarda sera hanno acceso scontri con la polizia. Hanno anche organizzato un centro di resistenza in una moschea periferica, da dove si sono alzate colonne di fumo. Al tramonto c’erano ancora scontri a Nasr City, sulla piazza Rabaa al-Adawija, attorno alla moschea con lo stesso nome.
Alla fine della giornata, il cronista conserva alcune immagini: i poliziotti che sparano ai lanciatori di pietre annidati su un tetto; i giovani feriti al torace e al collo portati a braccio in un ospedale da campo; l’ufficiale in fin di vita; i Fratelli musulmani arrestati, in ginocchio e con le mani alla nuca; le fastidiose nuvole bianche del gas lacrimogeno e quelle scure, nere dei pneumatici bruciati in mezzo alla strada. Da questa giornata di sangue l’Egitto è più diviso che mai. La spaccatura tra laici e religiosi è profonda ma zigzagante. I liberali come Baradei si dissociano dai militari che hanno scelto la repressione. E al tempo stesso i salafiti di Al Nour, il partito islamico estremista, non ha dimostrato solidarietà ai Fratelli musulmani. Al tempo stesso si sono moltiplicate le aggressioni alla chiese cristiane copte nell’Alto Egitto. Mentre nel Sinai gruppi, che si ritiene siano affiliati o si ispirino ad Al Qaeda, aggrediscono i militari. Il generale Sisi ha come obiettivo, stando al mio occasionale e già citato compagno egiziano, di mettere fine alla “ sanguinosa ricreazione” provocata dalla primavera araba. Per questo lui, come non pochi altri egiziani, ama il “nuovo Nasser” apparso sulle sponde del Nilo.
Muhamad Sid Ahmad, The Future of Nasserism, al-Ahram Weekly, n. 501 del 28 sett. - 4 ott. 2000
Bernardo Valli
la Repubblica, 15 agosto 2013
... Dal dramma del quattordici agosto è spuntato un nuovo Nasser. Si parla da tempo della reincarnazione del capo della rivolta militare che nel ‘52 cacciò re Faruk e proclamò la repubblica. Il generale Abdul-Fattah al-Sisi (59 nove anni, con soggiorni militari in Arabia Saudita e negli Stati Uniti) sarebbe una nuova edizione di quel famoso rais nazionalista, morto di crepacuore più di quarant’anni fa. L’islamista Mohammed Morsi, un ingegnere baciapile, sarebbe stata una parentesi: Sisi appare come il successore di Naguib, di Nasser, di Sadat, di Mubarak, tutti generali o colonnelli. La primavera araba, versione egiziana, ha finito col creare una nuovo leader in uniforme? Capita che le rivoluzioni conoscano svolte “bonapartiste”. L’Egitto, storica società militare fin dall’epoca ottomana, è un terreno favorevole. Il generale Sisi è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico. Ma è un militare che non tollera l’inefficienza e la concorrenza di una organizzazione che assomiglia a una setta. È lui che ha rafforzato Mohammed Morsi eletto
presidente della repubblica, ed è sempre lui
che l’ha destituito quando è apparsa evidente la sua incapacità di governare. Il generale Sisi è un personaggio complesso. Quando in piazza Tahrir, vecchia ribalta della rivoluzione, fu controllata la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di violenze carnali. Non sarà tanto imprudente da occupare nell’immediato la presidenza della Repubblica (le elezioni sono previste per l’anno prossimo), ma non avrà bisogno di quella carica per esercitare il vero potere. Lo ha già.
Capo del supremo consiglio delle forze armate, vice presidente del consiglio e ministro della difesa, il generale Sisi ha deciso di usare il pugno di ferro. E lo ha sferrato quando tutti si aspettavano che adottasse una tattica meno brutale, per non scandalizzare le capitali occidentali e i liberali del governo provvisorio, come El Baradei, che consigliavano prudenza e tempi lunghi, al fine di evitare un massacro. Il generale se ne è infischiato degli inevitabili richiami al rispetto dei diritti dell’uomo e dell’altrettanto inevitabile critica delle autorità religiose di al-Azhar, le più ascoltate del mondo sunnita, che pur approvarono la destituzione di Mohammed Morsi. Ha ordinato lo sgombero immediato dei due accampamenti e poi ha imposto il coprifuoco al Cairo e in altre città (dalle sette di sera alle sei del mattino). Ha dichiarato inoltre lo stato d’emergenza, che aumenta il potere dei militari e dei loro tribunali. Il giorno prima aveva nominato dei generali governatori di diciannove province. Convinto di essere approvato dalla maggioranza degli egiziani, ormai ostile ai Fratelli musulmani, e comunque infastidita dalle loro plateali proteste che impedivano
la ripresa della vita economica, il generale Sisi ha colto tutti di sorpresa. Erano all’incirca le sette quando la polizia ha fatto irruzione nell’accampamento di piazza Nahda, vicino all’Università del Cairo, e a due passi dal Nilo.
Ed è accaduto quel che ci si aspettava. Anziani, donne e figli hanno ubbidito all’ordine di evacuazione impartito dalla polizia e hanno abbandonato la piazza. Subito dopo, secondo la polizia, dei cecchini appostati nelle case vicine hanno cominciato a sparare
e sono volate bombe molotov. La risposta è stata immediata: gas lacrimogeni, avanzata dei bulldozer per demolire le barricate e spari, raffiche vere, come provano i feriti curati nell’ospedale da campo. E i cadaveri (in un primo tempo quarantacinque) contati dai giornalisti. Quest’ultimi, testimoni sgraditi e quindi spesso aggrediti, e trattenuti, non hanno avuto la vita facile. L’esercito ha lasciato fare alla polizia, non è intervenuto direttamente all’interno dei campi trincerati, ma li ha circondati con mezzi blindati per isolarli. Molti Fratelli musulmani sono riusciti a sfuggire all’accerchiamento e si sono dispersi nella città, dove fino a tarda sera hanno acceso scontri con la polizia. Hanno anche organizzato un centro di resistenza in una moschea periferica, da dove si sono alzate colonne di fumo. Al tramonto c’erano ancora scontri a Nasr City, sulla piazza Rabaa al-Adawija, attorno alla moschea con lo stesso nome.
Alla fine della giornata, il cronista conserva alcune immagini: i poliziotti che sparano ai lanciatori di pietre annidati su un tetto; i giovani feriti al torace e al collo portati a braccio in un ospedale da campo; l’ufficiale in fin di vita; i Fratelli musulmani arrestati, in ginocchio e con le mani alla nuca; le fastidiose nuvole bianche del gas lacrimogeno e quelle scure, nere dei pneumatici bruciati in mezzo alla strada. Da questa giornata di sangue l’Egitto è più diviso che mai. La spaccatura tra laici e religiosi è profonda ma zigzagante. I liberali come Baradei si dissociano dai militari che hanno scelto la repressione. E al tempo stesso i salafiti di Al Nour, il partito islamico estremista, non ha dimostrato solidarietà ai Fratelli musulmani. Al tempo stesso si sono moltiplicate le aggressioni alla chiese cristiane copte nell’Alto Egitto. Mentre nel Sinai gruppi, che si ritiene siano affiliati o si ispirino ad Al Qaeda, aggrediscono i militari. Il generale Sisi ha come obiettivo, stando al mio occasionale e già citato compagno egiziano, di mettere fine alla “ sanguinosa ricreazione” provocata dalla primavera araba. Per questo lui, come non pochi altri egiziani, ama il “nuovo Nasser” apparso sulle sponde del Nilo.
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Tito, Nasser, Nehru |
mercoledì 3 luglio 2013
L'Egitto nelle mani dell'esercito
Huffington Post Italia
I carri armati hanno circondato l'edificio della tv di Stato egiziana nel distretto di Maspero al Cairo. Sono ore drammatiche in Egitto, man mano che si avvicina la scadenza dell'ultimatum imposto dai militari al presidente egiziano Mohammed Morsi (scadenza prevista per le 16:30 ora italiana). Seguirà un comunicato dell'esercito, che intanto ha già incassato l'appoggio del ministero degli Interni. "La polizia è accanto all'esercito e sostiene la legittimità del popolo", si legge in un comunicato del ministero. Per questo "la polizia proteggerà i manifestanti pacifici e non permetterà a nessuno di ricorrere alla violenza".
Il comandante del Consiglio Supremo delle forze armate (scaf), il generale Abdel Fattah al-Sisi, è in riunione con il leader dell'opposizione egiziana, Mohamed el-Baradei, diversi leader sunniti e copti e vari rappresentati dei partiti islamici, tra i quali il presidente Mohamed Morsi. Lo riferisce una fonte vicino all'esercito.
Migliaia di persone, però, si sono già radunate a piazza Tahrir per chiedere le dimissioni di Morsi, e altre manifestazioni sono in corso ad Alessandria e a Port Said. Nella capitale i sostenitori del presidente si sono dati appuntamento in piazza Rabaa al Adawiya.
Ieri notte negli scontri sono morte 23 persone e oltre 200 sono rimaste ferite. La maggior parte delle vittime si è registrata in un singolo episodio fuori dall'università del Cairo di Giza. Il bilancio è stato fornito da fonti ospedaliere e di sicurezza e porta così a 39 il totale dei morti negli scontri da domenica.
La defenestrazione di Morsi - sostiene il quotidiano Al-Ahram - schiuderà la strada alla tabella di marcia delineata dalle forze armate: un processo di transizione che dovrebbe durare tra i 9 e i 12 mesi e prevede la sospensione della Costituzione e la creazione di un consiglio presidenziale ad interim, composto da tre membri e presieduto dal presidente della Corte Costituzionale, Adli Mansour.
Ieri milioni di persone sono scese in strada per il terzo giorno, riempiendo piazza Tahrir e zone circostanti ai due palazzi presidenziali della capitale, così come piazze di città di tutto il Paese. A scatenare ulteriormente le violenze è stato il discorso tenuto da Morsi nella notte in televisione, in cui ha promesso di non dimettersi e sfidato l'esercito chiedendogli di ritirare l'ultimatum fissato per oggi per trovare un accordo con l'opposizione. Uno degli slogan più scanditi dai suoi oppositori in piazza è stato: "Dimettiti, dimettiti".
Militari pronti al sacrificio. "Giuriamo che sacrificheremo anche il nostro sangue per l'Egitto e la sua gente, per difenderla dai terroristi, dagli estremisti e dai pazzi". È quanto è scritto sulla pagina Facebook del Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane (Scaf) egiziane, guidato dal ministro della Difesa e capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, generale Abdel Fattah al-Sisi. Ieri il generale al-Sisi aveva chiesto al presidente Mohamed Morsi di fare un passo indietro dopo giorni di proteste e violenze. Ma Morsi, in un discorso televisivo a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum dei militari, ha rivendicato la propria legittimità ed escluso qualsiasi passo indietro.
I carri armati hanno circondato l'edificio della tv di Stato egiziana nel distretto di Maspero al Cairo. Sono ore drammatiche in Egitto, man mano che si avvicina la scadenza dell'ultimatum imposto dai militari al presidente egiziano Mohammed Morsi (scadenza prevista per le 16:30 ora italiana). Seguirà un comunicato dell'esercito, che intanto ha già incassato l'appoggio del ministero degli Interni. "La polizia è accanto all'esercito e sostiene la legittimità del popolo", si legge in un comunicato del ministero. Per questo "la polizia proteggerà i manifestanti pacifici e non permetterà a nessuno di ricorrere alla violenza".
Il comandante del Consiglio Supremo delle forze armate (scaf), il generale Abdel Fattah al-Sisi, è in riunione con il leader dell'opposizione egiziana, Mohamed el-Baradei, diversi leader sunniti e copti e vari rappresentati dei partiti islamici, tra i quali il presidente Mohamed Morsi. Lo riferisce una fonte vicino all'esercito.
Migliaia di persone, però, si sono già radunate a piazza Tahrir per chiedere le dimissioni di Morsi, e altre manifestazioni sono in corso ad Alessandria e a Port Said. Nella capitale i sostenitori del presidente si sono dati appuntamento in piazza Rabaa al Adawiya.
Ieri notte negli scontri sono morte 23 persone e oltre 200 sono rimaste ferite. La maggior parte delle vittime si è registrata in un singolo episodio fuori dall'università del Cairo di Giza. Il bilancio è stato fornito da fonti ospedaliere e di sicurezza e porta così a 39 il totale dei morti negli scontri da domenica.
La defenestrazione di Morsi - sostiene il quotidiano Al-Ahram - schiuderà la strada alla tabella di marcia delineata dalle forze armate: un processo di transizione che dovrebbe durare tra i 9 e i 12 mesi e prevede la sospensione della Costituzione e la creazione di un consiglio presidenziale ad interim, composto da tre membri e presieduto dal presidente della Corte Costituzionale, Adli Mansour.
Ieri milioni di persone sono scese in strada per il terzo giorno, riempiendo piazza Tahrir e zone circostanti ai due palazzi presidenziali della capitale, così come piazze di città di tutto il Paese. A scatenare ulteriormente le violenze è stato il discorso tenuto da Morsi nella notte in televisione, in cui ha promesso di non dimettersi e sfidato l'esercito chiedendogli di ritirare l'ultimatum fissato per oggi per trovare un accordo con l'opposizione. Uno degli slogan più scanditi dai suoi oppositori in piazza è stato: "Dimettiti, dimettiti".
Militari pronti al sacrificio. "Giuriamo che sacrificheremo anche il nostro sangue per l'Egitto e la sua gente, per difenderla dai terroristi, dagli estremisti e dai pazzi". È quanto è scritto sulla pagina Facebook del Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane (Scaf) egiziane, guidato dal ministro della Difesa e capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, generale Abdel Fattah al-Sisi. Ieri il generale al-Sisi aveva chiesto al presidente Mohamed Morsi di fare un passo indietro dopo giorni di proteste e violenze. Ma Morsi, in un discorso televisivo a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum dei militari, ha rivendicato la propria legittimità ed escluso qualsiasi passo indietro.
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