lunedì 8 novembre 2021
Il dilemma di Ingrao
In vista dell'incontro Pietro Ingrao, tra eredità comunista e dissenso, previsto per mercoledì 10 novembre alle 18, al Polo del Novecento, pubblichiamo questo sempre attuale articolo.
Michele Salvati, Il "dilemma di Ingrao", Sisifo, a. 1, n. 1, gennaio 1984
Vorrei fare solo un esercizio, parassitario rispetto alle categorie introdotte nel pezzo d’apertura di questo dibattito , e deludente nei suoi risultati. Esso consiste nell'incrociare le categorie di concentrazione e diffusione del potere politico adottate in quel pezzo con un 'altra gamma categoriale, ad un estremo della quale sta un intervento esteso dello stato nell'economia e nella società civile, quale avviene nelle forme più sviluppate di Stato di Benessere e di Economia Mista, mentre all 'altro estremo ci sta un intervento ridotto, qual era tipicamente quello dello Stato liberale nella seconda metà dell'ottocento . Ne risulta la semplicistica
matrice di sotto disegnata
intervento ridotto intervento esteso dello
Stato nella società ed economia
concentrazione liberalismo tradizionale “statismo” (es. Francia)
“neocorporatismo” (es. Austria)
diffusione del potere politico liberalismo anglosassone Italia oggi?
La natura è semplicistica perché ben altre dimensioni dovrebbero essere aggiunte per affrontare i problemi suggeriti nel pezzo di apertura; rispetto a questo ha però il vantaggio di introdurre in modo pesante una dimensione che non può mai essere tenuta sullo sfondo: cioè l'ampiezza dell'intervento dello Stato nella società. Non lo può perché gran parte delle disfunzioni che oggi si lamentano nel processo democratico — quelle dovute alla complessità, soprattutto — sono intimamente legate a questa dimensione, anche se non solo ad essa. Non lo può perché ci sono grandi variazioni — certamente su un asse diacronico, ma anche su un asse sincronico — nella ampiezza dell'intervento dello Stato. Non lo può perché il suggerimento oggi dominante al fine di ridurre la complessità è quello di ridurre l'estensione dell'intervento (l'altro, ovviamente, è quello di ridurre il grado di diffusione del potere politico: com'è ben noto, i due rappresentano modalità complementari più che alternative). E non lo può perché le debolezze di proposta della sinistra oggi derivano in larga misura dal volere tenere insieme due obiettivi che a prima vista sembrano contradditori: un elevato grado di diffusione del potere politico e un elevato grado di intervento dello Stato nel mercato e nella società. Le riflessioni di Pietro Ingrao — la sua aspirazione non solo a «tenere insieme» quei due obiettivi, ma addirittura a vedere nel primo (una più diffusa e intensa partecipazione democratica) un necessario metodo di controllo efficiente del secondo (una forte responsabilità pubblico- politica nei confronti degli esiti del processo economico) — sono un esempio da manuale della debolezza di proposta di cui dicevamo.
Le caselle della matrice meriterebbero innumerevoli qualificazioni, frutto di altri assi categoriali che abbiamo omesso. Per evitare l'equivoco maggiore, sottolineiamo subito che l'ambito principale su cui è giocata l'opposizione «concentrazione-diffusione» è quello centro-periferia: l'esempio degli USA è il caso canonico di una società civile forte, che ha nei processi di democrazia locale il nucleo fondamentale della legittimità del potere politico. C'è ovviamente un altro ambito su cui può giocarsi quella opposizione, quello corporativo-autogestionario: di diffusione del potere politico, o invece di avocazione da parte del centro, all'interno di diversi gruppi legati funzionalmente, invece che legati territorialmente. Ad esempio, tra diverse categorie di produttori (democrazia industriale); o tra produttori e fruitori di un servizio (la democrazia nella scuola, ad esempio; o la «democrazia sanitaria): una soluzione neo- corporativa fortemente centralizzata come quella austriaca — al di là delle differenze rilevanti secondo altri profili — è un caso di «concentrazione» di potere politico altrettanto forte dello «statismo» francese. Alla sinistra democratica non piace la concentrazione e piace invece la diffusione del potere politico (partecipazione), sia a livello locale sia a livello funzionale. E non piace una limitazione «da Stato minimo» nell'ampiezza dell'intervento: sia nell'ambito della produzione dei servizi e del controllo e direzione dell'attività produttiva privata, sia nell'ambito dei consumi e della redistribuzione del reddito, essa vede con favore che l'autorità politica si occupi di rettificare gli esiti prodotti dall'operare spontaneo della Società e del mercato. Questa coppia di orientamenti («il dilemma di Ingrao») è realmente contradditoria? Per salvare l'ampiezza dell'intervento dello Stato nella società (lo stato di benessere e la programmazione economica) va necessariamente ridotto il grado di partecipazione democratica, o attraverso una pista «statista», o attraverso una pista «neo-corporativa»?
Insomma: una partecipazione più diffusa è una «palla al piede» o è una «marcia in più» per uno Stato di benessere e ad economia mista? Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto aver superato o contenuto le obiezioni liberali contro lo Stato di benessere come economia mista, obiezioni che si collocano prima che si possa porre un problema di organizzazione (accentrata o diffusa) del potere politico. Gli odiatori dello Stato e della politicizzazione della società e dell'economia sono una tribù variegata i cui membri vanno dalla conservazione più autoritaria all'anarchia più sfrenata: sono però tutti convinti che più spazio si lascia al mercato e alla spontaneità sociale, e più se ne toglie allo Stato e alla politica, tanto più alto è il benessere collettivo. Personalmente non condivido queste convinzioni, e penso che la «società» e il «mercato» ipostatizzati dai liberali non abbiano le meravigliose proprietà che essi gli attribuiscono. Le loro convinzioni vanno però discorse seriamente, ciò che qui non posso fare, limitandomi ad avvertire che anche chi nega a livello di alta teoria l'ottimalità della loro soluzione può essere costretto ad accettarla in casi specifici come un second best; lasciare al mercato e alla spontaneità sociale un determinato ambito di vita associata (l'istruzione, ad esempio, o la sanità, o la fornitura di qualsiasi servizio) è sempre una alternativa possibile anche per chi ritiene che quell'ambito possa essere organizzato meglio in modo politico, ma di fatto viene organizzato peggio. Il liberalismo di ritorno di molti intellettuali e tecnici per cui una organizzazione politica democratica funziona tanto meglio quanto maggiore è il consenso sugli orientamenti di fondo dello Stato, in particolare su ciò che va ritenuto come oggetto di orientamento pubblico (e secondo quali fini), e su ciò che va lasciato alla autonomia dei privati. A questa osservazione si aggiunge una specificazione ulteriore: una volta definiti i confini, e isolati gli ambiti di orientamento pubblico, i criteri di fondo mediante i quali ognuno di questi ambiti è organizzato, e la proporzione di risorse ad essi destinata, non devono essere soggetti a continui mutamenti a seguito di pressioni politiche contingenti. Il «pubblico» va difeso dal «politico-contingente». E’ naturalmente la politica che definisce il pubblico e i suoi criteri di organizzazione: ma non deve ridefinirli in continuazione, con sterzate frequenti e distruttive delle routines organizzative.
(b) Questo ci porta alla seconda condizione, poiché una delle ragioni, certo non l'unica, della inefficienza delle nostre strutture amministrative pubbliche consiste proprio nell'instabilità e continua mutazione del quadro normativo in cui si trovano ad operare: affinché i pubblici amministratori possano essere devoti alla logica del servizio, una logica del servizio deve anzitutto esserci. Naturalmente questa è una sola delle condizioni — per quanto importante. Ce ne sono altre, purtroppo anch'esse assenti nel nostro Paese, e presenti invece in altre tradizioni culturali- politiche. Nell'argomento non posso entrare ora: ma non credo di esagerare se affermo che un progetto di lunga durata di riforma della Pubblica Amministrazione è il vero «Hic Rhodus» della sinistra. È la sinistra che ha interesse a rafforzare la mano pubblica: l'inefficienza dello Stato è una vera bazza per i liberali, e finora ne hanno profittato politicamente molto poco.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento