domenica 14 novembre 2021
Wilbur Smith, il richiamo di mondi lontani
Antonio Carioti, Corriere della Sera
Wilbur Smith, uno degli autori più prolifici e famosi al mondo, è morto a 88 anni nella sua casa di Cape Town, in Sudafrica. Ha scritto 49 romanzi e venduto oltre 140 milioni di copie. Il primo libro è del 1964, l’ultimo solo poche settimane fa.
Sembrava nato apposta per narrare l’avventura, con un talento naturale impressionante. Lo scrittore Wilbur Smith, scomparso ieri all’improvviso all’età di 88 anni, aveva una sorta di tocco magico nel catturare l’affetto dei lettori, in particolare di quelli italiani, che lo seguivano con convinta e durevole assiduità. Si calcola che nel mondo i suoi oltre quaranta romanzi avessero venduto qualcosa come 123 milioni di copie, dei quali circa 24 soltanto nel nostro Paese. Produrre bestseller era il suo mestiere, sin dall’esordio nel 1964 con Il destino del leone (Longanesi, 1981; HarperCollins Italia, 2020).
Il segreto di Smith? Una miscela d’ingredienti ben calibrati. Vicende appassionanti e drammatiche, personalità spiccate, sentimenti intensi, ambientazioni esotiche, a partire dall’Africa australe, dove l’autore era nato, per arrivare all’Egitto antico dei faraoni.
La sua prosa afferrava il lettore e lo trascinava quasi di forza in un mondo pieno di suggestioni emozionanti, dal quale era impossibile staccarsi e che invogliava a conoscere altri passaggi delle sue lunghe saghe narrative in diverse tappe. Erano mirabolanti itinerari nel mondo della fantasia, ai quali il pubblico si affezionava facilmente. Aveva costituito anche una fondazione, intitolata a sé stesso e alla quarta moglie Niso, per promuovere la narrativa d’avventura con annesso un premio letterario.
Smith sosteneva di essere stato accompagnato nella vita da una «fortuna sfacciata», ma aveva conosciuto anche momenti difficili prima di affermarsi come romanziere di successo negli anni Sessanta. Era nato il 9 gennaio 1933 a Broken Hill, oggi Kawbe, in quella che allora era la Rhodesia del Nord, protettorato britannico, e in seguito è diventata lo Stato indipendente dello Zambia. A diciotto mesi era stato colpito dalla malaria cerebrale, ma l’aveva superata felicemente. Gli piaceva ripetere che però era rimasto «un po’ matto» e questo lo aveva aiutato nella carriera di romanziere.
Il padre di Smith, tipico colonizzatore dell’epoca vittoriana, era un uomo severo, pronto a infliggere punizioni corporali al figlio per le sue marachelle. Allevava bestiame nella sua tenuta di 12 mila ettari, dove il piccolo Wilbur, che adorava il papà come un semidio, aveva trascorso anni di giochi nella boscaglia e piccole battute di caccia con la fionda insieme ai figli dei dipendenti neri dell’azienda. A otto anni aveva ricevuto in dono il primo fucile e aveva presto imparato a sparare con grande precisione.
Dalla madre Elfreda Lawrence aveva invece mutuato l’amore intenso per la narrativa di ogni genere. «Ogni sera — ricordava — mi leggeva storie della buonanotte». Smith aveva preso dimestichezza con i libri per ragazzi, poi con autori come Henry Rider Haggard, John Steinbeck, Rudyard Kipling. Era nata in lui l’aspirazione a scrivere, magari nella veste di giornalista, alimentata più tardi negli anni al collegio Cordwalles, in Sudafrica, grazie al sostegno di un insegnante d’inglese che gli si era molto affezionato.
Il padre di Smith riteneva però che ci si dovesse guadagnare la vita in ben altro modo e il giovane Wilbur, dopo la laurea in Scienze commerciali alla Rhodes University, aveva intrapreso il mestiere di contabile per il fisco britannico. Poi si era sposato, ma il suo primo matrimonio, da cui erano nati due figli, era rapidamente naufragato, lasciandolo in difficoltà economiche.
Non aveva però abbandonato il sogno di diventare un narratore e aveva pubblicato i primi racconti, con un soddisfacente riscontro. Invece il romanzo The Gods First Made Mad («Gli dei prima ti fanno impazzire») era stato rifiutato da parecchi editori e non è mai uscito. Lo stesso Smith, rievocando quel suo maldestro tentativo, ne parlava in tono fortemente autocritico, ammettendo di aver commesso «tutti i grossi errori nei quali un giovane scrittore può incappare».
Tutt’altra musica per Il destino del leone, un successo immediato che nel 1964 aveva proiettato l’autore verso la notorietà, consentendogli di diventare un romanziere a tempo pieno, anche se nel Sudafrica bigotto di allora il romanzo era stato vietato. Le vicende drammatiche e strazianti dei fratelli Sean e Garrick Courtney, ambientate nel Natal ottocentesco, avevano affascinato una vasta platea di lettori e dato il via a una saga destinata a durare — coinvolgendo antenati e discendenti dei protagonisti — e a suddividersi in tre cicli che coprono un arco di tempo dal XVII secolo (Uccelli da preda, Longanesi, 1997) ai nostri giorni (Tempesta, HarperCollins Italia, 2021).
Ai Courtney si sarebbero poi aggiunti, a cominciare dal romanzo Quando vola il falco (Longanesi, 1986), i Ballantyne: un’altra stirpe di avventurieri immersa nello scenario di un’Africa selvaggia e contesa lungo un periodo di circa un secolo. E infine le due famiglie si sarebbero incontrate in una ulteriore trascinante saga cominciata con Il trionfo del sole (Longanesi, 2006).
Nel frattempo l’infaticabile Smith aveva prodotto dagli anni Novanta in poi la serie dei suoi romanzi egizi, che si dipanano nell’antica terra delle piramidi: un ciclo di alcuni libri nel quale spicca la figura dell’eunuco Taita, scriba, mago e generale. Altro personaggio al centro di una saga concepita da Smith è Hector Cross, ex ufficiale dei corpi speciali britannici, che ai giorni nostri diventa titolare di un’agenzia di sicurezza e affronta nemici spietati con la determinazione e la prestanza atletica di uno 007 aggiornato.
La vita privata di Smith aveva attraversato diverse fasi. Dopo un secondo matrimonio andato a monte, aveva sposato nel 1971 Danielle Thomas, morta nel 1999 per un tumore al cervello, e quindi nel 2000 erano giunte le quarte nozze con la giovane tagika Mokhiniso Rakhimova, detta Niso. Aveva avuto dai primi due matrimoni una figlia e due figli, con cui i rapporti non erano stati facili.
Ben saldo, come si è detto, era il legame di Smith con l’Italia, dove viaggiava spesso e le sue opere andavano a ruba. Con sincera gratitudine mista forse a un pizzico di adulazione, usava lodare l’eredità culturale dell’antica Roma e anche la missione civilizzatrice svolta dalle legioni nelle isole britanniche. Ma il suo primo amore restava ovviamente l’Africa. Grande ammiratore del presidente sudafricano Nelson Mandela, che definiva «eroe globale», auspicava che il continente riuscisse a difendere meglio il suo patrimonio naturale e a utilizzare in modo equo le tante risorse disponibili.
Innamorato perdutamente del suo lavoro, Smith sosteneva di avere un gran numero di libri in testa «che chiedono a gran voce di essere scritti». In età avanzata continuava a lavorare con immutato entusiasmo, avvalendosi dell’assistenza di coautori ai quali riconosceva il loro ruolo: Giles Christian, Tom Harper, David Churchill, Tom Cain, Mark Chadbourn e altri. Con Chris Wakling aveva inaugurato una serie di libri per ragazzi.
Nel 2018 aveva pubblicato il libro di ricordi Leopard Rock, soffermandosi in particolare sulle vicende più curiose e rocambolesche del periodo in cui trovava eccitante il pericolo. Ma la vocazione più imperiosa di Smith era sempre stata mettersi alla scrivania davanti a fogli da riempire. Sentirsi «creatore di mondi» lo rendeva felice.
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