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venerdì 6 dicembre 2024

Adorno contro l'autenticità




Marco Maurizi, La filosofia e il suo altro. Adorno lettore di Hegel
Dialegesthai, 4 aprile 2001

La filosofia e il suo altro. Questa frase esprime, in sintesi e in tutta la sua paradossalità, il contributo più importante di Adorno alla filosofia come disciplina. La filosofia e il suo altro: pensare, attraverso il pensiero, ciò che pensiero non è. Per Adorno il compito più importante che la filosofia deve prefiggersi è certo quello di pensare l’alterità e la differenza; tale assunto, per altro oggi pacifico ai più, assume in Adorno un aspetto tragico. All’interno della prospettiva adorniana, infatti, sembra quasi impossibile pensare radicalmente l’altro, sfuggire all’incantesimo che chiude il pensiero in se stesso. Ciò che venne visto come il carattere infinitamente positivo del pensiero dall’idealismo, il suo radicarsi nell’Identità, diviene in Adorno condanna, incapacità di uscire dalla gabbia che il pensiero tesse attorno alle cose. E tuttavia, questa la scommessa di Adorno, al pensiero, e solo al pensiero, è affidato il compito di salvare l’alterità radicale e, alla fine, di renderla possibile. Lo schema di questa possibile salvezza è curiosamente custodito tra le pagine del pensatore moderno che più di ogni altro è stato accusato di assoggettare la differenza ad un ordine violento ed onnipervasivo: Hegel.

Se si volesse riassumere drasticamente il debito di Adorno nei confronti di Hegel si avrebbe a disposizione una sola parola: quella “dialettica” che accompagnò il pensiero di Adorno dal libro sull’Aufklärung del 1941 fino alla fine della sua vita. Se ora volessimo illuminare in parte il modello adorniano di dialettica saremmo costretti a prendere in esame l’interpretazione che Adorno dà di Hegel in tutta la sua portata. Altrettanto importante, infatti, dell’eredità hegeliana nel linguaggio e nel modo di concepire la filosofia per Adorno è comprendere come e perché Adorno si distacca da Hegel proponendo uno schema alternativo di dialettica. Da un punto di vista strettamente gnoseologico la concezione adorniana della dialettica manifesta un profondo debito anche nei confronti di Kant, la sua teoria della conoscenza si muove costantemente tra questi due poli, riconoscendo — con Hegel — l’intreccio costitutivo di soggetto e oggetto e — con Kant — la persistente presenza di un residuo che impedisce al soggetto di ridurre a sé l’oggetto.

Th.W. Adorno, Negative Dialektik, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfur am Main 1986, Vol. 6, p. 145. 

Di fatto la dialettica non è né soltanto metodo né qualcosa di reale nel senso dell’intelletto ingenuo. Non un metodo: infatti la cosa inconciliata, cui manca proprio quell’identità, che il pensiero surroga, è contraddittoria e si chiude ad ogni tentativo di una sua interpretazione. Essa, e non l’impulso organizzativo del pensiero, spinge verso la dialettica. Non un semplicemente reale: infatti la contraddizione è una categoria della riflessione, il confronto pensante tra concetto e cosa. Dialettica come procedimento significa pensare in contraddizioni in forza della contraddizione esperita nella cosa e contro di essa. Contraddizione nella realtà, essa è contraddizione contro questa. Ma tale dialettica non si può conciliare con Hegel. Il suo movimento non tende all’identità nella differenza di ogni oggetto dal suo concetto; piuttosto essa ha in sospetto l’identico. La sua logica è logica della disgregazione, nella forma costruita e oggettivizzata dei concetti, che il soggetto conoscente ha immediatamente di fronte a sé. La loro identità con il soggetto è la non verità. Con essa la preformazione soggettiva del fenomeno si insinua davanti al non identico, all’individuum ineffabile.

Marco Maurizi, La filosofia e il suo altro. Adorno lettore di Hegel - Dialegesthai (mondodomani.org)
Theodor W. Adorno, Minima moralia, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1954, pp. 147-152. 



giovedì 4 novembre 2021

Gramsci e la teoria della conoscenza

Giuseppe Cospito, Introduzione a Gramsci, Genova, Il melangolo 1965, p.72 Il rifiuto del realismo ingenuo, che era ancora presupposto in Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin (peraltro mai citato esplicitamente da Gramsci), permette inoltre all’autore dei Quaderni di confrontarsi, sia pure senza l’ausilio di un appropriato linguaggio tecnico, con le punte più avanzate del dibattito epistemologico e scientifico del tempo, dall’atomismo logico di Bertrand Russell alla teoria della relatività di Einstein,accomunate dall’accantonamento di una visione dell’universo come meccanismo che aveva dominato dalla rivoluzione scientifica del Seicento alla “crisi dei paradigmi” di fine Ottocento,oltre che da una rivalutazione dell’impostazione del problema della conoscenza nel criticismo di Kant, cui non è estraneo lo stesso Gramsci, che in carcere si ripropone di “studiar[lo]” e di “rivedere i suoi concetti esattamente” (Q 10, II, § 40).

domenica 1 marzo 2015

Claudio Magris, l'importanza del rispetto per l'altro

Claudio Magris
Offendere non è libertà
Corriere della Sera la Lettura, 1 marzo 2015





Tra le vittime dell’efferata strage dei redattori di «Charlie Hebdo» c’è anche — certo infinitamente meno importante e meno sconvolgente — la logica. È un delitto atroce, compiuto da sicari sfortunatamente morti — sfortunatamente non perché si senta la loro mancanza, ma perché da vivi avrebbero potuto fornire utili informazioni sui loro mandanti e le loro organizzazioni —, che va punito con estrema durezza, risalendo se possibile a chi l’ha voluto e preparato. E che le vittime dell’immondo attentato, redattori della rivista e poliziotti, e i loro famigliari ed amici abbiano diritto a tutta la nostra solidarietà e partecipazione è più che ovvio.
Ma non più — né meno — di altre vittime delle stesse o di altre mani fanatiche, a cominciare dai tanti africani che in quegli stessi giorni venivano massacrati in nome di analoghi fanatismi e quasi appena nominati nelle cronache. Come mai — si è chiesto sul suo blog Dino Cofrancesco, una delle teste più pensanti e più autenticamente e lucidamente liberali del nostro Paese — l’assassinio di tre bambini ebrei e di un rabbino professore a Tolosa nel 2012 ha destato un’emozione e uno sdegno tanto minori? Forse per il loro numero più ristretto? Ma gli africani trucidati dai fondamentalisti in quegli stessi giorni erano assai più numerosi. O perché non erano famosi, non erano artisti, come i vignettisti? Dunque uccidere un celebre artista indigna e sconvolge più che uccidere un bambino, secondo un’orrida, disumana aristocrazia della fama e dell’alloro delle Muse?
Qualche giornale non si è dimenticato della logica, osservando come sia insensato considerare l’eccidio parigino un attentato alla libertà di stampa, quasi fosse una censura governativa: sarebbe come dire, è stato giustamente scritto, che mettere una bomba al mercato ortofrutticolo è un attentato alla libertà di comperare frutta e verdura. È invece un attentato a una libertà e a un diritto più grandi, alla libertà e al diritto di vivere, alla vita delle persone.
La totale solidarietà con gli autori delle vignette in quanto vittime di una sanguinosa e inumana violenza non significa necessariamente osannare quelle vignette. Cofrancesco, laico sino al midollo e radicalmente scevro di quella pappa del cuore che inquina ragione e sentimento, ha scritto che se qualcuno assassinasse un negazionista egli chiederebbe la giusta dura pena per l’assassino senza per questo identificarsi in quel caso con l’assassinato, senza mettersi al collo un cartello con la scritta «Sono David Irving», l’inglese che nega la Shoah.
La premessa di ogni virtù, diceva Kant, è il rispetto, quel profondo rispetto per ogni uomo che nessuna vera satira cancella, se è vera satira ossia indignata e scatenata protesta che vendica gli oltraggi inflitti all’umanità. I grandi poeti satirici — Giovenale, Quevedo, Swift o Kraus — non sono sguaiati privi di rispetto, bensì profeti e vendicatori animati da sacro furore.
Alcune vignette di «Charlie Hebdo», spiritose o scurrili, hanno indubbiamente offeso legittime fedi e sentimenti. Non per questo i loro autori meritavano la morte, perché un’ingiuria viene punita con un’ammenda e non con la ghigliottina. È un’ingiustizia perseguire Dieudonné, il sedicente artista specializzato in oscenità antisemite?
Roberto Casati ha scritto, sul «Sole 24 Ore», che se si persegue la blasfemia bisogna perseguire pure l’ostentazione di simboli religiosi, che a suo avviso offende i bestemmiatori come questi offendono i credenti. Anzitutto la libertà d’espressione, il rispetto e la satira non riguardano soltanto le religioni e le loro negazioni, ma questioni e valori non meno importanti, dall’apologia di reato all’istigazione a delinquere, ad esempio in nome di un’ideologia. Ma libertà d’espressione dovrebbe voler dire libertà di esprimere i propri valori senza offendere quelli altrui e senza sentirsi offesi dai valori professati dagli altri. Perché chi si fa il segno della croce passando davanti a una chiesa dovrebbe offendere chi non se lo fa o viceversa?
Ognuno dev’essere libero di credere e di non credere senza offendere né sentirsi offeso da chi la pensa all’opposto. Non c’è ragione di sentirsi offeso da chi va in chiesa né da chi non ci va. La piaga del nostro tempo, ha scritto Amos Oz sul «Corriere della Sera», non è l’islam bensì il fanatismo, che accomuna gli assassini di Parigi ai cristiani, musulmani ed ebrei violenti.
Certamente ci possono essere ostentazioni offensive, come chi gironzolasse intorno a una moschea inalberando enormi crocifissi o gigantesche stelle di Davide. Ma di per sé la blasfemia non è la stessa cosa che portare al collo una catenina con la croce, così come portare lo zucchetto o i cernecchi non è la stessa cosa che innalzare un cartello che inneggia alla Shoah, perché portare lo zucchetto o una catenina al collo indica semplicemente una legittima appartenenza, mentre la bestemmia o l’irrisione della Shoah vuol ferire l’appartenenza dell’altro.
In nome della stessa logica, scrive ancora Cofrancesco, ognuno, a casa sua, solo o in compagnia di maggiorenni adulti e vaccinati e a patto di non violare specificamente la legge (ad esempio con violenze), è e deve essere libero di fare ciò che vuole, di bestemmiare a suo piacimento o sputare sul pavimento, cosa lecita in casa propria.
Ma come reagiremmo se, in nome della libertà di satira, qualche imbecille facesse delle vignette che sbeffeggiano i vignettisti di «Charlie Hebdo» che, in quanto vite stroncate da abietti assassini, rappresentano veramente l’umanità ossia tutti noi?


mercoledì 10 dicembre 2014

Femmes au siècle des Lumières

Se si dovesse dire in cosa e in quali luoghi si cristallizzò l'ideale della più oziosa, spregiudicata, esigente civiltà europea fra Seicento e Settecento, si potrebbe rispondere: in alcuni salotti di Parigi, dove si celebravano i riti, insieme esoterici e trasparenti, della conversazione. Via via allontanata, per volontà del sovrano, dall'uso della forza come dal potere politico più incisivo, l'aristocrazia spese le sue ultime, dispettose energie nell'elaborare un modo di vivere che pretendeva di raggiungere un traguardo di perfezione a partire dal quale tutto il passato apparisse grezzo e goffo. Con l'ausilio di alcuni geni della socievolezza si creò così una corrente impetuosa che attraversò due secoli e investì vastissimi territori. 
(Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, presentazione editoriale)

La nazione francese si distingue tra tutte per il suo gusto della conversazione in cui è maestra a ogni altra nazione. Essa è cortese, specialmente nei confronti degli stranieri in visita, sebbene oggi non sia più di moda il fare cortigiano. Il Francese è comunicativo non per interesse, ma per un bisogno immediato del suo gusto. Siccome questo gusto riguarda principalmente i rapporti con le donne del gran mondo, la conversazione di tipo femminile si è estesa a tutta la società.
(Kant, Critica della ragion pratica, 1798)


Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia. 
(Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, 1824)



Germaine Necker
Julie de Lespinasse
belle inconnue
Madame de Pompadour



Madame Dupin

sabato 6 settembre 2014

Immagini della filosofia in rassegna

Riccardo Fedriga
Dalla caverna di Platone alla Minerva di Hegel ogni filosofo è un pittore
Ecco come i più grandi pensatori, in qualsiasi epoca storica utilizzano immagini per rendere efficaci le proprie teorie 

Miti, leggende, similitudini e copertine di libri
la Repubblica, 6 settembre 2014

COME nella più classica tradizione filosofica, una delle risposte alla domanda “cosa significa conoscere” rimanda a un’altra domanda, e cioè “cosa significa vedere?” A sua volta, poi, parlare di conoscenza visiva può significare molte cose tra loro differenti. Ne parliamo infatti in merito a quella parte della filosofia che si occupa delle immagini, della visione e delle forme della percezione, cioè dell’estetica. Ma ne parliamo anche, in un arco di problemi filosofici che si estende sino alla definizione dello statuto degli oggetti, reali o meno che siano, cioè alla ontologia.
Pensiamo agli oggetti delle illusioni: che cosa stiamo vedendo quando osserviamo fenomeni del genere? Quando esercitiamo i nostri sensi, cogliamo oggetti reali o siamo immersi in un mondo di illusioni, come nel caso di un bastone che, immerso nell’acqua appare spezzato, create da quegli stessi atti percettivi con cui cerchiamo di entrare in rapporto col mondo?
D’altro canto, anche tralasciando l'iconologia più nota, dalla vaticana Stanza della Segnatura di Raffaello, con l’affresco delle tradizioni di Platone e Aristotele, alla Melancholia di Dürer e al Pensatore di Rodin, elencare e classificare la filosofia per immagini sarebbe comunque un lavoro più lungo del catalogo di Leporello. Invece è utile mostrare, attraverso le immagini, l'inesauribile ricchezza e l'efficacia dell'immaginazione visiva di cui i filosofi sono stati capaci.
Si va da Socrate, di volta in volta satiro e torpedine di mare, all’allegoria della caverna della Repubblica di Platone, per passare all'immagine aristotelica del pilota e della nave, usata per rispecchiare il rapporto complesso tra l'anima e il corpo nell'uomo. I secoli medievali non saranno da meno: basti pensare al fortunato aforisma dei «nani sulle spalle di giganti », con cui nel XII secolo Bernardo di Chartres descriveva i sapienti del proprio tempo, più piccoli dei grandi del passato ma in grado di vedere più lontano. Neppure il rigore della rivoluzione scientifica moderna ignora l'efficacia delle immagini ma, anzi, le sfrutta per spiegare e per produrre consenso attorno alla nuova immagine del mondo: si pensi all’esperimento del gran naviglio di Galilei, elaborato per dimostrare l’uniformità e la relatività del moto. Ma anche al caso di Molyneux, ovvero del cieco dalla nascita che riacquista la vista in età matura: saprebbe egli, solo con la vista e senza aiutarsi con il tatto, distinguere un cubo da una sfera? Un caso che coinvolse filosofi come Locke, Leibniz, Diderot… Al gusto della visualizzazione concettuale non sfuggono le grandi figure della filosofia moderna: ogni studente liceale ricorda Kant e il suo esempio dei cento talleri, tanto reali quanto lo è l’esistenza della realtà. Ma anche la prosa di Hegel, solitamente così ostica e ricca di tecnicismi, si illumina a tratti con immagini come la nottola di Minerva, che come la filosofia si alza solo sul fare della sera, quando la vita si è compiuta.
Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo. (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)

Ma, tra tutte, vi è un particolare tipo di immagini sulle quali non ci sofferma mai abbastanza. Sono le immagini di quegli oggetti materiali, i libri, che hanno trasportato la filosofia nel corso dei secoli. Non si può capire a fondo la portata rivoluzionaria della Instauratio Magna di Francesco Bacone se non si osserva il frontespizio del volume, con quelle colonne d’Ercole che vengono oltrepassate dalla nave della nuova scienza, proiettata a vele spiegate verso i mari aperti del sapere. E che dire della tavole dell’ Encyclopédie di Diderot? Oppure del «pensare per dipinture», come definisce Vico il frontespizio della Scienza Nuova , che funge da quadro sinottico dell’intera opera e da ausilio visivo e mnemotecnico per il lettore. Per finire, tornando agli antichi in un ideale circolo virtuoso, l’immagine forse più celebre è quella della Filosofia che, nella Consolazione della filosofia , appare in persona a Severino Boezio. Insieme allegorica, e storicamente concreta, essa è trasportata in diverse fogge nei secoli attraverso le miniature e le incisioni di manoscritti e libri a stampa, come una donna dal «venerando aspetto». Insomma, i modi di presentare ai lettori gli argomenti filosofici hanno sempre costituito uno strumento per presentare e comunicare sia l’astrazione sia la concretezza storica delle tesi filosofiche. Mai come oggi questi modi sono tanti e potenzialmente alla portata di chiunque: vedere la filosofia, e farla vedere, può costituire la maniera più efficace per renderla presente ai ragazzi che vi si vogliano avvicinare. Per questo si è progettato un manuale di filosofia per le scuole proprio a partire da come viviamo la comunicazione e l’editoria. Oggi i mille supporti a disposizione, iPhone, iPad, smartphone, lavagna elettronica, fanno vedere la filosofia e le sue storie sotto mille angolature possibili. Sono state così tradotte in immagini contemporanee le relazioni tra filosofia, scienza, storia e cultura materiale. E si è fatto sì che queste relazioni aperte fossero tutte interconnesse, dando vita a ovviamente a un’immagine visiva, quella della rete. Per scoprire che, così, la filosofia non l’abbiamo mai vista.
Il secolo Ventesimo è il paradiso di chi vuole vedere la filosofia: si parte dai paradossi spiegati attraverso immagini visive, come quello di Bertrand Russell sul barbiere che rade tutti gli uomini del villaggio tranne quelli che si radono da soli (e quindi chi rade il barbiere?), per giungere agli esperimenti mentali come quello di Thomas Nagel, il quale si chiede se ci si possa mettere nei panni di un pipistrello che di notte va a caccia di insetti: riusciamo a concepire uno spazio costruito a partire esclusivamente da suoni?

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Il testo non cita la colomba di Kant. "La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppo angusti limiti all'intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell'intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l'intelletto. Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un buon fondamento. Se non che, poi si cercano abbellimenti esterni di ogni specie per confortarci sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica”. (Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 38)

lunedì 5 maggio 2014

Il cielo stellato e la coscienza

Immanuel Kant 
Critica della ragion pratica, A 287-290 [1788]

Due cose riempiono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambe le cose non posso cercarle e supporle come fossero nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale (ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il mio valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità, nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, perlomeno quanto può essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa vita, ma si estende all'infinito. Però, stupore e rispetto possono sì spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza.

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Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmenden Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt: Der bestirnte Himmel über mir, und das moralische Gesetz in mir. Beide darf ich nicht als in Dunkelheiten verhüllt, oder im Überschwenglichen, außer meinem Gesichtskreise, suchen und bloß vermuten; ich sehe sie vor mir und verknüpfe sie unmittelbar mit dem Bewußtsein meiner Existenz. Das erste fängt von dem Platze an, den ich in der äußern Sinnenwelt einnehme, und erweitert die Verknüpfung, darin ich stehe, ins unabsehlich-Große mit Welten über Welten und Systemen von Systemen, überdem noch in grenzenlose Zeiten ihrer periodischen Bewegung, deren Anfang und Fortdauer. Das zweite fängt von meinem unsichtbaren Selbst, meiner Persönlichkeit, an, und stellt mich in einer Welt dar, die wahre Unendlichkeit hat, aber nur dem Verstande spürbar ist, und mit welcher (dadurch aber auch zugleich mit allen jenen sichtbaren Welten) ich mich nicht, wie dort, in bloß zufälliger, sondern allgemeiner und notwendiger Verknüpfung erkenne. Der erstere Anblick einer zahllosen Weltenmenge vernichtet gleichsam meine Wichtigkeit, als eines tierischen Geschöpfs, das die Materie, daraus es ward, dem Planeten (einem bloßen Punkt im Weltall) wieder zurückgeben muß, nachdem es eine kurze Zeit (man weiß nicht wie) mit Lebenskraft versehen gewesen. Der zweite erhebt dagegen meinen Wert, als einer Intelligenz, unendlich, durch meine Persönlichkeit, in welcher das moralische Gesetz mir ein von der Tierheit und selbst von der ganzen Sinnenwelt unabhängiges Leben offenbart, wenigstens so viel sich aus der zweckmäßigen Bestimmung meines Daseins durch dieses Gesetz, welche nicht auf Bedingungen und Grenzen dieses Lebens eingeschränkt ist, sondern ins Unendliche geht, abnehmen läßt. Allein, Bewunderung und Achtung können zwar zur Nachforschung reizen, aber den Mangel derselben nicht ersetzen.

domenica 3 marzo 2013

Pillole gramsciane2 Parlamentarismo, populismo e demagogia


Quante volte abbiamo letto in questi ultimi giorni “hanno vinto populismo e demagogia”, e non è un bel complimento! Almeno: chi lo afferma si riferisce generalmente alla parte politica avversa, che ha di solito la “colpa” di aver ottenuto dal “popolo”, dal “demos” più voti, un maggior consenso o almeno di aver “deviato inaspettatamente” il consenso vero o presunto dalla parte “seria” e “veramente democratica” (leggasi Bersani) ai demagoghi di turno (leggasi Berlusconi e Grillo).
Mi è sempre stato difficile comprendere e mi è ogni anno difficile spiegare ai miei studenti la valenza deteriore della “demagogia” (che costantemente si affianca a “populismo”) e far capire perché il termine “democrazia” venga associato da Aristotele a “tirannia” e “oligarchia” per indicare una delle tre forme deteriori di governo, degenerazione rispettivamente di “politèia”, “monarchia” e “aristocrazia” e quindi che occorre pensare che laddove il filosofo greco scrive “democrazia” noi oggi dovremmo leggere “demagogia”.
Certo in Aristotele, come in Kant – il quale ancora nel 1795 scriveva che la democrazia “è necessariamente un dispotismo” – agiscono fortemente l’indubbia diffidenza nei confronti delle masse popolari incolte e la paura che gli interessi di queste masse “povere” di beni materiali e prive di coscienza politica non corrispondano a quelli dell’intera comunità, della “res pubblica”.
Partendo da queste premesse, il “parlamentarismo” tenderebbe anche a ridurre il “pericolo” che soltanto i “poveri” decidano per  tutti (è il timore di Aristotele). La “democrazia parlamentare” è infatti un sistema politico fondato senz’altro sulla “sovranità popolare”, giacché la titolarità del potere appartiene al demos, ma in cui l’esercizio del potere è delegato a rappresentanti eletti dal popolo che, specialmente secondo i vari teorici dell’ “elitismo” – qualunque sia la loro posizione politica (destra, centro o sinistra) –, hanno il compito non soltanto di rappresentare il popolo, ma anche e forse soprattutto di “guidarlo” nella scelta del bene comune.
Uno dei nomi più significativi delle “teorie delle élites” è quello del socialista Robert Michels, che attorno al 1910 studiando in particolare la socialdemocrazia tedesca formula la sua “legge ferrea dell'oligarchia”, in cui sostiene tra l’altro che nella misura in cui cresce l’organizzazione politica, la democrazia si deteriora e si trasforma in oligarchia poiché “l'esistenza di capi è un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale” e “ogni sistema che preveda dei capi è incompatibile con i postulati essenziali della democrazia”.

A Michels fa riferimento Gramsci nel § 97 del Quaderno 6 (1930-1932), in cui leggo un richiamo alla cautela nell’uso di termini come “elezionismo”, “parlamentarismo”, “populismo”, “demagogia”.
Buona lettura!

“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull'ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla cosi detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l'elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l'elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali». Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»). Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo.” (Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni, Quaderni del carcere, Einaudi,  Torino 1977, p. 772)

Francesco Scalambrino