Sara Bentivegna
Internet come forma politica
Europa, 31 agosto 2013
Che la politica, oggi, sia declinata sempre più spesso in termini di
distanza, disaffezione o sfiducia è cosa nota a tutti noi, cittadini
delle democrazie contemporanee. Tra le numerose letture offerte al
riguardo, si colloca quella di Pierre Rosanvallon, studioso francese che
da anni riflette intorno alle trasformazioni della democrazia. La sua,
però, è una lettura decisamente controcorrente: a suo avviso, infatti,
la sfiducia non è necessariamente un sentimento negativo, tale da
condurre alla passività e all’antipolitica. Al contrario, essa può
portare all’espressione e all’affermazione di nuove forme politiche.
Questo netto mutamento di prospettiva deriva dall’abbandono di un
approccio focalizzato sulle conseguenze della sfiducia sul funzionamento
delle istituzioni elettorali-rappresentative a vantaggio di uno mirato a
comprenderne le manifestazioni in un quadro globale e a considerarle
come facenti politicamente sistema, vale a dire ricomprese al suo
interno. L’adozione di un simile approccio comporta l’interpretazione
della sfiducia come spinta a “vegliare affinché il potere eletto rimanga
fedele ai propri impegni”. Per qualche verso, si potrebbe parlare di un
contro-potere, mirato a correggere l’azione politica e a incalzare i
governi a rendere conto della loro azione.
Accade
così che all’ombra della democrazia elettorale-rappresentativa, si
affermi una contro-democrazia, che non è affatto il contrario della
democrazia ma che è, invece, l’espressione della democrazia dei poteri
indiretti presenti nella società. E’, in breve, la democrazia della
sfiducia organizzata, che contrasta e integra la democrazia della
legittimità elettorale. Da questo punto di vista, non vi è dubbio che la
sfiducia faccia politicamente sistema e debba essere considerata come
una vera e propria forma politica.
A partire da tale approccio, Rosanvallon analizza l’affermazione di
nuovi soggetti politici – che talvolta diventano, anche, nuove forme
politiche – nonché le dimensioni costitutive della contro-democrazia
individuate nei poteri di sorveglianza, interdizione e
giudiziarizzazione. Tra queste dimensioni, il potere di sorveglianza è
certamente quello più diffuso ed evidente nelle attuali società e si
configura anche come un antidoto al problema del rapporto tra eletti ed
elettori. L’esercizio di un simile potere testimonia altresì la presenza
di forme alternative di espressione da parte dei cittadini che vanno
oltre il voto: nella “società della sfiducia”, infatti, si realizza una
profonda trasformazione della cittadinanza al di fuori delle
tradizionali istituzioni di rappresentanza e negoziazione. Queste
trasformazioni dell’ambito partecipativo ed espressivo hanno trovato un
incredibile alleato in Internet, presentato come uno spazio
generalizzato di vigilanza e valutazione del mondo. Grazie a Internet,
le nuove esigenze di vigilanza nei confronti dei governanti proprie dei
cittadini si rendono visibili e realizzabili nonché condivisibili. Non a
caso, Rosanvallon ritiene che Internet possa essere considerata
propriamente una forma politica.
Il netto rovesciamento in positivo dell’avvento della “società della
sfiducia” ha fatto sì che Rosanvallon venisse accusato di essere troppo
ottimista circa le conseguenze sull’evoluzione politica delle società
contemporanee. Se è certamente vero che scarsa attenzione viene prestata
alle inevitabili trasformazioni dei sistemi rappresentativi, è
altrettanto vero che molte riflessioni offerte nel testo sono di grande
utilità per leggere la più recente storia politica: la centralità della
dimensione della vigilanza nella proposta politica di alcuni soggetti,
l’interpretazione di internet come luogo e forma di nuove espressioni
politiche e l’affermazione di nuovi attori. Inoltre, si deve aggiungere
che Rosanvallon dichiara molto chiaramente che il suo obiettivo è quello
di descrivere le conseguenze della diffusione della sfiducia sulla
società piuttosto che sul sistema politico-elettorale. Alla luce di tale
obiettivo, non si può che riflettere sulla sua analisi ed essere pronti
a individuare le nuove forme di coinvolgimento civico che si diffondono
sotto i nostri occhi nonché le espressioni proprie della
contro-democrazia.
sabato 31 agosto 2013
giovedì 29 agosto 2013
L'Europa tedesca
ULRICH BECK, Europa sull'orlo del collasso
Scritto da Benedetto Vecchi, il manifesto
Giovedì 29 Agosto 2013 07:33 -
L'Europa parla sempre più tedesco. È il commento che, come un virus, si è diffuso nel vecchio continente. Attesta l'indubbia egemonia di Berlino nel definire le politiche dell'Unione Europea. A questo tema lo studioso tedesco Ulrich Beck ha dedicato un saggio - Europa tedesca, Laterza. Ne ha scritto su queste pagine Marco Bascetta il 31 maggio -, nel quale analizza la politica portata avanti da Angela Merkel. Beck non esita a criticarla e a mettere in evidenza il doppio regime seguito da Berlino: neoliberista in Europa, moderatamente in difesa del modello renano in casa.
Ma la sua riflessione si concentra anche sul fatto che la crisi economica ha accelerato la formazione di movimenti sociali che si muovono certamente sul piano locale, nazionale, ma all'interno di una cornice globale. O come preferisce qualificarla: cosmopolita. Da qui la consapevolezza di una crescente «provincializzazione» del Vecchio Continente all'interno di una geografia del potere mondiale che vede ormai protagonisti paesi come l'India, la Cina, il Brasile.
Allo stesso tempo individua nei movimenti sociali l'unico antidoto possibile per le forme di nazionalismo che carsicamente ritorna ad occupare la scena nei paesi europei.
Ulrich Beck non è nuovo nell'analisi di come la «società del rischio» - espressione da lui coniata nel tramonto del Novecento - imponga di fare i conti con l'interdipendenza del capitalismo mondiale e con le ambivalenze dei fenomeni sociali emergenti nel capitalismo neoliberista. Esercita un cauto ottimismo della ragione e della volontà, proprio a partire da quei movimenti sociali che ormai sono diventati una costante nell'agenda politica globale. Sia ben chiaro, il teorico tedesco non propone nessun superamento del capitalismo. Il suo punto di vista è semmai da inscrivere nei tentativi di innovazione del modello sociale che si è soliti definire come il capitalismo del welfare state. Ma esprime posizioni che lo rendono un «compagno di strada» per chi invece opera per un superamento dell'attuale regime di accumulazione capitalista. Sapendo però che per superarlo non c'è spazio per un ritorno nostalgico allo Stato-nazione, considerato a sinistra come l'ultima linea di resistenza al capitalismo glocale.
L'intervista affronta i temi che il teorico tedesco proporrà il primo settembre, in qualità di ospite al Festival della mente di Sarzana.
Nel suo ultimo libro - Europa tedesca, Laterza - concentra la sua analisi sull'egemonia tedesca nel definire la politica economica e sociale dell'Unione Europea. Tuttavia, in Germania, il welfare state - e i corrispondenti diritti sociali - è un modello sociale e politico che, seppur modificato nel corso degli anni Ottanta e Novanta, continua a essere un punto fermo dell'agenda politica. Questo è però in contraddizione con la cornice neoliberista che racchiude invece le politiche economiche europee. Come spiega questa contraddizione?
La politica di Angela Merkel è piena di contraddizioni. Sul piano europeo, vuol imporre un'agenda politica neoliberale ai paesi mediterranei e alla Francia. Sul piano nazionale attua, invece, una politica moderatamente socialdemocratica. Un caso esemplare di questo doppio regime viene dalla difesa del settore dell'acciaio tedesco: un protezionismo che tende a difendere i livelli occupazionali che è in contraddizione con il credo del libero mercato che plasma invece le politiche economiche degli altri paesi. Potremmo affermare che l'ortodossia neoliberale vale come principio regolatore, ma che può conoscere deroghe a livello domestico. Un'altra contraddizione: Angela Merkel persegue una strategia che delega alla Banca centrale europea la gestione della crisi economica che ha colpito molti paesi del vecchio continente. Questo non significa tuttavia che la Germania sia insensibile al destino dell'Europa. La sua vocazione europea emerge proprio dal tentativo di condizionare la politica dell'Ue affinché non accada quel big bang del Vecchio Continente che molti analisti hanno visto profilarsi all'orizzonte.
In Europa assistiamo, però, a una crisi del processo di unificazione politica che coincide con la cosiddetta crisi del debito sovrano. E questo avviene proprio quando sono pochi gli studiosi o i leader politici che mettono in discussione l'ortodossia neoliberale....
C'è una significativa distanza tra la visione dell'Europa delle élite continentali e la percezione che ne hanno i popoli europei. La stragrande maggioranza dei governi del Vecchio Continente impone politiche di austerità in nome degli imperativi del mercato che hanno nell'Unione europea un solerte guardiano. Spesso la retorica dominante afferma che non «c'è alternativa» a quegli imperativi. I popoli europei vedono così svanire ogni possibilità di poter influire, condizionare le politiche stabilite in nome del libero mercato.
L'austerità è quindi vista come un marchingegno che li rende ostaggio e sudditi di qualcosa di lontano dalla loro vita. La distanza che emerge da quanto impongono le élite e i bisogni dei popoli spiega ad esempio la genesi di molti movimenti sociali di protesta in Europa, Nordafrica, ma anche, come è accaduto recentemente, in Turchia. È una distanza che non va sottovalutata, perché potrebbe portare alla morte del processo di unificazione politico dell'Europa.
Recentemente, il filosofo francese Etienne Balibar ha sostenuto che in Europa il potere politico ha imposto una «rivoluzione dall'alto» per trovare una via d'uscita neoliberale dalla crisi del neoliberismo. Balibar si riferiva all'esperienza dei governi tecnici, come in Italia, o al commissariamento di alcuni governi dell'Europa mediterranea, come in Grecia. Stiamo dunque assistendo a prove tecniche di una rivoluzione dall'alto?
Non sono sicuro di essere d'accordo con questa analisi. Sono invece interessato a capire come il sotterraneo nazionalismo che vediamo manifestarsi carsicamente possa mettere in discussione l'Unione Europea. Sono cioè convinto che il nazionalismo sia il nemico non tanto dell'Europa, bensì degli interessi dei paesi europei. La difesa degli interessi dell'Italia, ad esempio, può rafforzarsi solo in un ambito europeo e non in una politica nazionalista. E questo vale per tutti i paesi europei, non solo per il vostro paese. Per me, sovranità significa esercitare un potere all'interno di una cornice sovranazionale. E quel potere, in Europa, lo puoi esercitare solo se accetti lo spazio europeo come il miglior contesto nel quale far valere le tue ragioni nazionali per quanto riguarda le politiche ambientali, l'immigrazione, la disoccupazione.
Vorrei insistere sulle forme politiche che si stanno sviluppando durante la crisi del debito sovrano. Abbiamo visto prima profilarsi il governo dei tecnici, il commissariamento di alcuni paesi. Ora assistiamo a governi di grande coalizione, come quello italiano delle larghe intese. Dal 2008 in poi abbiamo anche notato il manifestarsi di movimenti sociali che hanno espresso una critica e una opposizione alle politiche di austerità. Abbiamo osservato movimenti di difesa dei cosiddetti beni comuni, movimenti per interventi contro una disoccupazione e una precarietà sempre più diffusi. Cosa ne pensa di una visione politica che crede nell'Europa, ma che è contro l'Unione europea?
Da tempo, ho sviluppato una prospettiva cosmopolita che considera l'Europa solo come componente del pianeta Terra. Tuttavia, noi europei siamo chiamati a costruirla. L'obiettivo è realizzarla dal basso e non dall'alto, come invece è accaduto finora. Dobbiamo cioè costruire una società europea che contrasti e affronti i rischi di un capitalismo che, se lasciato a se stesso, corrode il legame sociale e mette a repentaglio le misure di protezione, pazientemente costruite in passato. Le politiche di austerità sono state presentate come misure necessarie per fronteggiare la crisi finanziaria, ma alimentano diseguaglianze sociale, favoriscono il salvataggio delle banche responsabili di quella stessa crisi finanziaria che legittima le politiche di austerità.
Molti uomini e donne vedono nell'austerità un vero e proprio mostro che divora le loro vite. Di fronte a questa situazione, assume nuova centralità l'antico termine «comunità». Al cospetto del dominio dell'individuo senza legami e responsabilità verso gli altri, la solidarietà che si intravede dietro il richiamo alla comunità ha un forte potere attrattivo. Rispetto alla sua domanda, potrei dire che abbiamo bisogno di maggiore sicurezza sociale e dunque di più Europa, perché è il contesto politico che la può favorire.
Nella società del rischio, il possibile collasso dell'economia può essere vista come un'opportunità per trasformare la realtà. Recentemente, tuttavia, molti opinion makers parlano di una possibile apocalisse del capitalismo. Le cosa pensa di questa «profezia»?
Non sono d'accordo con loro. E la realtà comunque non è così semplice così come la descrivono. Dobbiamo invece fare i conti con la complessità e l'ambivalenza della società del rischio. Quando ho cominciato a parlarne, mi sono concentrato sull'interdipendenza di alcuni fenomeni. E sulla loro ambivalenza. Successivamente, ho posto al centro della mia riflessione, il cosmopolitismo, che è una visione della realtà pregna di speranza nel poter cambiare la realtà.
Il cosmopolitismo politico basato su una società civile globale può prevenire gli effetti collaterali - il cambiamento climato, le migrazioni, le diseguaglianze sociali - insiti nello sviluppo capitalistico. Il cambiamento climatico, ad esempio, impone come realistico il motto «cooperare o morire». In questo caso, il cosmopolitismo è un antidoto alla guerra e una via per superare il modello neoliberista e trovare nuove forme di responsabilità sovranazionali. Allo stesso tempo rafforzerebbe le richieste di maggiore di giustizia sociale e eguaglianza avanzate dai paesi «poveri». In altri termini, una visione apocalittica della crisi del capitalismo rafforza il modello neoliberista, lo blinda rispetto le possibilità di trasformarlo.
Impero, neoimperialismo, governo multilivello: sono queste le forme politiche usate per dipingere la globalizzazione. Ma corrono il rischio di fornire una rappresentazione statica del potere mondiale. Ci sono paesi - l'India, la Cina, il Brasile, la stessa Russia - che mettono in discussione gli assetti di potere globale. Qual è secondo lei la nuova geografia del potere che sta emergendo?
Parto dal presupposto che dobbiamo guardare all'Europa con gli occhi degli altri per avere chiara la prospettiva di ciò che è accaduto e che accadrà. Non c'è stato solo uno spostamento del potere a favore di alcuni paesi postcoloniali (fattore che si riflette nella partecipazione di alcuni di loro ai summit del G-20). Abbiamo infatti assistito a uno spostamento del centro di gravità del potere economico dall'Atlantico al Pacifico. E, cosa meno prevedibile, è la perdita del monopolio del dollaro negli affari. Le riserve federali non costituiscono più l'alfa e l'omega degli scambi commerciali perché si stanno sviluppando forme bilaterali di scambi economici che fanno leva su valute diverse da quella statunitense.
Sono tutti fenomeni che hanno il loro centro nei rapporti di cooperazione economica tra paesi nel Sud del mondo o tra quelli del Sud e dell'Est del pianeta. Questo significa che l'asso tra Europa e Stati Uniti sta perdendo non solo importanza economica, ma anche «morale». Il risultato è che il modello occidentale delle relazioni tra centro e periferia è al collasso. La novità è che i paesi, un tempo sottoposti al potere coloniale dell'Europa, svolgono oggi un ruolo sempre più egemonico nel Vecchio Continente. L'India è ormai una potenza economica; la Cina ha investito miliardi di euro in Grecia, costituendo per il paese ellenico una alternativa credibile all'Europa. E Pechino sta investendo molto anche in Spagna. La geografia del potere è dunque molto mutata e presenta un pianeta che non potrà mai più avere il suo centro di gravità nell'Occidente.
In un suo libro, dedicato al lavoro nella globalizzazione, lei ha sostenuto che il reddito di cittadinanza è la soluzione alla precarietà e alla disoccupazione strutturale nel capitalismo. Ha anche sostenuto che il lavoro ha perso la sua centralità nella vita sociale. Eppure la disoccupazione e la precarietà sono l'inferno dentro il quale si trovano a vivere milioni di uomini e donne in Europa. Come spiega questo paradosso costituito dalla crisi dell'etica del lavoro con la disoccupazione e la precarietà?
Molti dei paesi europei guardano con ammirazione il miracolo tedesco della piena occupazione. Ma chiudono gli occhi che più della metà degli occupati tedeschi sono precari. In Germania, infatti, si parla di mini-jobs, di lavoro in affitto. Non è soltanto il lavoro ad essere in crisi, bensì il suo significato stesso. Nel cuore dell'Europa stiamo assistendo a un ridisegno del mercato del lavoro, con le caratteristiche che ricordano il lavoro e l'economia informale di molti paesi nel Sud del pianeta.
Nel libro a cui fa riferimento scrivevo di una «brasilianizzazione» del mercato del lavoro. Era certo una descrizione approssimativa, ma quello che è certo è che il vecchio arsenale delle politiche del lavoro è insufficiente, se non inutile. L'ideologia del libero mercato e le politiche conseguenti hanno distrutto l'insieme delle sicurezze sociali costruite nel secolo scorso. E rischia di distruggere anche la democrazia.
È questa la vera questione sociale e politica con cui fare i conti.
Scritto da Benedetto Vecchi, il manifesto
Giovedì 29 Agosto 2013 07:33 -
Un'intervista con il
sociologo tedesco, che sarà fra gli ospiti del Festival della Mente di
Sarzana. «Una visione apocalittica della crisi del capitalismo rafforza
il modello neoliberista e lo blinda, negando così le possibilità di
trasformarlo»
L'Europa parla sempre più tedesco. È il commento che, come un virus, si è diffuso nel vecchio continente. Attesta l'indubbia egemonia di Berlino nel definire le politiche dell'Unione Europea. A questo tema lo studioso tedesco Ulrich Beck ha dedicato un saggio - Europa tedesca, Laterza. Ne ha scritto su queste pagine Marco Bascetta il 31 maggio -, nel quale analizza la politica portata avanti da Angela Merkel. Beck non esita a criticarla e a mettere in evidenza il doppio regime seguito da Berlino: neoliberista in Europa, moderatamente in difesa del modello renano in casa.
Ma la sua riflessione si concentra anche sul fatto che la crisi economica ha accelerato la formazione di movimenti sociali che si muovono certamente sul piano locale, nazionale, ma all'interno di una cornice globale. O come preferisce qualificarla: cosmopolita. Da qui la consapevolezza di una crescente «provincializzazione» del Vecchio Continente all'interno di una geografia del potere mondiale che vede ormai protagonisti paesi come l'India, la Cina, il Brasile.
Allo stesso tempo individua nei movimenti sociali l'unico antidoto possibile per le forme di nazionalismo che carsicamente ritorna ad occupare la scena nei paesi europei.
Ulrich Beck non è nuovo nell'analisi di come la «società del rischio» - espressione da lui coniata nel tramonto del Novecento - imponga di fare i conti con l'interdipendenza del capitalismo mondiale e con le ambivalenze dei fenomeni sociali emergenti nel capitalismo neoliberista. Esercita un cauto ottimismo della ragione e della volontà, proprio a partire da quei movimenti sociali che ormai sono diventati una costante nell'agenda politica globale. Sia ben chiaro, il teorico tedesco non propone nessun superamento del capitalismo. Il suo punto di vista è semmai da inscrivere nei tentativi di innovazione del modello sociale che si è soliti definire come il capitalismo del welfare state. Ma esprime posizioni che lo rendono un «compagno di strada» per chi invece opera per un superamento dell'attuale regime di accumulazione capitalista. Sapendo però che per superarlo non c'è spazio per un ritorno nostalgico allo Stato-nazione, considerato a sinistra come l'ultima linea di resistenza al capitalismo glocale.
L'intervista affronta i temi che il teorico tedesco proporrà il primo settembre, in qualità di ospite al Festival della mente di Sarzana.
Nel suo ultimo libro - Europa tedesca, Laterza - concentra la sua analisi sull'egemonia tedesca nel definire la politica economica e sociale dell'Unione Europea. Tuttavia, in Germania, il welfare state - e i corrispondenti diritti sociali - è un modello sociale e politico che, seppur modificato nel corso degli anni Ottanta e Novanta, continua a essere un punto fermo dell'agenda politica. Questo è però in contraddizione con la cornice neoliberista che racchiude invece le politiche economiche europee. Come spiega questa contraddizione?
La politica di Angela Merkel è piena di contraddizioni. Sul piano europeo, vuol imporre un'agenda politica neoliberale ai paesi mediterranei e alla Francia. Sul piano nazionale attua, invece, una politica moderatamente socialdemocratica. Un caso esemplare di questo doppio regime viene dalla difesa del settore dell'acciaio tedesco: un protezionismo che tende a difendere i livelli occupazionali che è in contraddizione con il credo del libero mercato che plasma invece le politiche economiche degli altri paesi. Potremmo affermare che l'ortodossia neoliberale vale come principio regolatore, ma che può conoscere deroghe a livello domestico. Un'altra contraddizione: Angela Merkel persegue una strategia che delega alla Banca centrale europea la gestione della crisi economica che ha colpito molti paesi del vecchio continente. Questo non significa tuttavia che la Germania sia insensibile al destino dell'Europa. La sua vocazione europea emerge proprio dal tentativo di condizionare la politica dell'Ue affinché non accada quel big bang del Vecchio Continente che molti analisti hanno visto profilarsi all'orizzonte.
In Europa assistiamo, però, a una crisi del processo di unificazione politica che coincide con la cosiddetta crisi del debito sovrano. E questo avviene proprio quando sono pochi gli studiosi o i leader politici che mettono in discussione l'ortodossia neoliberale....
C'è una significativa distanza tra la visione dell'Europa delle élite continentali e la percezione che ne hanno i popoli europei. La stragrande maggioranza dei governi del Vecchio Continente impone politiche di austerità in nome degli imperativi del mercato che hanno nell'Unione europea un solerte guardiano. Spesso la retorica dominante afferma che non «c'è alternativa» a quegli imperativi. I popoli europei vedono così svanire ogni possibilità di poter influire, condizionare le politiche stabilite in nome del libero mercato.
L'austerità è quindi vista come un marchingegno che li rende ostaggio e sudditi di qualcosa di lontano dalla loro vita. La distanza che emerge da quanto impongono le élite e i bisogni dei popoli spiega ad esempio la genesi di molti movimenti sociali di protesta in Europa, Nordafrica, ma anche, come è accaduto recentemente, in Turchia. È una distanza che non va sottovalutata, perché potrebbe portare alla morte del processo di unificazione politico dell'Europa.
Recentemente, il filosofo francese Etienne Balibar ha sostenuto che in Europa il potere politico ha imposto una «rivoluzione dall'alto» per trovare una via d'uscita neoliberale dalla crisi del neoliberismo. Balibar si riferiva all'esperienza dei governi tecnici, come in Italia, o al commissariamento di alcuni governi dell'Europa mediterranea, come in Grecia. Stiamo dunque assistendo a prove tecniche di una rivoluzione dall'alto?
Non sono sicuro di essere d'accordo con questa analisi. Sono invece interessato a capire come il sotterraneo nazionalismo che vediamo manifestarsi carsicamente possa mettere in discussione l'Unione Europea. Sono cioè convinto che il nazionalismo sia il nemico non tanto dell'Europa, bensì degli interessi dei paesi europei. La difesa degli interessi dell'Italia, ad esempio, può rafforzarsi solo in un ambito europeo e non in una politica nazionalista. E questo vale per tutti i paesi europei, non solo per il vostro paese. Per me, sovranità significa esercitare un potere all'interno di una cornice sovranazionale. E quel potere, in Europa, lo puoi esercitare solo se accetti lo spazio europeo come il miglior contesto nel quale far valere le tue ragioni nazionali per quanto riguarda le politiche ambientali, l'immigrazione, la disoccupazione.
Vorrei insistere sulle forme politiche che si stanno sviluppando durante la crisi del debito sovrano. Abbiamo visto prima profilarsi il governo dei tecnici, il commissariamento di alcuni paesi. Ora assistiamo a governi di grande coalizione, come quello italiano delle larghe intese. Dal 2008 in poi abbiamo anche notato il manifestarsi di movimenti sociali che hanno espresso una critica e una opposizione alle politiche di austerità. Abbiamo osservato movimenti di difesa dei cosiddetti beni comuni, movimenti per interventi contro una disoccupazione e una precarietà sempre più diffusi. Cosa ne pensa di una visione politica che crede nell'Europa, ma che è contro l'Unione europea?
Da tempo, ho sviluppato una prospettiva cosmopolita che considera l'Europa solo come componente del pianeta Terra. Tuttavia, noi europei siamo chiamati a costruirla. L'obiettivo è realizzarla dal basso e non dall'alto, come invece è accaduto finora. Dobbiamo cioè costruire una società europea che contrasti e affronti i rischi di un capitalismo che, se lasciato a se stesso, corrode il legame sociale e mette a repentaglio le misure di protezione, pazientemente costruite in passato. Le politiche di austerità sono state presentate come misure necessarie per fronteggiare la crisi finanziaria, ma alimentano diseguaglianze sociale, favoriscono il salvataggio delle banche responsabili di quella stessa crisi finanziaria che legittima le politiche di austerità.
Molti uomini e donne vedono nell'austerità un vero e proprio mostro che divora le loro vite. Di fronte a questa situazione, assume nuova centralità l'antico termine «comunità». Al cospetto del dominio dell'individuo senza legami e responsabilità verso gli altri, la solidarietà che si intravede dietro il richiamo alla comunità ha un forte potere attrattivo. Rispetto alla sua domanda, potrei dire che abbiamo bisogno di maggiore sicurezza sociale e dunque di più Europa, perché è il contesto politico che la può favorire.
Nella società del rischio, il possibile collasso dell'economia può essere vista come un'opportunità per trasformare la realtà. Recentemente, tuttavia, molti opinion makers parlano di una possibile apocalisse del capitalismo. Le cosa pensa di questa «profezia»?
Non sono d'accordo con loro. E la realtà comunque non è così semplice così come la descrivono. Dobbiamo invece fare i conti con la complessità e l'ambivalenza della società del rischio. Quando ho cominciato a parlarne, mi sono concentrato sull'interdipendenza di alcuni fenomeni. E sulla loro ambivalenza. Successivamente, ho posto al centro della mia riflessione, il cosmopolitismo, che è una visione della realtà pregna di speranza nel poter cambiare la realtà.
Il cosmopolitismo politico basato su una società civile globale può prevenire gli effetti collaterali - il cambiamento climato, le migrazioni, le diseguaglianze sociali - insiti nello sviluppo capitalistico. Il cambiamento climatico, ad esempio, impone come realistico il motto «cooperare o morire». In questo caso, il cosmopolitismo è un antidoto alla guerra e una via per superare il modello neoliberista e trovare nuove forme di responsabilità sovranazionali. Allo stesso tempo rafforzerebbe le richieste di maggiore di giustizia sociale e eguaglianza avanzate dai paesi «poveri». In altri termini, una visione apocalittica della crisi del capitalismo rafforza il modello neoliberista, lo blinda rispetto le possibilità di trasformarlo.
Impero, neoimperialismo, governo multilivello: sono queste le forme politiche usate per dipingere la globalizzazione. Ma corrono il rischio di fornire una rappresentazione statica del potere mondiale. Ci sono paesi - l'India, la Cina, il Brasile, la stessa Russia - che mettono in discussione gli assetti di potere globale. Qual è secondo lei la nuova geografia del potere che sta emergendo?
Parto dal presupposto che dobbiamo guardare all'Europa con gli occhi degli altri per avere chiara la prospettiva di ciò che è accaduto e che accadrà. Non c'è stato solo uno spostamento del potere a favore di alcuni paesi postcoloniali (fattore che si riflette nella partecipazione di alcuni di loro ai summit del G-20). Abbiamo infatti assistito a uno spostamento del centro di gravità del potere economico dall'Atlantico al Pacifico. E, cosa meno prevedibile, è la perdita del monopolio del dollaro negli affari. Le riserve federali non costituiscono più l'alfa e l'omega degli scambi commerciali perché si stanno sviluppando forme bilaterali di scambi economici che fanno leva su valute diverse da quella statunitense.
Sono tutti fenomeni che hanno il loro centro nei rapporti di cooperazione economica tra paesi nel Sud del mondo o tra quelli del Sud e dell'Est del pianeta. Questo significa che l'asso tra Europa e Stati Uniti sta perdendo non solo importanza economica, ma anche «morale». Il risultato è che il modello occidentale delle relazioni tra centro e periferia è al collasso. La novità è che i paesi, un tempo sottoposti al potere coloniale dell'Europa, svolgono oggi un ruolo sempre più egemonico nel Vecchio Continente. L'India è ormai una potenza economica; la Cina ha investito miliardi di euro in Grecia, costituendo per il paese ellenico una alternativa credibile all'Europa. E Pechino sta investendo molto anche in Spagna. La geografia del potere è dunque molto mutata e presenta un pianeta che non potrà mai più avere il suo centro di gravità nell'Occidente.
In un suo libro, dedicato al lavoro nella globalizzazione, lei ha sostenuto che il reddito di cittadinanza è la soluzione alla precarietà e alla disoccupazione strutturale nel capitalismo. Ha anche sostenuto che il lavoro ha perso la sua centralità nella vita sociale. Eppure la disoccupazione e la precarietà sono l'inferno dentro il quale si trovano a vivere milioni di uomini e donne in Europa. Come spiega questo paradosso costituito dalla crisi dell'etica del lavoro con la disoccupazione e la precarietà?
Molti dei paesi europei guardano con ammirazione il miracolo tedesco della piena occupazione. Ma chiudono gli occhi che più della metà degli occupati tedeschi sono precari. In Germania, infatti, si parla di mini-jobs, di lavoro in affitto. Non è soltanto il lavoro ad essere in crisi, bensì il suo significato stesso. Nel cuore dell'Europa stiamo assistendo a un ridisegno del mercato del lavoro, con le caratteristiche che ricordano il lavoro e l'economia informale di molti paesi nel Sud del pianeta.
Nel libro a cui fa riferimento scrivevo di una «brasilianizzazione» del mercato del lavoro. Era certo una descrizione approssimativa, ma quello che è certo è che il vecchio arsenale delle politiche del lavoro è insufficiente, se non inutile. L'ideologia del libero mercato e le politiche conseguenti hanno distrutto l'insieme delle sicurezze sociali costruite nel secolo scorso. E rischia di distruggere anche la democrazia.
È questa la vera questione sociale e politica con cui fare i conti.
martedì 27 agosto 2013
Mo Yan, Sorgo rosso
Cesare Cases
l'Indice, gennaio 1995
titolo originale: In lotta contro i mostri meccanici
l'Indice, gennaio 1995
titolo originale: In lotta contro i mostri meccanici
Nel
paese di Gaomi, attraversato dal fiume Moshui, cresce un cereale, il
sorgo rosso, o meglio cresceva ai tempo dei banditi e degli eroi, in
quello che Hegel avrebbe chiamato lo "stato epico del mondo",
mentre ora ci sono dei "mostruosi fusti" che usurpano lo
stesso nome "ma non sono alti e diritti, non hanno un colore
splendente". In Cina le due epoche, quella degli eroi e quella
della "prosa del mondo", sono molto vicine, e la guerra
cino-giapponese, costringendo pacifici coltivatori del sorgo a
difendersi contro i mostri meccanici dei "diavoli giapponesi"
(c'è una pagina molto bella in cui si descrive lo stupore dei
contadini alla vista di una fila di camion), le rende ancora più
vicine.
Il romanzo si svolge appunto durante questa guerra (1937-45),
con carrellate all'indietro e in avanti. La storia è nota attraverso
l'eccellente film di Zhang Yimou. Ma per il rapporto tra narrativa e
cinema vale la barzelletta di Pirandello quando qualcuno voleva
accendergli la sigaretta senza riuscirci: "Che successo avrebbe avuto
l'inventore del fiammifero se fosse venuto dopo quello
dell'accendino!"
La storia abbraccia tre generazioni: quella
dell'autore, nelle sue memorie d'infanzia, quella di suo padre e
quella dei suoi nonni. Non c'è né ci deve essere verosimiglianza
craonachistica. Ci sono sfasamenti e inversioni temporali, ma si
torna sempre al centro immobile della vicenda: la distruzione del
villaggio e dei suoi abitanti ad opera dei giapponesi, e siccome
questi abitanti sono dominati dalla potente personalità del nonno,
il grande bandito, hanno tutti lo spirito del bandito e non si
identificano mai del tutto con i comunisti, che accusano di averli
abbandonati al momento buono, né meno che mai con i nazionalisti.
Del resto la storia è tanto più persuasiva quanto più si
allontana, sfumando nel mito, in cui può rientrare ogni momento come
nella terribile battaglia tra uomini e cani verso la fine. La
continuità del mito è assicurata dalla continuità del sorgo, che
appare nel titolo di tre sui cinque libri che compongono il romanzo
(gli altri due parlano dei non meno mitici cani). Per parte sua, il
vino di sorgo, che dà una sottile ebbrezza, è parente stretto del
sangue, con cui si mescola spesso e volentieri. E qui il sangue non
manca.
All'inizio c'è l'omicidio del ricco proprietario della
distilleria di sorgo, il cui figlio lebbroso dovrebbe sposare la
nonna del narratore, la bellissima Fenglian. Ma il portatore e
bandito Zhan'ao, che si è innamorato della donna alla vista del suo
microscopico piedino, la libera col pugnale dal brutto marito e dal
ricco suocero, di cui eredita la distilleria. Su questa famiglia
relativamente tranquilla anche dopo l'avvento della "secondo
nonna", una nuova compagna di Zhan'ao, si scatena l'offensiva
giapponese, che trasforma Zhan'ao nel mitico "comandante Yu"
e la nonna Fenglian in un'eroina nazionale, che prima di morire trova
il modo di fermare i giapponesi. Per conto suo, il figlio del
comandante (e padre del narratore) si copre di allori uccidendo con
una fucilata un generale giapponese. Ma questo non diminuisce la
ferocia dei nemici, che lasciano vivi solo pochi abitanti del
villaggio e uccidono gli altri magari scuoiandoli vivi, come accade
all'inizio allo zio Liu, un operaio che aveva rimesso in uso la
distilleria dopo la morte del proprietario e continuava a dirigerla.
Ma la morte non viene solo dagli uomini. Contro i pochi superstiti,
già scoraggiati, feriti e denutriti, si scatena la furia dei cani,
che colgono l'occasione per ribellarsi alla tirannia dell'uomo. Sono
forse le pagine più straordinarie di un libro che è tutto
straordinario.
L'impassibilità epica, che aveva reso possibile la
descrizione della fine atroce dello zio Liu, qui appare
nell'obiettività con cui è trattato quest'ultimo conflitto. I cani
sono guidati dai tre cani della famiglia del comandante Yu, Fulvo,
Verde e Nero, tra cui soprattutto Fulvo aveva sviluppato tali qualità
strategiche che "neanche l'intelligente genere umano avrebbe
potuto criticarlo". La lotta diventa quindi una lotta tra pari,
tanto che l'esito è a lungo incerto e due poveri cinesi subiscono
una fine se possibile peggiore dello zio Liu, cioè sono divorati
vivi brano a brano. Non credo che ci siano opere, se non di
fantascienza, in cui la superiorità della razza umana è messa così
radicalmente in questione. Non a caso questo avviene in un paese come
la Cina umiliato per secoli da vecchi e nuovi imperialisti e trattato
veramente "da cane". Quarantasei anni dopo un fulmine apre
la fossa comune in cui sono sepolti alla rinfusa uomini, cinesi e
giapponesi, banditi e regolari, e cani, le cui ossa tirate a lucido
quasi non si distinguono da quelle umane. Il tempo e la morte
eguagliano tutto.
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lunedì 26 agosto 2013
Generazione perduta
Maurizio Ricci
la Repubblica, 16 luglio 2013
È la recessione, si dice.
Laura ha 24 anni e, in tasca, una bella laurea in chimica. Per lei, il mondo dovrebbe cominciare ora. Invece, lavora a Madrid in uno Starbucks a servire caffè. Be', forse lavorare è un termine eccessivo: dieci ore a settimana e paga conseguente. All'altro capo della Spagna, a Barcellona, Aida, 27 anni, si è laureata sei anni fa come bibliotecaria, ma non ha mai visto una biblioteca. È riuscita a lavorare solo come cameriera in un ristorante.
Fino a un anno fa, quando l'hanno licenziata. Da allora, più nulla: è ferma a casa. Storie spagnole, che noi italiani riconosciamo subito.
Abbiamo anche noi, più o meno tutti, un parente, magari un figlio, o un amico o la figlia di un amico con un bel diploma o una brillante laurea in tasca, che è riuscito a trovare un lavoro precario per qualche mese, poi ha perso anche quello e adesso è a spasso.
Èla crisi, allora, che morde i Paesi deboli dell'Europa mediterranea, l'Italia come la Spagna? Anche, ma non solo. C'è sotto qualcosa di più. Linnea, 25 anni, una laurea in ecoturismoe storia culturale, il Mediterraneo lo vede, se va bene, solo d'estate. Vive a Stoccolma, in quello che a noi appare come il prospero Nord Europa. Ma Linnea, con la sua laurea, ha trovato solo un posto part time in un ente no profit. Gratis. Quando a dicembre le è scaduto il contratto, le hanno proposto di restare a tempo pieno, sempre gratis. Da allora, ha mandato in giro decine di domande di assunzione, ma, in sei mesi, ha collezionato in tutto due colloqui.
In tutto il mondo, i media si riempiono di storie di giovani che girano a vuoto. Una generazione - quella dei nati dopo il 1980 - che, confermano le statistiche, a Est come a Ovest, a Nord come a Sud, non è mai stata più preparata e istruita, ma non riesce a decollare. Neanche dove la logica economica sembrerebbe imporlo. Negli ultimi dieci anni, in Giappone il numero complessivo dei lavoratori è sceso del 7 per cento. Ma quello dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni disoccupati è raddoppiato. Akigutsu, 27 anni, viene inquadrato dalla telecamera mentre, impeccabile nel suo vestito grigio, esce per l'ennesima volta da un'agenzia di collocamento, il cui nome suona, grosso modo, "Neolaureato, salve lavoro". Non è il caso di Akigutsu: fra due giorni, lascia la Waseda University, una delle migliori del Giappone, con una laurea in gestione pubblica. Ma il lavoro lo cerca già da due annie mezzo. Ha riempito almeno 100 formulari di assunzione e si è messo 40 volte quello stesso abito grigio per un colloquio. È stato anche all'università un anno in più, per guadagnare tempo. Tutto inutile: neanche una proposta.
È un dramma, forse una tragedia, quella che si sta consumando in questi anni. Milioni e milioni di ragazzie ragazze che escono da scuole e università, per impantanarsi subito e alzare, sempre più spesso, bandiera bianca.
Un fenomeno che le statistiche sulla disoccupazione, in realtà, non catturano. La notizia che il tasso di disoccupazione dei giovani sotto i 24 anni, in Europa, è del 24 per cento, del 40 per cento in Italia, quasi del 60 per cento in Grecia e in Spagna fa effetto, ma vuol dire poco. Per rientrare nella statistica, bisogna aver attivamente cercato lavoro (come Linnea e Akigutsu) nelle ultime due settimane. Pochi giovanissimi lo fanno. Secondo gli esperti, circa il 10 per cento di chi ha quell'età. Il 60 per cento di quel 10 per cento vuol dire che 6 giovani spagnoli sotto i 24 anni su 100 hanno cercato lavoro, senza successo, nelle ultime due settimane. Non parrebbe una catastrofe. Ma il problema sono gli altri. Quelli che hanno abbandonato o completato gli studi, ma non hanno trovato lavoro e neanche lo stanno cercando. Quelli che si sono arresi: né studio, né lavoro, i "néné". In Italia, sono passati dal 2007- prima della recessione- al 2011, dal 16 al 21 per cento dei giovani fra i 15 e i 24 anni. Un giovane italiano su cinque, insomma, non fa nulla. In misura minore, ma questo vale anche per i suoi coetanei d'Europa, dove i "né-né" sono cresciuti dal 10,8 al 13,2 per cento. Colpa loro che non hanno capito che solo studiando, aumentando le proprie competenze, centrando titoli di studio sempre più alti si può trovare il proprio posto nel mondo di oggi? Niente affatto. E qui sta il dramma. Il numero dei laureati "né-né" nei paesi dell'Ocse - l'organizzazione che raccoglie i paesi più ricchi del mondo - è cresciuto dal 10,6 al 14,8 per cento fra il 2008 e il 2011. L'Italia ha una sorta di record: i laureati che non studiano più e non lavorano ancora sono passati dal 18,6 al 21,8 per cento e qui parliamo di giovani fra i 24 e i 29 anni, condannati ad una sorta di animazione sospesa. Ma non sono i Paesi deboli del Mediterraneo a drogare la media Ocse. Germania e Svezia, grazie soprattutto al part time, molto spesso involontario, hanno visto un lieve calo delle loro quote di laureati fuori dal gioco. Ma in Francia sono saliti dal 7,5 al 10,4 per cento dei loro coetanei post universitari, in Giappone sono addirittura quasi raddoppiati, arrivando al 15,8 per cento. In Gran Bretagna e anche negli Usa, nel giro di quattro anni, sono aumentati di circa un terzo, arrivando, rispettivamente, oltre l'8 e il 12 per cento.
E quelli che un lavoro lo hanno trovato? Le notizie non sono buone neanche qui. I laureati che non sono disoccupati, i laureati che non hanno gettato la spugna si trovano spesso dove mai avrebbero pensato. In America, nel 1970, un tassista su 100 aveva una laurea in tasca. Oggi, sono il 15 per cento. Idem i pompieri: 2 per cento di laureati nel 1970, 15 per cento oggi. Non occorre una laurea per maneggiare un tassametro o un idrante. Tanti anni di studio non avrebbero dovuto consegnarli ad una vita piena, felice, gratificante? È la promessa che i giovani si sono sentiti ripetere decine di volte. Ma, a quanto pare, non vale più. Una recente ricerca di tre studiosi canadesi (Paul Beaudry, David Green, Benjamin Sand) osserva che la domanda di competenze legate ad una maggiore istruzione, negli Usa, è andata salendo fino al 2000, ma, da allora,è in calo.I laureati, comunque, aggiungono i tre canadesi, farebbero bene a non lamentarsi troppo: la laurea ha impedito che andasse peggio. Che succede? Questa volta, la globalizzazione c'entra poco.
Pesa di più la rivoluzione digitale, l'esplosione del software onnipresente. I dati, anche stavolta dell'Ocse, mostrano che esiste ancora, sul mercato del lavoro, un premio per il diploma e, ancor più per la laurea. Mediamente, nei paesi industrializzati, il 13 per cento di chi non ha finito la scuola media superiore è disoccupato, mentre solo il 5 per cento dei laureati lo è. Inoltre, un laureato guadagna, mediamente, una volta e mezzo lo stipendio di un semplice diplomato. Attenzione, però, avvertono i tre studiosi canadesi, le distanze restano, ma è una corsa verso il basso: è la rivoluzione tecnologica a spingere in giù. Prima l'automazione ha svuotato le fabbriche, poi computer e Internet hanno dimezzato il personale degli uffici: dalle centraliniste ai fattorini. Adesso la digitalizzazione sta risalendo le gerarchie. Fino a qualche anno fa, la brillante americana laureata in legge sarebbe entrata in un grosso studio, cominciando con lo spulciare ponderosi tomi, alla caccia di qualche precedente per una causa importante. Adesso, la ricerca dei precedenti la fanno i computer, ad un decimo del costo. I grossi studi legali non assumono giovani avvocati, anzi, tagliano selvaggiamente gli organici. La giovane laureata h a qualche speranza di infilarsi come assistentesegretaria, a tenere l'agenda di un grosso avvocato. E la giovane diplomata che, fino a qualche anno fa, avrebbe preso quel posto di segretaria? A fare le pulizie in ospedale. È ancora presto per sapere se i tre studiosi canadesi hanno ragione e se il mercato del lavoro - negli Stati Uniti e altrove - si sta schiacciando verso il basso.
Quello che è chiaro sin d'ora, però, è che la crisi che si è aperta nel 2008 nonè una recessione come le altre e che processi profondi stanno modellando la ripresa in direzioni, oggi, imprevedibili.
Economia e società, probabilmente, non saranno le stesse di prima della crisi. Non sono trasformazioni che avvengono gratis. A pagare il conto, salatissimo, delle novità è un'intera generazione di nati dopo il 1980, illusi, poi delusie frustrati che, della crisi e, forse, anche della sua fine, porteranno a lungo le cicatrici.
Psicologiche e finanziarie. Perché quando le giornate si assomigliano tutte e l'impressione è di girare in tondo, alla fine anche grinta, iniziativa, ottimismo si logorano.E perché, se alla fine si comincia a lavorare sul serio, ma si hanno già 30-40 anni, il tempo per garantirsi la serenità di un tesoretto per una vecchiaia che già si annuncia lunghissima, è davvero poco.
la Repubblica, 16 luglio 2013
È la recessione, si dice.
Laura ha 24 anni e, in tasca, una bella laurea in chimica. Per lei, il mondo dovrebbe cominciare ora. Invece, lavora a Madrid in uno Starbucks a servire caffè. Be', forse lavorare è un termine eccessivo: dieci ore a settimana e paga conseguente. All'altro capo della Spagna, a Barcellona, Aida, 27 anni, si è laureata sei anni fa come bibliotecaria, ma non ha mai visto una biblioteca. È riuscita a lavorare solo come cameriera in un ristorante.
Fino a un anno fa, quando l'hanno licenziata. Da allora, più nulla: è ferma a casa. Storie spagnole, che noi italiani riconosciamo subito.
Abbiamo anche noi, più o meno tutti, un parente, magari un figlio, o un amico o la figlia di un amico con un bel diploma o una brillante laurea in tasca, che è riuscito a trovare un lavoro precario per qualche mese, poi ha perso anche quello e adesso è a spasso.
Èla crisi, allora, che morde i Paesi deboli dell'Europa mediterranea, l'Italia come la Spagna? Anche, ma non solo. C'è sotto qualcosa di più. Linnea, 25 anni, una laurea in ecoturismoe storia culturale, il Mediterraneo lo vede, se va bene, solo d'estate. Vive a Stoccolma, in quello che a noi appare come il prospero Nord Europa. Ma Linnea, con la sua laurea, ha trovato solo un posto part time in un ente no profit. Gratis. Quando a dicembre le è scaduto il contratto, le hanno proposto di restare a tempo pieno, sempre gratis. Da allora, ha mandato in giro decine di domande di assunzione, ma, in sei mesi, ha collezionato in tutto due colloqui.
In tutto il mondo, i media si riempiono di storie di giovani che girano a vuoto. Una generazione - quella dei nati dopo il 1980 - che, confermano le statistiche, a Est come a Ovest, a Nord come a Sud, non è mai stata più preparata e istruita, ma non riesce a decollare. Neanche dove la logica economica sembrerebbe imporlo. Negli ultimi dieci anni, in Giappone il numero complessivo dei lavoratori è sceso del 7 per cento. Ma quello dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni disoccupati è raddoppiato. Akigutsu, 27 anni, viene inquadrato dalla telecamera mentre, impeccabile nel suo vestito grigio, esce per l'ennesima volta da un'agenzia di collocamento, il cui nome suona, grosso modo, "Neolaureato, salve lavoro". Non è il caso di Akigutsu: fra due giorni, lascia la Waseda University, una delle migliori del Giappone, con una laurea in gestione pubblica. Ma il lavoro lo cerca già da due annie mezzo. Ha riempito almeno 100 formulari di assunzione e si è messo 40 volte quello stesso abito grigio per un colloquio. È stato anche all'università un anno in più, per guadagnare tempo. Tutto inutile: neanche una proposta.
È un dramma, forse una tragedia, quella che si sta consumando in questi anni. Milioni e milioni di ragazzie ragazze che escono da scuole e università, per impantanarsi subito e alzare, sempre più spesso, bandiera bianca.
Un fenomeno che le statistiche sulla disoccupazione, in realtà, non catturano. La notizia che il tasso di disoccupazione dei giovani sotto i 24 anni, in Europa, è del 24 per cento, del 40 per cento in Italia, quasi del 60 per cento in Grecia e in Spagna fa effetto, ma vuol dire poco. Per rientrare nella statistica, bisogna aver attivamente cercato lavoro (come Linnea e Akigutsu) nelle ultime due settimane. Pochi giovanissimi lo fanno. Secondo gli esperti, circa il 10 per cento di chi ha quell'età. Il 60 per cento di quel 10 per cento vuol dire che 6 giovani spagnoli sotto i 24 anni su 100 hanno cercato lavoro, senza successo, nelle ultime due settimane. Non parrebbe una catastrofe. Ma il problema sono gli altri. Quelli che hanno abbandonato o completato gli studi, ma non hanno trovato lavoro e neanche lo stanno cercando. Quelli che si sono arresi: né studio, né lavoro, i "néné". In Italia, sono passati dal 2007- prima della recessione- al 2011, dal 16 al 21 per cento dei giovani fra i 15 e i 24 anni. Un giovane italiano su cinque, insomma, non fa nulla. In misura minore, ma questo vale anche per i suoi coetanei d'Europa, dove i "né-né" sono cresciuti dal 10,8 al 13,2 per cento. Colpa loro che non hanno capito che solo studiando, aumentando le proprie competenze, centrando titoli di studio sempre più alti si può trovare il proprio posto nel mondo di oggi? Niente affatto. E qui sta il dramma. Il numero dei laureati "né-né" nei paesi dell'Ocse - l'organizzazione che raccoglie i paesi più ricchi del mondo - è cresciuto dal 10,6 al 14,8 per cento fra il 2008 e il 2011. L'Italia ha una sorta di record: i laureati che non studiano più e non lavorano ancora sono passati dal 18,6 al 21,8 per cento e qui parliamo di giovani fra i 24 e i 29 anni, condannati ad una sorta di animazione sospesa. Ma non sono i Paesi deboli del Mediterraneo a drogare la media Ocse. Germania e Svezia, grazie soprattutto al part time, molto spesso involontario, hanno visto un lieve calo delle loro quote di laureati fuori dal gioco. Ma in Francia sono saliti dal 7,5 al 10,4 per cento dei loro coetanei post universitari, in Giappone sono addirittura quasi raddoppiati, arrivando al 15,8 per cento. In Gran Bretagna e anche negli Usa, nel giro di quattro anni, sono aumentati di circa un terzo, arrivando, rispettivamente, oltre l'8 e il 12 per cento.
E quelli che un lavoro lo hanno trovato? Le notizie non sono buone neanche qui. I laureati che non sono disoccupati, i laureati che non hanno gettato la spugna si trovano spesso dove mai avrebbero pensato. In America, nel 1970, un tassista su 100 aveva una laurea in tasca. Oggi, sono il 15 per cento. Idem i pompieri: 2 per cento di laureati nel 1970, 15 per cento oggi. Non occorre una laurea per maneggiare un tassametro o un idrante. Tanti anni di studio non avrebbero dovuto consegnarli ad una vita piena, felice, gratificante? È la promessa che i giovani si sono sentiti ripetere decine di volte. Ma, a quanto pare, non vale più. Una recente ricerca di tre studiosi canadesi (Paul Beaudry, David Green, Benjamin Sand) osserva che la domanda di competenze legate ad una maggiore istruzione, negli Usa, è andata salendo fino al 2000, ma, da allora,è in calo.I laureati, comunque, aggiungono i tre canadesi, farebbero bene a non lamentarsi troppo: la laurea ha impedito che andasse peggio. Che succede? Questa volta, la globalizzazione c'entra poco.
Pesa di più la rivoluzione digitale, l'esplosione del software onnipresente. I dati, anche stavolta dell'Ocse, mostrano che esiste ancora, sul mercato del lavoro, un premio per il diploma e, ancor più per la laurea. Mediamente, nei paesi industrializzati, il 13 per cento di chi non ha finito la scuola media superiore è disoccupato, mentre solo il 5 per cento dei laureati lo è. Inoltre, un laureato guadagna, mediamente, una volta e mezzo lo stipendio di un semplice diplomato. Attenzione, però, avvertono i tre studiosi canadesi, le distanze restano, ma è una corsa verso il basso: è la rivoluzione tecnologica a spingere in giù. Prima l'automazione ha svuotato le fabbriche, poi computer e Internet hanno dimezzato il personale degli uffici: dalle centraliniste ai fattorini. Adesso la digitalizzazione sta risalendo le gerarchie. Fino a qualche anno fa, la brillante americana laureata in legge sarebbe entrata in un grosso studio, cominciando con lo spulciare ponderosi tomi, alla caccia di qualche precedente per una causa importante. Adesso, la ricerca dei precedenti la fanno i computer, ad un decimo del costo. I grossi studi legali non assumono giovani avvocati, anzi, tagliano selvaggiamente gli organici. La giovane laureata h a qualche speranza di infilarsi come assistentesegretaria, a tenere l'agenda di un grosso avvocato. E la giovane diplomata che, fino a qualche anno fa, avrebbe preso quel posto di segretaria? A fare le pulizie in ospedale. È ancora presto per sapere se i tre studiosi canadesi hanno ragione e se il mercato del lavoro - negli Stati Uniti e altrove - si sta schiacciando verso il basso.
Quello che è chiaro sin d'ora, però, è che la crisi che si è aperta nel 2008 nonè una recessione come le altre e che processi profondi stanno modellando la ripresa in direzioni, oggi, imprevedibili.
Economia e società, probabilmente, non saranno le stesse di prima della crisi. Non sono trasformazioni che avvengono gratis. A pagare il conto, salatissimo, delle novità è un'intera generazione di nati dopo il 1980, illusi, poi delusie frustrati che, della crisi e, forse, anche della sua fine, porteranno a lungo le cicatrici.
Psicologiche e finanziarie. Perché quando le giornate si assomigliano tutte e l'impressione è di girare in tondo, alla fine anche grinta, iniziativa, ottimismo si logorano.E perché, se alla fine si comincia a lavorare sul serio, ma si hanno già 30-40 anni, il tempo per garantirsi la serenità di un tesoretto per una vecchiaia che già si annuncia lunghissima, è davvero poco.
domenica 25 agosto 2013
Beauvoir, Il secondo sesso
Chiara Pastorini
http://www.diogenemagazine.eu/
Quando apparve, nel 1949, questo testo suscitò uno
scandalo oggi difficilmente immaginabile. Partendo dall’idea di
gerarchia, Simone affermava che donne non si nasce ma si diventa.
Basta
soffermarsi sul titolo dell’opera, Il secondo sesso, per chiedersi:
esiste una gerarchia tra i sessi? La domanda si pone perché nel titolo è
già contenuta una risposta affermativa: sì, esiste una scala gerarchica
tra i sessi per cui si può parlare di un primo e di un secondo sesso.
Il primo, a cui si allude implicitamente, è quello maschile, il secondo,
dichiaratamente nominato, è quello femminile. Almeno questa è la
constatazione di Simone de Beauvoir, scrittrice e filosofa francese,
alla fine degli anni Quaranta.
Nell’Indice dei libri proibiti
Il
secondo sesso è un classico della letteratura femminista, sebbene la
sua pubblicazione abbia suscitato scandalo e censure in tutto il mondo:
nella stessa Francia a due anni di distanza dal voto alle donne
(concesso nel 1947), nell’America del senatore McCarthy dove lettrici e
lettori sono messi in guardia da critici severi, nella Spagna
franchista, dove dal 1962 il libro si legge clandestinamente e a proprio
rischio in una traduzione pubblicata in Argentina. In Russia e nella
Repubblica democratica Tedesca bisognerà aspettare la caduta dei regimi
comunisti per disporre di una traduzione. Nel 1956, persino un editto
vaticano include Il secondo sesso nell’indice dei libri proibiti.
Eppure, come spesso accade, allo scandalo si unisce il successo: già dalla prima settimana vengono vendute più di ventimila copie e il libro sarà tradotto negli anni successivi in più lingue.
Eppure, come spesso accade, allo scandalo si unisce il successo: già dalla prima settimana vengono vendute più di ventimila copie e il libro sarà tradotto negli anni successivi in più lingue.
La donna: assoluta alterità
L’occasione
de Il secondo sesso è un viaggio in America in cui Simone si rende
conto per la prima volta di come la condizione della donna sia il
risultato di una situazione generale, piuttosto che il prodotto
contestualizzato di capacità individuali. La mole di lavoro che la
filosofa si propone di svolgere è enorme. L’analisi della condizione
femminile viene infatti trattata su più piani: biologico, psicanalitico,
economico, storico, mitologico ed evolutivo.
Come l’approccio scientifico, che riduce la donna a femmina e il suo corpo a un oggetto naturale tra gli altri, anche la psicanalisi si dimostra limitata, riducendo la donna alla sua sessualità. Rispetto al marxismo, se il merito del materialismo storico è quello di aver messo in evidenza che l’umanità non è una specie animale, ma una realtà storica, argomenta Simone, nondimeno l’approccio più corretto alla questione risiede in una prospettiva esistenziale in termini di libertà, di stampo sartriano.
Per Simone, infatti, la donna è l’Altro assoluto, l’Oggetto posto dall’uomo nel suo farsi Soggetto, la Natura che, al contrario di quanto accade nella dialettica hegeliana, non acquisisce mai un riconoscimento. Ed è su questa originaria situazione di non riconoscimento che si fonda la subordinazione della donna.
Come l’approccio scientifico, che riduce la donna a femmina e il suo corpo a un oggetto naturale tra gli altri, anche la psicanalisi si dimostra limitata, riducendo la donna alla sua sessualità. Rispetto al marxismo, se il merito del materialismo storico è quello di aver messo in evidenza che l’umanità non è una specie animale, ma una realtà storica, argomenta Simone, nondimeno l’approccio più corretto alla questione risiede in una prospettiva esistenziale in termini di libertà, di stampo sartriano.
Per Simone, infatti, la donna è l’Altro assoluto, l’Oggetto posto dall’uomo nel suo farsi Soggetto, la Natura che, al contrario di quanto accade nella dialettica hegeliana, non acquisisce mai un riconoscimento. Ed è su questa originaria situazione di non riconoscimento che si fonda la subordinazione della donna.
Oltre Marx, il femminismo
Alla
fondamentale opposizione di classe di stampo marxista Simone aggiunge
dunque, come originaria, quella tra i sessi. Le donne non hanno
posizionato gli uomini come Altri, e quindi non si sono poste in modo
autentico come Soggetti. Al contrario, la femminilità si identifica con
l’essere Oggetto, con il farsi tale. Di qui l’ardua impresa in cui le
donne devono cimentarsi per porsi come Soggetti: superare la loro
femminilità alienata, trascendersi rispetto alla loro supposta natura,
costituirsi come libertà.
La domanda di fondo che allora si impone è: possiamo uscire da questa situazione di illibertà in cui permane l’assenza di riconoscimento della donna? Questa domanda, posta da Simone de Beauvoir alla fine degli anni Quaranta, rimane ancora oggi attuale ci conduce a riformulare la stessa questione di partenza: esiste ancora una gerarchia tra i sessi?
------------------------------------------
un estratto
[…] si può dire ancora che vi siano delle 'donne'? Certo la teoria dell'eterno femminino conta numerosi adepti […]; altri sospirano: 'La donna si perde, la donna è perduta.'. Non è più chiaro se vi siano ancora donne, se ve ne saranno sempre, se bisogna augurarselo o no, che posto occupano nel mondo, che posto dovrebbero occuparvi. 'Dove sono le donne?' […]. Ma innanzi tutto: cos'è una donna? 'Tota mulier in utero: è una matrice', dice qualcuno. Tuttavia parlando di certe donne, gli esperti decretano 'non sono donne', benché abbiano un utero come le altre. Tutti sono d'accordo nel riconoscere che nella specie umana sono comprese le femmine, le quali costituiscono oggi come in passato circa mezza umanità del genere umano; e tuttavia ci dicono 'la femminilità è in pericolo'; ci esortano: 'siate donne, restate donne, divenite donne'. Dunque non è detto che ogni essere umano di genere femminile sia una donna; bisogna che partecipi di quell'essenza velata dal mistero e dal dubbio che è la femminilità. La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? Basta una sottana per farla scendere in terra? Benché certe donne si sforzino con zelo di incarnarla, ci fa difetto un esemplare sicuro, un marchio depositato. Perciò essa viene descritta volentieri in termini vaghi e abbaglianti, che sembrano presi in prestito dal vocabolario delle veggenti. […] le scienze biologiche e sociali non credono nell'esistenza di entità fisse e immutabili che definiscano dati caratteri, come quelli della donna, dell'Ebreo o del Negro; esse considerano il carattere una reazione secondaria a una situazione. Se oggi la femminilità è scomparsa è perché non è mai esistita. […] il fatto è che ogni essere umano concreto ha sempre la sua particolare situazione. Respingere le nozioni di eterno femminino, di anima negra, di carattere giudaico non significa negare che vi siano, oggi Ebrei, Negri e donne: questa negazione non ha per gli interessati un significato di libertà ma una fuga dall'autenticità. (dall'introduzione; Il saggiatore, 1949, p. 13)
Per la fortuna del "Secondo sesso" si può vedere http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_view_lemonde.php3?page=/LeMonde-archivio/Gennaio-1999/9901lm02.01.html&word=chaperon
La domanda di fondo che allora si impone è: possiamo uscire da questa situazione di illibertà in cui permane l’assenza di riconoscimento della donna? Questa domanda, posta da Simone de Beauvoir alla fine degli anni Quaranta, rimane ancora oggi attuale ci conduce a riformulare la stessa questione di partenza: esiste ancora una gerarchia tra i sessi?
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un estratto
[…] si può dire ancora che vi siano delle 'donne'? Certo la teoria dell'eterno femminino conta numerosi adepti […]; altri sospirano: 'La donna si perde, la donna è perduta.'. Non è più chiaro se vi siano ancora donne, se ve ne saranno sempre, se bisogna augurarselo o no, che posto occupano nel mondo, che posto dovrebbero occuparvi. 'Dove sono le donne?' […]. Ma innanzi tutto: cos'è una donna? 'Tota mulier in utero: è una matrice', dice qualcuno. Tuttavia parlando di certe donne, gli esperti decretano 'non sono donne', benché abbiano un utero come le altre. Tutti sono d'accordo nel riconoscere che nella specie umana sono comprese le femmine, le quali costituiscono oggi come in passato circa mezza umanità del genere umano; e tuttavia ci dicono 'la femminilità è in pericolo'; ci esortano: 'siate donne, restate donne, divenite donne'. Dunque non è detto che ogni essere umano di genere femminile sia una donna; bisogna che partecipi di quell'essenza velata dal mistero e dal dubbio che è la femminilità. La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? Basta una sottana per farla scendere in terra? Benché certe donne si sforzino con zelo di incarnarla, ci fa difetto un esemplare sicuro, un marchio depositato. Perciò essa viene descritta volentieri in termini vaghi e abbaglianti, che sembrano presi in prestito dal vocabolario delle veggenti. […] le scienze biologiche e sociali non credono nell'esistenza di entità fisse e immutabili che definiscano dati caratteri, come quelli della donna, dell'Ebreo o del Negro; esse considerano il carattere una reazione secondaria a una situazione. Se oggi la femminilità è scomparsa è perché non è mai esistita. […] il fatto è che ogni essere umano concreto ha sempre la sua particolare situazione. Respingere le nozioni di eterno femminino, di anima negra, di carattere giudaico non significa negare che vi siano, oggi Ebrei, Negri e donne: questa negazione non ha per gli interessati un significato di libertà ma una fuga dall'autenticità. (dall'introduzione; Il saggiatore, 1949, p. 13)
Per la fortuna del "Secondo sesso" si può vedere http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_view_lemonde.php3?page=/LeMonde-archivio/Gennaio-1999/9901lm02.01.html&word=chaperon
mercoledì 21 agosto 2013
Lucien Clergue, Il nudo femminile e il mare
Il corpo femminile e il mare: la finitezza splendente dell'uno, l'ostinata persistenza dell'altro, nella calma del pensiero abbandonato a se stesso o nell'agitazione che sembra una metafora della vita. Lucien Clergue (1934-2014) ha saputo creare, giocando con i due elementi, immagini primordiali e con esse ha raggiunto effetti di grande suggestione.
http://www.anneclergue.com/Artists/Lucien-Clergue/portfolio
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martedì 20 agosto 2013
Il ruolo dei militari in Egitto
Bernardo Valli
Mubarak e il generale. In Egitto tornano i rais
la Repubblica, 20 agosto 2013
Il generale Abdel Fattah al-Sisi è un sentimentale. Gli capita di far piangere la platea. In aprile, a conclusione di un concerto, ha preso la parola per ringraziare gli interpreti, e li ha commossi al punto che sono scoppiati in lacrime. Il generale Sisi sorride spesso. Sembra un ictus. Le migliaia di ritratti appesi alle finestre, ai balconi, in molti quartieri del Cairo, non solo quelli borghesi, anche i sobborghi operai ne sono pieni, mostrano un volto disteso, sereno, senza il piglio militaresco che verrebbe spontaneo attribuire a chi ha promosso una repressione il cui bilancio supera il migliaio di vittime. Il suo sguardo è spesso mascherato da grossi occhiali ray-ban. Gli egiziani appartengono al mondo arabo dell’ulivo (i cui alberi ombreggiano il delta del Nilo che si getta nel Mediterraneo); un mondo contrapposto dagli storici per la sua gentilezza a quello arabo assai più rude della palma (i cui alberi punteggiano le rive irachene del Tigri e dell’Eufrate che si gettano nell’Oceano).
Con i sorrisi e il linguaggio suadente, dietro i quali si nasconde un freddo calcolatore, il generale affascina oggi la maggioranza degli egiziani, riluttanti a riconoscersi investiti da un’ondata di odio, ben evidente a un osservatore straniero. L’espressione serena del generale rassicura e funziona da alibi: dà l’impressione che, nonostante il sangue versato, il paese dell’ulivo non sia cambiato. E che sia nelle mani di un uomo duro ma giusto. Il quale, per la dignità che irradia, non può essere l’istigatore di non nobili istinti popolari.
Il generale Sisi è un personaggio complesso. È riservato, dosa le parole, ma a volte si abbandona a confidenze, sia pure senza mai abbandonare il riserbo di un ufficiale che ha diretto l’intelligence militare. È religioso, la moglie porta il velo, e lui compie le cinque preghiere quotidiane prescritte dal Corano, ma non è un bigotto. Non pensa che la religione debba essere confusa con la politica. Nel 2006,
quando frequentava negli Stati Uniti l’US Army War College, scrisse alcune considerazioni sulla società americana e sulla società musulmana. Gli americani credono nella vita, nella libertà e nella ricerca della felicità. Mentre la cultura islamica punta all’equità, alla giustizia, all’uguaglianza e alla carità. A questi giudizi il generale aggiungeva che una democrazia deve appoggiarsi su principi religiosi. Ma la teocrazia non rientrava tuttavia nelle sue idee. La escludeva. Il suo scritto fu tuttavia interpretato come molto vicino alle tesi dei fratelli musulmani.
Il generale Sisi non ha mai partecipato a una guerra. Nel ‘77, a 23 anni, uscì dall’accademia militare quando l’allora presidente Sadat faceva la pace con Israele, mettendo fine ai conflitti con lo Stato ebraico. Egli appartiene quindi alla nuova generazione arrivata all’apice della gerarchia, vale a dire nel Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), proprio quando con l’elezione dell’islamista Morsi i vecchi generali, che avevano governato per un anno con pessimi risultati, furono mandati in pensione. Il generale Sisi sembrava destinato a convivere con gli islamisti.
Non erano in pochi ad avere questa impressione, ma si sbagliavano. Nonostante l’età, 59 anni, relativamente giovane per un capo delle forze armate, e le esperienze nelle scuole di guerra americane e inglesi, il generale Sisi è fedele alla vecchia tradizione militare egiziana, che risale ai primi dell’Ottocento, all’epoca di Mohammed Ali pascià, e che è poi stata rilanciata nel 1952 dagli “ufficiali liberi” repubblicani, dopo la fine della monarchia. L’esercito è la spina dorsale e l’arbitro della vita nazionale. Controlla più di un terzo dell’economia ed è l’arbitro in campo politico. Anzi, lo domina. Il rosario di disfatte inflitte da Israele (‘48, ‘56, ‘67, ‘73) non ha intaccato il suo prestigio, perché all’interno del paese, non avendo avversari in grado di abolire i suoi privilegi e la sua autorità di fatto al di sopra delle leggi, l’esercito vanta soltanto vittorie. È passato dal socialismo al liberismo, e ha imposto non poche versioni di autoritarismo, sempre con presidenti usciti dai suoi ranghi. Naghib, Nasser, Sadat, Mubarak. Tutti leader politici e generali. Abdel Fattah al Sisi non è ancora il presidente, al momento dice di non volerlo diventare, ma la strada è tracciata. La tradizione riprende.
Il 3 luglio Sisi ha cacciato dalla presidenza l’usurpatore, l’intruso, il borghese Mohammed Morsi, e nelle settimane successive ha disperso i suoi seguaci, i Fratelli musulmani. Mentre la repressione è ancora in corso, è stato annunciato che le accuse contro Hosni Mubarak, l’ex presidente scalzato dal potere dalla “primavera araba” e condannato da un tribunale, stanno per essere alleggerite. In particolare potrebbe cadere quella di corruzione e questo trasformerebbe la detenzione di Mubarak in libertà condizionata. Il generale Sisi cancella una macchia vergognosa del suo vecchio superiore? Èun segno della solidarietà di casta? L’improvvisa clemenza nei confronti di Mubarak sconcerta molti animatori della primavera araba dichiaratisi in favore del “golpe” dell’esercito contro il presidente islamista e il governo dei fratelli musulmani. Adesso si sentono un po’ beffati. Hanno l’impressione che il vecchio rais corrotto stia per essere riabilitato. È una restaurazione rampante? Il ripristino dello stato d’emergenza, che restituisce i vecchi poteri ai militari, può essere considerato un altro segnale.
A suo modo il generale Sisi è rispettoso delle regole. È l’esercito che, contenendo e poi cavalcando l’insurrezione di piazza Tahrir, cominciata il 25 gennaio 2011, ha deposto Mubarak, e che l’ha arrestato. Poi, sempre i militari, hanno condotto il paese alle elezioni e hanno insediato alla presidenza il vincitore Mohammed Morsi. Il generale Sisi è diventato il suo ministro della difesa, di fatto il garante dell’esercito nel governo islamista. Per la sua fama di musulmano osservante sembrava l’uomo adatto. Si sospettava appunto che fosse affiliato alla Confraternita dei Fratelli. Alcuni nella sua famiglia della media borghesia (il padre era un commerciante) lo erano e lo sono. Un cugino, Khaled Lufti al Sisi, è stato ucciso durante lo sgombero di Rabaa al Adawij, a Nasr City, il quattordici agosto, giorno del massacro.
Le voci sulla supposta appartenenza alla fratellanza musulmana del generale sono state bruscamente smentite quando lui di persona, senza ricorre ad intermediari, ha invitato la popolazione a manifestare contro i “terroristi”, come ormai chiamava apertamente gli islamisti. Sentendosi appoggiata dall’esercito la maggioranza della popolazione ha sfogato la sua collera, alimentata da giornali e televisioni, contro i fratelli musulmani rivelatisi incapaci di governare e ritenuti responsabili del disastro economico. Il compassato ufficiale, con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali neri, si è rivelato un laconico ma efficace tribuno, poiché senza perdersi in lunghi discorsi è riuscito a mobilitare la maggioranza del paese contro i fratelli musulmani, un anno prima votati come salvatori della patria. Il sospetto che fosse tutto orchestrato è abbastanza fondato. Mentre la collera montava contro il governo inefficiente, le stazioni di benzina sono rimaste senza carburante e il Cairo si è paralizzato. Per miracolo hanno ripreso a funzionare subito dopo la destituzione di Morsi. Il compassato generale Sisi si è dimostrato un buon agitatore e un esperto nel tessere trame. Non a caso ha comandato l’intelligence militare.
Molti puntano sul generale Sisi. La maggioranza del paese è con lui: dagli uomini d’affari dei tempi di Mubarak, che sperano in una restaurazione e comunque in un ritorno all’ordine, agli operai trascurati dai fratelli musulmani, insensibili ai problemi sociali. Quelli che non sperano in una sua rapida ascesa, lo detestano. L’odio è reciproco. Per gli uni, per la maggioranza, i fratelli musulmani sono terroristi, per gli altri, una minoranza, sono i difensori della legittimità essendo stati eletti con il primo libero voto nella storia dell’Egitto.
Quest’ ultima affermazione è contestata da molti. Un gesuita che vive al Cairo, Henri Boulad, sostiene che l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza fu una grande mascherata, e che l’esercito non aveva scelta. Le milizie dei fratelli musulmani, armate fino ai denti, seminavano il terrore in tutto l’Egitto. Omicidi, rapimenti, stupri. Chiese e scuole cristiane bruciate o saccheggiate, religiosi cattolici e copti uccisi. Padre Henri Boulad giustifica l’azione dei militari e denuncia l’atteggiamento dei paesi occidentali, e le critiche dei mass media. Il gesuita è un evidente grande sostenitore del generale Sisi.
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Sergio Romano
L’Egitto, i militari, la democrazia, quei golpe fuori dai nostri schemi
Corano e colonnelli, l’eterna tentazione
La «via militare al progresso» inaugurata da Atatürk come costante della storia moderna del mondo islamico
Corriere della Sera, 5 luglio 2013
La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana. Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.
Mubarak e il generale. In Egitto tornano i rais
la Repubblica, 20 agosto 2013
Il generale Abdel Fattah al-Sisi è un sentimentale. Gli capita di far piangere la platea. In aprile, a conclusione di un concerto, ha preso la parola per ringraziare gli interpreti, e li ha commossi al punto che sono scoppiati in lacrime. Il generale Sisi sorride spesso. Sembra un ictus. Le migliaia di ritratti appesi alle finestre, ai balconi, in molti quartieri del Cairo, non solo quelli borghesi, anche i sobborghi operai ne sono pieni, mostrano un volto disteso, sereno, senza il piglio militaresco che verrebbe spontaneo attribuire a chi ha promosso una repressione il cui bilancio supera il migliaio di vittime. Il suo sguardo è spesso mascherato da grossi occhiali ray-ban. Gli egiziani appartengono al mondo arabo dell’ulivo (i cui alberi ombreggiano il delta del Nilo che si getta nel Mediterraneo); un mondo contrapposto dagli storici per la sua gentilezza a quello arabo assai più rude della palma (i cui alberi punteggiano le rive irachene del Tigri e dell’Eufrate che si gettano nell’Oceano).
Con i sorrisi e il linguaggio suadente, dietro i quali si nasconde un freddo calcolatore, il generale affascina oggi la maggioranza degli egiziani, riluttanti a riconoscersi investiti da un’ondata di odio, ben evidente a un osservatore straniero. L’espressione serena del generale rassicura e funziona da alibi: dà l’impressione che, nonostante il sangue versato, il paese dell’ulivo non sia cambiato. E che sia nelle mani di un uomo duro ma giusto. Il quale, per la dignità che irradia, non può essere l’istigatore di non nobili istinti popolari.
Il generale Sisi è un personaggio complesso. È riservato, dosa le parole, ma a volte si abbandona a confidenze, sia pure senza mai abbandonare il riserbo di un ufficiale che ha diretto l’intelligence militare. È religioso, la moglie porta il velo, e lui compie le cinque preghiere quotidiane prescritte dal Corano, ma non è un bigotto. Non pensa che la religione debba essere confusa con la politica. Nel 2006,
quando frequentava negli Stati Uniti l’US Army War College, scrisse alcune considerazioni sulla società americana e sulla società musulmana. Gli americani credono nella vita, nella libertà e nella ricerca della felicità. Mentre la cultura islamica punta all’equità, alla giustizia, all’uguaglianza e alla carità. A questi giudizi il generale aggiungeva che una democrazia deve appoggiarsi su principi religiosi. Ma la teocrazia non rientrava tuttavia nelle sue idee. La escludeva. Il suo scritto fu tuttavia interpretato come molto vicino alle tesi dei fratelli musulmani.
Il generale Sisi non ha mai partecipato a una guerra. Nel ‘77, a 23 anni, uscì dall’accademia militare quando l’allora presidente Sadat faceva la pace con Israele, mettendo fine ai conflitti con lo Stato ebraico. Egli appartiene quindi alla nuova generazione arrivata all’apice della gerarchia, vale a dire nel Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), proprio quando con l’elezione dell’islamista Morsi i vecchi generali, che avevano governato per un anno con pessimi risultati, furono mandati in pensione. Il generale Sisi sembrava destinato a convivere con gli islamisti.
Non erano in pochi ad avere questa impressione, ma si sbagliavano. Nonostante l’età, 59 anni, relativamente giovane per un capo delle forze armate, e le esperienze nelle scuole di guerra americane e inglesi, il generale Sisi è fedele alla vecchia tradizione militare egiziana, che risale ai primi dell’Ottocento, all’epoca di Mohammed Ali pascià, e che è poi stata rilanciata nel 1952 dagli “ufficiali liberi” repubblicani, dopo la fine della monarchia. L’esercito è la spina dorsale e l’arbitro della vita nazionale. Controlla più di un terzo dell’economia ed è l’arbitro in campo politico. Anzi, lo domina. Il rosario di disfatte inflitte da Israele (‘48, ‘56, ‘67, ‘73) non ha intaccato il suo prestigio, perché all’interno del paese, non avendo avversari in grado di abolire i suoi privilegi e la sua autorità di fatto al di sopra delle leggi, l’esercito vanta soltanto vittorie. È passato dal socialismo al liberismo, e ha imposto non poche versioni di autoritarismo, sempre con presidenti usciti dai suoi ranghi. Naghib, Nasser, Sadat, Mubarak. Tutti leader politici e generali. Abdel Fattah al Sisi non è ancora il presidente, al momento dice di non volerlo diventare, ma la strada è tracciata. La tradizione riprende.
Il 3 luglio Sisi ha cacciato dalla presidenza l’usurpatore, l’intruso, il borghese Mohammed Morsi, e nelle settimane successive ha disperso i suoi seguaci, i Fratelli musulmani. Mentre la repressione è ancora in corso, è stato annunciato che le accuse contro Hosni Mubarak, l’ex presidente scalzato dal potere dalla “primavera araba” e condannato da un tribunale, stanno per essere alleggerite. In particolare potrebbe cadere quella di corruzione e questo trasformerebbe la detenzione di Mubarak in libertà condizionata. Il generale Sisi cancella una macchia vergognosa del suo vecchio superiore? Èun segno della solidarietà di casta? L’improvvisa clemenza nei confronti di Mubarak sconcerta molti animatori della primavera araba dichiaratisi in favore del “golpe” dell’esercito contro il presidente islamista e il governo dei fratelli musulmani. Adesso si sentono un po’ beffati. Hanno l’impressione che il vecchio rais corrotto stia per essere riabilitato. È una restaurazione rampante? Il ripristino dello stato d’emergenza, che restituisce i vecchi poteri ai militari, può essere considerato un altro segnale.
A suo modo il generale Sisi è rispettoso delle regole. È l’esercito che, contenendo e poi cavalcando l’insurrezione di piazza Tahrir, cominciata il 25 gennaio 2011, ha deposto Mubarak, e che l’ha arrestato. Poi, sempre i militari, hanno condotto il paese alle elezioni e hanno insediato alla presidenza il vincitore Mohammed Morsi. Il generale Sisi è diventato il suo ministro della difesa, di fatto il garante dell’esercito nel governo islamista. Per la sua fama di musulmano osservante sembrava l’uomo adatto. Si sospettava appunto che fosse affiliato alla Confraternita dei Fratelli. Alcuni nella sua famiglia della media borghesia (il padre era un commerciante) lo erano e lo sono. Un cugino, Khaled Lufti al Sisi, è stato ucciso durante lo sgombero di Rabaa al Adawij, a Nasr City, il quattordici agosto, giorno del massacro.
Le voci sulla supposta appartenenza alla fratellanza musulmana del generale sono state bruscamente smentite quando lui di persona, senza ricorre ad intermediari, ha invitato la popolazione a manifestare contro i “terroristi”, come ormai chiamava apertamente gli islamisti. Sentendosi appoggiata dall’esercito la maggioranza della popolazione ha sfogato la sua collera, alimentata da giornali e televisioni, contro i fratelli musulmani rivelatisi incapaci di governare e ritenuti responsabili del disastro economico. Il compassato ufficiale, con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali neri, si è rivelato un laconico ma efficace tribuno, poiché senza perdersi in lunghi discorsi è riuscito a mobilitare la maggioranza del paese contro i fratelli musulmani, un anno prima votati come salvatori della patria. Il sospetto che fosse tutto orchestrato è abbastanza fondato. Mentre la collera montava contro il governo inefficiente, le stazioni di benzina sono rimaste senza carburante e il Cairo si è paralizzato. Per miracolo hanno ripreso a funzionare subito dopo la destituzione di Morsi. Il compassato generale Sisi si è dimostrato un buon agitatore e un esperto nel tessere trame. Non a caso ha comandato l’intelligence militare.
Molti puntano sul generale Sisi. La maggioranza del paese è con lui: dagli uomini d’affari dei tempi di Mubarak, che sperano in una restaurazione e comunque in un ritorno all’ordine, agli operai trascurati dai fratelli musulmani, insensibili ai problemi sociali. Quelli che non sperano in una sua rapida ascesa, lo detestano. L’odio è reciproco. Per gli uni, per la maggioranza, i fratelli musulmani sono terroristi, per gli altri, una minoranza, sono i difensori della legittimità essendo stati eletti con il primo libero voto nella storia dell’Egitto.
Quest’ ultima affermazione è contestata da molti. Un gesuita che vive al Cairo, Henri Boulad, sostiene che l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza fu una grande mascherata, e che l’esercito non aveva scelta. Le milizie dei fratelli musulmani, armate fino ai denti, seminavano il terrore in tutto l’Egitto. Omicidi, rapimenti, stupri. Chiese e scuole cristiane bruciate o saccheggiate, religiosi cattolici e copti uccisi. Padre Henri Boulad giustifica l’azione dei militari e denuncia l’atteggiamento dei paesi occidentali, e le critiche dei mass media. Il gesuita è un evidente grande sostenitore del generale Sisi.
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Sergio Romano
L’Egitto, i militari, la democrazia, quei golpe fuori dai nostri schemi
Corano e colonnelli, l’eterna tentazione
La «via militare al progresso» inaugurata da Atatürk come costante della storia moderna del mondo islamico
Corriere della Sera, 5 luglio 2013
La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana. Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.
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sabato 17 agosto 2013
La politica delle alleanze in Egitto
L'interesse degli intellettuali arabi e musulmani per il pensiero di
Antonio Gramsci non è un fenomeno nuovo. Gramsci ha fornito, infatti,
alcune cruciali categorie concettuali per analizzare le drammatiche
trasformazioni politiche, sociali ed economiche che hanno investito le
società arabe, in particolare quella egiziana, negli ultimi decenni.
Oggi, in particolare, Gramsci ci permette di guardare alle rivolte
arabe degli ultimi mesi con occhi nuovi.
Nel suo classico Overstating the Arab State (1996), lo studioso egiziano Nazih Ayubi spiegava come i regimi arabi fossero fragili poiché, pur avendo sviluppato raffinate strutture per la sistematica repressione del dissenso, non erano stati in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato. Servendosi di categorie gramsciane, Ayubi sosteneva che le élite al potere nei regimi arabi avevano sviluppato la dimensione del dominio, senza veramente riuscire a esercitare una direzione intellettuale e morale.
Questa strutturale debolezza dei regimi arabi aveva consentito a movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani di sviluppare progetti contro-egemonici, per esempio in paesi come l'Egitto e la Giordania, utilizzando il linguaggio e i simboli dell'Islam per articolare l'islamismo come ideologia politica.
In Making Islam Democratic (2007), lo studioso iraniano Asef Bayat, poi seguito dall'egiziano Hazem Kandil, aveva interpretato le strategie dei Fratelli Musulmani egiziani come una gramsciana guerra di posizione volta a conquistare le "casematte" della società civile. I Fratelli Musulmani erano infatti riusciti a creare una rete di ospedali, scuole e attività caritatevoli grazie alle quali erano stati in grado di costruire una comunità morale e ideologica, ma anche un settore privato islamista.
Negli ultimi decenni, i movimenti islamisti sono stati in grado di attuare pervasivi processi di re-islamizzazione in numerosi paesi musulmani, anche non arabi, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan. In alcune società arabe, come quella egiziana e giordana, i Fratelli Musulmani sono inoltre riusciti a costruire un "blocco storico", rivolgendosi a due ceti sociali profondamente diversi ma uniti dalla frustrazione nei confronti dei regimi: la nuova borghesia islamista e il sottoproletariato urbano. La leadership dei Fratelli Musulmani, che è espressione di una borghesia islamista la cui ascesa è da leggere nel contesto delle trasformazioni economiche neoliberiste degli ultimi trent'anni, ha infatti individuato nel sottoproletariato urbano una massa di manovra.
Sulla base delle riflessioni di Gramsci sui modelli di partito, gli islamisti appaiono come coloro che additano alle masse un'età dell'oro nella quale tutte le tensioni e le contraddizioni si risolveranno, in questo caso grazie all'Islam. Gli islamisti, adottando il mito, nell'accezione di Sorel, della società islamica da instaurare, hanno oscurato la realtà storica delle relazioni di produzione, spostando il conflitto dal campo degli assetti socio-economici a quello della cultura in senso lato.
Il progetto contro-egemonico islamista non mette, infatti, realmente in discussione le relazioni socio-economiche sulle quali si basano le società arabe. L'obiettivo dei Fratelli Musulmani, e delle nuove e dinamiche classi medie di cui sono espressione, è quello di divenire classe dirigente, non di trasformare le relazioni di produzione, nonostante i populistici appelli alla giustizia sociale. Secondo Ayubi, la reazione del regime di Mubarak nei confronti del movimento islamista è stata una gramsciana "rivoluzione passiva". Il regime ha infatti adottato un'articolata strategia di cooptazione e repressione, sostenendo il processo di islamizzazione a patto che esso non provocasse alcun reale mutamento dello status quo.
In questo senso, si sono verificate convergenze tra la guerra di posizione dei Fratelli Musulmani e la rivoluzione passiva attuata dal regime; ha dunque ragione Samir Amin a considerare i Fratelli Musulmani come una forza tendenzialmente reazionaria.
Negli ultimi mesi, le rivolte arabe hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, oltre a una serie di sollevazioni popolari; ma si è trattato, almeno finora, di vere rivoluzioni? Le deposizioni di Ben Ali e di Mubarak somigliano più a colpi di stato attuati dai regimi con lo scopo di frenare le rivoluzioni, non di attuarle. In Egitto, i militari sembrano aver compreso che, per impedire una reale trasformazione degli assetti socio-economici della società egiziana, è ora necessario allearsi con i Fratelli Musulmani in modo da costituire un blocco d'ordine.
...
Daniel Atzori
Gramsci e le rivolte arabe
il manifesto, 27 giugno 2011
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Nel suo classico Overstating the Arab State (1996), lo studioso egiziano Nazih Ayubi spiegava come i regimi arabi fossero fragili poiché, pur avendo sviluppato raffinate strutture per la sistematica repressione del dissenso, non erano stati in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato. Servendosi di categorie gramsciane, Ayubi sosteneva che le élite al potere nei regimi arabi avevano sviluppato la dimensione del dominio, senza veramente riuscire a esercitare una direzione intellettuale e morale.
Questa strutturale debolezza dei regimi arabi aveva consentito a movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani di sviluppare progetti contro-egemonici, per esempio in paesi come l'Egitto e la Giordania, utilizzando il linguaggio e i simboli dell'Islam per articolare l'islamismo come ideologia politica.
In Making Islam Democratic (2007), lo studioso iraniano Asef Bayat, poi seguito dall'egiziano Hazem Kandil, aveva interpretato le strategie dei Fratelli Musulmani egiziani come una gramsciana guerra di posizione volta a conquistare le "casematte" della società civile. I Fratelli Musulmani erano infatti riusciti a creare una rete di ospedali, scuole e attività caritatevoli grazie alle quali erano stati in grado di costruire una comunità morale e ideologica, ma anche un settore privato islamista.
Negli ultimi decenni, i movimenti islamisti sono stati in grado di attuare pervasivi processi di re-islamizzazione in numerosi paesi musulmani, anche non arabi, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan. In alcune società arabe, come quella egiziana e giordana, i Fratelli Musulmani sono inoltre riusciti a costruire un "blocco storico", rivolgendosi a due ceti sociali profondamente diversi ma uniti dalla frustrazione nei confronti dei regimi: la nuova borghesia islamista e il sottoproletariato urbano. La leadership dei Fratelli Musulmani, che è espressione di una borghesia islamista la cui ascesa è da leggere nel contesto delle trasformazioni economiche neoliberiste degli ultimi trent'anni, ha infatti individuato nel sottoproletariato urbano una massa di manovra.
Sulla base delle riflessioni di Gramsci sui modelli di partito, gli islamisti appaiono come coloro che additano alle masse un'età dell'oro nella quale tutte le tensioni e le contraddizioni si risolveranno, in questo caso grazie all'Islam. Gli islamisti, adottando il mito, nell'accezione di Sorel, della società islamica da instaurare, hanno oscurato la realtà storica delle relazioni di produzione, spostando il conflitto dal campo degli assetti socio-economici a quello della cultura in senso lato.
Il progetto contro-egemonico islamista non mette, infatti, realmente in discussione le relazioni socio-economiche sulle quali si basano le società arabe. L'obiettivo dei Fratelli Musulmani, e delle nuove e dinamiche classi medie di cui sono espressione, è quello di divenire classe dirigente, non di trasformare le relazioni di produzione, nonostante i populistici appelli alla giustizia sociale. Secondo Ayubi, la reazione del regime di Mubarak nei confronti del movimento islamista è stata una gramsciana "rivoluzione passiva". Il regime ha infatti adottato un'articolata strategia di cooptazione e repressione, sostenendo il processo di islamizzazione a patto che esso non provocasse alcun reale mutamento dello status quo.
In questo senso, si sono verificate convergenze tra la guerra di posizione dei Fratelli Musulmani e la rivoluzione passiva attuata dal regime; ha dunque ragione Samir Amin a considerare i Fratelli Musulmani come una forza tendenzialmente reazionaria.
Negli ultimi mesi, le rivolte arabe hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, oltre a una serie di sollevazioni popolari; ma si è trattato, almeno finora, di vere rivoluzioni? Le deposizioni di Ben Ali e di Mubarak somigliano più a colpi di stato attuati dai regimi con lo scopo di frenare le rivoluzioni, non di attuarle. In Egitto, i militari sembrano aver compreso che, per impedire una reale trasformazione degli assetti socio-economici della società egiziana, è ora necessario allearsi con i Fratelli Musulmani in modo da costituire un blocco d'ordine.
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Daniel Atzori
Gramsci e le rivolte arabe
il manifesto, 27 giugno 2011
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Queste le premesse. Ma poi qualcosa non ha
funzionato nell'alleanza dei militari con gli islamisti. E il popolo stesso - o
una larga parte di esso - si è ritrovato all'opposizione rispetto al governo
dei Fratelli Musulmani. Qui si colloca l'occasione storica che l'esercito ha
saputo cogliere. Ai militari è stata offerta la possibilità di tornare da
protagonisti al centro della scena con il ruolo degli arbitri se non dei
giustizieri. C'è stata una ampia mobilitazione popolare contro i Fratelli
Musulmani. Le forze armate sono intervenute lanciando un ultimatum al governo.
Il presidente eletto Morsi ha replicato allora con un appello al martirio. Ai
militari invece ha detto di preferire un governo di coalizione nazionale che
non si è potuto realizzare. Esclusa la via del negoziato è
scattato il golpe. Stando ai risultati delle ultime elezioni i Fratelli
Musulmani rappresentavano una metà del popolo in Egitto. E i loro seguaci sono
ancora molto numerosi. Il golpe quindi non mirava a esautorare una sparuta
minoranza, era un attacco diretto contro una buona parte del popolo egiziano. Eppure
è parso concepibile. Perché? Per l’isolamento nel quale sono caduti i Fratelli
Musulmani; anche una parte dei salafiti, pure appartenenti al campo islamista,
non era più schierata con loro. Non parliamo poi della società egiziana che
appare polarizzata all’estremo ormai e che non sembra lasciare spazio a un’area di influenza al di fuori dei
seguaci e sostenitori. L'opinione pubblica egiziana è stata in gran parte favorevole allo smantellamento dei sit in islamisti. E non parliamo
poi dei sostegni esterni che favoriscono di gran lunga i militari.
Dalla loro parte, e in modo ostentato, ci
sono i grandi finanziatori dello Stato egiziano, l’Arabia saudita, il Kuwait e
gli Emirati Arabi Uniti, con i loro 10 miliardi di euro. C’è, di fatto,
Israele, basta vedere quello che è successo nel Sinai dove ai droni dello Stato
ebraico è stato permesso di bombardare il jihad locale. Gli Stati Uniti che non
si schierano fanno la parte del parente povero con il loro miliardo di euro.
Con i Fratelli Musulmani ci sono solo la Turchia e il Qatar. Non è molto. Anche
la Siria sta con i militari, per ovvie ragioni.
giovedì 15 agosto 2013
Gamal Abd el-Nasser (1918-1970)
La costante che fu maggiormente tipica di Nasser fu la sua lotta contro i sistemi che promuovevano "egemonia" sul piano locale, regionale e internazionale. Inoltre, potremmo aggiungere, il costante sforzo a "ristrutturare l'edificio economico e sociale allo scopo di alimentare la giustizia sociale e le pari opportunità".
Muhamad Sid Ahmad, The Future of Nasserism, al-Ahram Weekly, n. 501 del 28 sett. - 4 ott. 2000
Bernardo Valli
la Repubblica, 15 agosto 2013
... Dal dramma del quattordici agosto è spuntato un nuovo Nasser. Si parla da tempo della reincarnazione del capo della rivolta militare che nel ‘52 cacciò re Faruk e proclamò la repubblica. Il generale Abdul-Fattah al-Sisi (59 nove anni, con soggiorni militari in Arabia Saudita e negli Stati Uniti) sarebbe una nuova edizione di quel famoso rais nazionalista, morto di crepacuore più di quarant’anni fa. L’islamista Mohammed Morsi, un ingegnere baciapile, sarebbe stata una parentesi: Sisi appare come il successore di Naguib, di Nasser, di Sadat, di Mubarak, tutti generali o colonnelli. La primavera araba, versione egiziana, ha finito col creare una nuovo leader in uniforme? Capita che le rivoluzioni conoscano svolte “bonapartiste”. L’Egitto, storica società militare fin dall’epoca ottomana, è un terreno favorevole. Il generale Sisi è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico. Ma è un militare che non tollera l’inefficienza e la concorrenza di una organizzazione che assomiglia a una setta. È lui che ha rafforzato Mohammed Morsi eletto
presidente della repubblica, ed è sempre lui
che l’ha destituito quando è apparsa evidente la sua incapacità di governare. Il generale Sisi è un personaggio complesso. Quando in piazza Tahrir, vecchia ribalta della rivoluzione, fu controllata la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di violenze carnali. Non sarà tanto imprudente da occupare nell’immediato la presidenza della Repubblica (le elezioni sono previste per l’anno prossimo), ma non avrà bisogno di quella carica per esercitare il vero potere. Lo ha già.
Capo del supremo consiglio delle forze armate, vice presidente del consiglio e ministro della difesa, il generale Sisi ha deciso di usare il pugno di ferro. E lo ha sferrato quando tutti si aspettavano che adottasse una tattica meno brutale, per non scandalizzare le capitali occidentali e i liberali del governo provvisorio, come El Baradei, che consigliavano prudenza e tempi lunghi, al fine di evitare un massacro. Il generale se ne è infischiato degli inevitabili richiami al rispetto dei diritti dell’uomo e dell’altrettanto inevitabile critica delle autorità religiose di al-Azhar, le più ascoltate del mondo sunnita, che pur approvarono la destituzione di Mohammed Morsi. Ha ordinato lo sgombero immediato dei due accampamenti e poi ha imposto il coprifuoco al Cairo e in altre città (dalle sette di sera alle sei del mattino). Ha dichiarato inoltre lo stato d’emergenza, che aumenta il potere dei militari e dei loro tribunali. Il giorno prima aveva nominato dei generali governatori di diciannove province. Convinto di essere approvato dalla maggioranza degli egiziani, ormai ostile ai Fratelli musulmani, e comunque infastidita dalle loro plateali proteste che impedivano
la ripresa della vita economica, il generale Sisi ha colto tutti di sorpresa. Erano all’incirca le sette quando la polizia ha fatto irruzione nell’accampamento di piazza Nahda, vicino all’Università del Cairo, e a due passi dal Nilo.
Ed è accaduto quel che ci si aspettava. Anziani, donne e figli hanno ubbidito all’ordine di evacuazione impartito dalla polizia e hanno abbandonato la piazza. Subito dopo, secondo la polizia, dei cecchini appostati nelle case vicine hanno cominciato a sparare
e sono volate bombe molotov. La risposta è stata immediata: gas lacrimogeni, avanzata dei bulldozer per demolire le barricate e spari, raffiche vere, come provano i feriti curati nell’ospedale da campo. E i cadaveri (in un primo tempo quarantacinque) contati dai giornalisti. Quest’ultimi, testimoni sgraditi e quindi spesso aggrediti, e trattenuti, non hanno avuto la vita facile. L’esercito ha lasciato fare alla polizia, non è intervenuto direttamente all’interno dei campi trincerati, ma li ha circondati con mezzi blindati per isolarli. Molti Fratelli musulmani sono riusciti a sfuggire all’accerchiamento e si sono dispersi nella città, dove fino a tarda sera hanno acceso scontri con la polizia. Hanno anche organizzato un centro di resistenza in una moschea periferica, da dove si sono alzate colonne di fumo. Al tramonto c’erano ancora scontri a Nasr City, sulla piazza Rabaa al-Adawija, attorno alla moschea con lo stesso nome.
Alla fine della giornata, il cronista conserva alcune immagini: i poliziotti che sparano ai lanciatori di pietre annidati su un tetto; i giovani feriti al torace e al collo portati a braccio in un ospedale da campo; l’ufficiale in fin di vita; i Fratelli musulmani arrestati, in ginocchio e con le mani alla nuca; le fastidiose nuvole bianche del gas lacrimogeno e quelle scure, nere dei pneumatici bruciati in mezzo alla strada. Da questa giornata di sangue l’Egitto è più diviso che mai. La spaccatura tra laici e religiosi è profonda ma zigzagante. I liberali come Baradei si dissociano dai militari che hanno scelto la repressione. E al tempo stesso i salafiti di Al Nour, il partito islamico estremista, non ha dimostrato solidarietà ai Fratelli musulmani. Al tempo stesso si sono moltiplicate le aggressioni alla chiese cristiane copte nell’Alto Egitto. Mentre nel Sinai gruppi, che si ritiene siano affiliati o si ispirino ad Al Qaeda, aggrediscono i militari. Il generale Sisi ha come obiettivo, stando al mio occasionale e già citato compagno egiziano, di mettere fine alla “ sanguinosa ricreazione” provocata dalla primavera araba. Per questo lui, come non pochi altri egiziani, ama il “nuovo Nasser” apparso sulle sponde del Nilo.
Muhamad Sid Ahmad, The Future of Nasserism, al-Ahram Weekly, n. 501 del 28 sett. - 4 ott. 2000
Bernardo Valli
la Repubblica, 15 agosto 2013
... Dal dramma del quattordici agosto è spuntato un nuovo Nasser. Si parla da tempo della reincarnazione del capo della rivolta militare che nel ‘52 cacciò re Faruk e proclamò la repubblica. Il generale Abdul-Fattah al-Sisi (59 nove anni, con soggiorni militari in Arabia Saudita e negli Stati Uniti) sarebbe una nuova edizione di quel famoso rais nazionalista, morto di crepacuore più di quarant’anni fa. L’islamista Mohammed Morsi, un ingegnere baciapile, sarebbe stata una parentesi: Sisi appare come il successore di Naguib, di Nasser, di Sadat, di Mubarak, tutti generali o colonnelli. La primavera araba, versione egiziana, ha finito col creare una nuovo leader in uniforme? Capita che le rivoluzioni conoscano svolte “bonapartiste”. L’Egitto, storica società militare fin dall’epoca ottomana, è un terreno favorevole. Il generale Sisi è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico. Ma è un militare che non tollera l’inefficienza e la concorrenza di una organizzazione che assomiglia a una setta. È lui che ha rafforzato Mohammed Morsi eletto
presidente della repubblica, ed è sempre lui
che l’ha destituito quando è apparsa evidente la sua incapacità di governare. Il generale Sisi è un personaggio complesso. Quando in piazza Tahrir, vecchia ribalta della rivoluzione, fu controllata la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di violenze carnali. Non sarà tanto imprudente da occupare nell’immediato la presidenza della Repubblica (le elezioni sono previste per l’anno prossimo), ma non avrà bisogno di quella carica per esercitare il vero potere. Lo ha già.
Capo del supremo consiglio delle forze armate, vice presidente del consiglio e ministro della difesa, il generale Sisi ha deciso di usare il pugno di ferro. E lo ha sferrato quando tutti si aspettavano che adottasse una tattica meno brutale, per non scandalizzare le capitali occidentali e i liberali del governo provvisorio, come El Baradei, che consigliavano prudenza e tempi lunghi, al fine di evitare un massacro. Il generale se ne è infischiato degli inevitabili richiami al rispetto dei diritti dell’uomo e dell’altrettanto inevitabile critica delle autorità religiose di al-Azhar, le più ascoltate del mondo sunnita, che pur approvarono la destituzione di Mohammed Morsi. Ha ordinato lo sgombero immediato dei due accampamenti e poi ha imposto il coprifuoco al Cairo e in altre città (dalle sette di sera alle sei del mattino). Ha dichiarato inoltre lo stato d’emergenza, che aumenta il potere dei militari e dei loro tribunali. Il giorno prima aveva nominato dei generali governatori di diciannove province. Convinto di essere approvato dalla maggioranza degli egiziani, ormai ostile ai Fratelli musulmani, e comunque infastidita dalle loro plateali proteste che impedivano
la ripresa della vita economica, il generale Sisi ha colto tutti di sorpresa. Erano all’incirca le sette quando la polizia ha fatto irruzione nell’accampamento di piazza Nahda, vicino all’Università del Cairo, e a due passi dal Nilo.
Ed è accaduto quel che ci si aspettava. Anziani, donne e figli hanno ubbidito all’ordine di evacuazione impartito dalla polizia e hanno abbandonato la piazza. Subito dopo, secondo la polizia, dei cecchini appostati nelle case vicine hanno cominciato a sparare
e sono volate bombe molotov. La risposta è stata immediata: gas lacrimogeni, avanzata dei bulldozer per demolire le barricate e spari, raffiche vere, come provano i feriti curati nell’ospedale da campo. E i cadaveri (in un primo tempo quarantacinque) contati dai giornalisti. Quest’ultimi, testimoni sgraditi e quindi spesso aggrediti, e trattenuti, non hanno avuto la vita facile. L’esercito ha lasciato fare alla polizia, non è intervenuto direttamente all’interno dei campi trincerati, ma li ha circondati con mezzi blindati per isolarli. Molti Fratelli musulmani sono riusciti a sfuggire all’accerchiamento e si sono dispersi nella città, dove fino a tarda sera hanno acceso scontri con la polizia. Hanno anche organizzato un centro di resistenza in una moschea periferica, da dove si sono alzate colonne di fumo. Al tramonto c’erano ancora scontri a Nasr City, sulla piazza Rabaa al-Adawija, attorno alla moschea con lo stesso nome.
Alla fine della giornata, il cronista conserva alcune immagini: i poliziotti che sparano ai lanciatori di pietre annidati su un tetto; i giovani feriti al torace e al collo portati a braccio in un ospedale da campo; l’ufficiale in fin di vita; i Fratelli musulmani arrestati, in ginocchio e con le mani alla nuca; le fastidiose nuvole bianche del gas lacrimogeno e quelle scure, nere dei pneumatici bruciati in mezzo alla strada. Da questa giornata di sangue l’Egitto è più diviso che mai. La spaccatura tra laici e religiosi è profonda ma zigzagante. I liberali come Baradei si dissociano dai militari che hanno scelto la repressione. E al tempo stesso i salafiti di Al Nour, il partito islamico estremista, non ha dimostrato solidarietà ai Fratelli musulmani. Al tempo stesso si sono moltiplicate le aggressioni alla chiese cristiane copte nell’Alto Egitto. Mentre nel Sinai gruppi, che si ritiene siano affiliati o si ispirino ad Al Qaeda, aggrediscono i militari. Il generale Sisi ha come obiettivo, stando al mio occasionale e già citato compagno egiziano, di mettere fine alla “ sanguinosa ricreazione” provocata dalla primavera araba. Per questo lui, come non pochi altri egiziani, ama il “nuovo Nasser” apparso sulle sponde del Nilo.
Tito, Nasser, Nehru |
domenica 11 agosto 2013
Nello Ajello
Simonetta Fiori
la Repubblica
11 agosto 2013
È MORTO a Roma il giornalista e scrittore Nello Ajello, storica firma di Repubblica e dell'Espresso. Avrebbe compiuto 83 anni il 20 novembre. Era da tempo malato di tumore, ma l'ha scoperto solo di recente perché concentrato su un dolore più grande: la malattia della moglie Giulia, scomparsa lo scorso 25 luglio. Una storia d'amore d'altri tempi, un legame che non poteva essere reciso.
Elegante, ironico, una leggera somiglianza con l'attore David Niven, Nello Ajello incarnava esemplarmente la stirpe degli "anglonapoletani", una specie antropologica e intellettuale che Beniamino Placido faceva risalire alla fine del Settecento, l'epoca di Emma Hamilton, moglie dell'ambasciatore britannico nel Regno di Napoli. Inconfondibili nel rigore. Inconfondibili nel modo di vestire. Inconfondibili nell'amare la loro imbarazzante città - imbarazzante per "l'eccesso" e "l'incoscienza" - opponendole uno stile che non conosce approssimazione. Né in termini etici né in quelli estetici.
Anche il percorso intellettuale di Nello Ajello non conobbe approssimazioni, essendosi definito sin dagli anni Cinquanta attraverso alcuni santuari della cultura democratica e progressista. I primi passi a Nord e Sud, la rivista di Francesco Compagna che coniugava meridionalismo ed europeismo ("il capitolo più appassionante della mia giovinezza"). Il lavoro a Torino all'Olivetti, al fianco del mitico mecenate Adriano ("Mio padre si mostrò stupefatto: 'Che vai a fare a Torino? È 'nu paisiello! 'Vado a Torino, risposi, perché la amo molto e perché non posso andare a Helsinki non conoscendone la lingua").
La collaborazione al Mondo di Pannunzio e la successiva attività nelle stanze dell'Espresso, di cui per tanti anni fu condirettore al fianco di Livio Zanetti ("Mi occupavo di qualsiasi cosa, dal salotto di Croce alla vallata vietnamita di Da-Nang, dalla legge Merlin alla Guerra dei sei giorni"). Infine l'approdo nelle pagine di Repubblica, dove dall'89 al '91 diresse il supplemento culturale Mercurio e poi restò firma d'eccellenza, sempre nel segno della levità e della destrezza. Un itinerario politico e culturale coerente, che egli amava restituire con il consueto understatement: "Mi pare di aver provato simpatia per una liberaldemocrazia a sfondo laico che fosse davvero tale, senza sconfinamenti verso utopie di segno diverso o verso cangianti settarismi. E senza aderire - per farla breve - ai più acrobatici revisionismi a' la page. Ciò non toglie che nella classica distinzione a firma di Norberto Bobbio tra destra e sinistra, io mi riconosca nel secondo corno del dilemma, pur non rinunziando allo sgomento cui mi induce l'oltranzismo anche in veste progressista".
Maestro di antiretorica, ha saputo raccontare il Novecento - ma anche gli esordi del nuovo secolo - senza tracce di sussiego, nella lucida consapevolezza delle mine nascoste in un mestiere che ha contribuito a reinventare. Nelle migliaia di articoli e profili critici - che compongono una sorta di enciclopedia dell'intellighenzia contemporanea - non ci si imbatte mai né nell'accademia né nell'astrattezza. Considerava il giornalismo culturale una specialità a sé, che richiede a chi vi si cimenta un'ardua quadratura del cerchio. "La figura del redattore culturale", diceva Nello, "è esposta a un pericolo: sta in bilico tra il professore che non sa scrivere e il dilettante che magari sa scrivere ma non sa. Professionalmente parlando, egli può o deve essere un centauro. Ossia deve sapere, e deve sapere scrivere". E se non sa, aggiungeva, deve sapere dove mettere le mani.
Lettore colto e raffinatissimo, Ajello apparteneva alla specie di chi sapeva. E sapeva scrivere con rara capacità narrativa. Ma non è rintracciabile negli innumerevoli interventi un sospetto di supponenza. Rigore storiografico, cura del dettaglio sapido e il cannocchiale rovesciato dell'ironia: nel territorio assai vasto del dibattito delle idee, il suo approccio è sempre rimasto giornalistico, capace di nutrire l'intelligenza senza mai renderla stanca od opaca. Anche nel fare i titoli - genere in cui esercitava un indiscusso magistero - scuoteva gerarchie e monumenti. E in redazione non erano ammessi musi lunghi: se in questo mestiere non ci si diverte - era il suo monito - forse è meglio sceglierne un altro.
Nelle sue istantanee poco ossequiose, intere schiere di maîtres à penser sono scese dal piedistallo per acquistare abitudini, ossessioni, nevrosi, fragilità proprie di uomini comuni. Romanzieri, poeti, critici, editori, umoristi, attori, filosofi, statisti, sociologi, politologi. Maggiori e minori. La sua galleria di Illustrissimi (un libro del 2006) mostra "un alternarsi di pensoso e ilare" che era anche una metodologia di lavoro. "Un giornale è per definizione quanto di più pragmatico e di meno protocollare esista quando ospita temi culturali. Incenso e gloria: ecco due ingredienti che mi piacerebbe non figurassero in queste pagine". E divenuto egli stesso "illustrissimo", evitò fino alla fine di impancarsi a venerato maestro. Una tentazione, diceva, che nella vecchiaia è assolutamente da evitare.
I suoi due saggi sui rapporti tra intellettuali e Pci, che coprono mezzo secolo di vicende nazionali, resteranno un caposaldo della bibliografia storica contemporanea (Intellettuali e Pci e Il Lungo addio, entrambi di Laterza). Il consueto stile mercuriale, accompagnato da una sterminata documentazione anche inedita su episodi e personaggi, ne fanno dei classici destinati nel tempo a essere letti, riletti e consultati. "Una paziente e modesta monografia", li definiva l'autore rubando il termine a Francesco De Sanctis, il quale inclinava a credere che "accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge". Il libro-intervista con Alberto Moravia, suo grande amico, fu adottato nei corsi universitari di Lettere. E nella stessa collana laterziana avrebbe firmato più di recente L'editore fortunato, una partecipe conversazione con Carlo Caracciolo, insieme a Eugenio Scalfari suo compagno di viaggio nell'avventura dell'Espresso e di Repubblica.
Erede dei Flaiano e dei Maccari, i cui acquerelli affollavano le pareti di casa, Ajello era anche un formidabile autore di corsivi. Tra il 1992 e il 1993, sulle pagine politiche del quotidiano, ritrasse il naufragio della prima Repubblica. Per Bettino Craxi coniò il motto "l'irritation au pouvoir", a ricalco dello slogan del Sessantotto francese. Con De Mita intonava "Fratelli d'Irpinia". E Formigoni era la "prova ontologica dell'inesistenza di Dio". Quello del corsivo era un genere che gli somigliava. "Confina con l'aforisma e l'epigramma", lo definì una volta. "Nasconde l'animosità dietro l'ironia. Chiude la cattiveria dietro la gabbia del distacco. La sua perfidia, quando c'è, va servita fredda. È un tipo di prestazione che, con la sua brevità, fulmina l'autore per primo. Non sopporta il sussiego. Somiglia all'articolo di fondo come una lucertola a un coccodrillo: o è agile o non è".
Agile Nello lo era anche nella vita. Ogni parola fiammeggiava di ironia. "Per una battuta si mangerebbe una casa", scrisse una volta Valerio Riva curandone un'antologia di scritti. Epigrafe che non gli dispiaceva. Un'arguzia affidata al rovesciamento parodistico, in cui lui scivolava agli ultimi gradini e gli altri erano pericolosamente promossi a sovrani pro tempore. Niente gli era più estraneo di quello che definiva il "soufflé dell'ego", quanto mai contagioso nella varia umanità che rallegra il nostro mestiere. Ma se nella professione e nello stile intellettuale esercitava e predicava distanza, nella convivenza con amici e colleghi non c'era lutto o anche solo dispiacere che non lo vedesse coinvolto. Umanissimo e sensibile. Impeccabile e generoso. Attento e a tratti malinconico. Distratto da sé fino all'ultimo, tanto da non accorgersi del male che lo minava.
Anche nei giorni del dolore per l'agonia di Giulia, non ha mancato di inviare a Repubblica una serie di articoli per l'anniversario del crollo del fascismo. Puntuale, come sempre. Documentato, come nessun altro. Il mestiere non contempla lacrime, in pubblico. Ciao, Nello. E grazie.
la Repubblica
11 agosto 2013
È MORTO a Roma il giornalista e scrittore Nello Ajello, storica firma di Repubblica e dell'Espresso. Avrebbe compiuto 83 anni il 20 novembre. Era da tempo malato di tumore, ma l'ha scoperto solo di recente perché concentrato su un dolore più grande: la malattia della moglie Giulia, scomparsa lo scorso 25 luglio. Una storia d'amore d'altri tempi, un legame che non poteva essere reciso.
Elegante, ironico, una leggera somiglianza con l'attore David Niven, Nello Ajello incarnava esemplarmente la stirpe degli "anglonapoletani", una specie antropologica e intellettuale che Beniamino Placido faceva risalire alla fine del Settecento, l'epoca di Emma Hamilton, moglie dell'ambasciatore britannico nel Regno di Napoli. Inconfondibili nel rigore. Inconfondibili nel modo di vestire. Inconfondibili nell'amare la loro imbarazzante città - imbarazzante per "l'eccesso" e "l'incoscienza" - opponendole uno stile che non conosce approssimazione. Né in termini etici né in quelli estetici.
Anche il percorso intellettuale di Nello Ajello non conobbe approssimazioni, essendosi definito sin dagli anni Cinquanta attraverso alcuni santuari della cultura democratica e progressista. I primi passi a Nord e Sud, la rivista di Francesco Compagna che coniugava meridionalismo ed europeismo ("il capitolo più appassionante della mia giovinezza"). Il lavoro a Torino all'Olivetti, al fianco del mitico mecenate Adriano ("Mio padre si mostrò stupefatto: 'Che vai a fare a Torino? È 'nu paisiello! 'Vado a Torino, risposi, perché la amo molto e perché non posso andare a Helsinki non conoscendone la lingua").
La collaborazione al Mondo di Pannunzio e la successiva attività nelle stanze dell'Espresso, di cui per tanti anni fu condirettore al fianco di Livio Zanetti ("Mi occupavo di qualsiasi cosa, dal salotto di Croce alla vallata vietnamita di Da-Nang, dalla legge Merlin alla Guerra dei sei giorni"). Infine l'approdo nelle pagine di Repubblica, dove dall'89 al '91 diresse il supplemento culturale Mercurio e poi restò firma d'eccellenza, sempre nel segno della levità e della destrezza. Un itinerario politico e culturale coerente, che egli amava restituire con il consueto understatement: "Mi pare di aver provato simpatia per una liberaldemocrazia a sfondo laico che fosse davvero tale, senza sconfinamenti verso utopie di segno diverso o verso cangianti settarismi. E senza aderire - per farla breve - ai più acrobatici revisionismi a' la page. Ciò non toglie che nella classica distinzione a firma di Norberto Bobbio tra destra e sinistra, io mi riconosca nel secondo corno del dilemma, pur non rinunziando allo sgomento cui mi induce l'oltranzismo anche in veste progressista".
Maestro di antiretorica, ha saputo raccontare il Novecento - ma anche gli esordi del nuovo secolo - senza tracce di sussiego, nella lucida consapevolezza delle mine nascoste in un mestiere che ha contribuito a reinventare. Nelle migliaia di articoli e profili critici - che compongono una sorta di enciclopedia dell'intellighenzia contemporanea - non ci si imbatte mai né nell'accademia né nell'astrattezza. Considerava il giornalismo culturale una specialità a sé, che richiede a chi vi si cimenta un'ardua quadratura del cerchio. "La figura del redattore culturale", diceva Nello, "è esposta a un pericolo: sta in bilico tra il professore che non sa scrivere e il dilettante che magari sa scrivere ma non sa. Professionalmente parlando, egli può o deve essere un centauro. Ossia deve sapere, e deve sapere scrivere". E se non sa, aggiungeva, deve sapere dove mettere le mani.
Lettore colto e raffinatissimo, Ajello apparteneva alla specie di chi sapeva. E sapeva scrivere con rara capacità narrativa. Ma non è rintracciabile negli innumerevoli interventi un sospetto di supponenza. Rigore storiografico, cura del dettaglio sapido e il cannocchiale rovesciato dell'ironia: nel territorio assai vasto del dibattito delle idee, il suo approccio è sempre rimasto giornalistico, capace di nutrire l'intelligenza senza mai renderla stanca od opaca. Anche nel fare i titoli - genere in cui esercitava un indiscusso magistero - scuoteva gerarchie e monumenti. E in redazione non erano ammessi musi lunghi: se in questo mestiere non ci si diverte - era il suo monito - forse è meglio sceglierne un altro.
Nelle sue istantanee poco ossequiose, intere schiere di maîtres à penser sono scese dal piedistallo per acquistare abitudini, ossessioni, nevrosi, fragilità proprie di uomini comuni. Romanzieri, poeti, critici, editori, umoristi, attori, filosofi, statisti, sociologi, politologi. Maggiori e minori. La sua galleria di Illustrissimi (un libro del 2006) mostra "un alternarsi di pensoso e ilare" che era anche una metodologia di lavoro. "Un giornale è per definizione quanto di più pragmatico e di meno protocollare esista quando ospita temi culturali. Incenso e gloria: ecco due ingredienti che mi piacerebbe non figurassero in queste pagine". E divenuto egli stesso "illustrissimo", evitò fino alla fine di impancarsi a venerato maestro. Una tentazione, diceva, che nella vecchiaia è assolutamente da evitare.
I suoi due saggi sui rapporti tra intellettuali e Pci, che coprono mezzo secolo di vicende nazionali, resteranno un caposaldo della bibliografia storica contemporanea (Intellettuali e Pci e Il Lungo addio, entrambi di Laterza). Il consueto stile mercuriale, accompagnato da una sterminata documentazione anche inedita su episodi e personaggi, ne fanno dei classici destinati nel tempo a essere letti, riletti e consultati. "Una paziente e modesta monografia", li definiva l'autore rubando il termine a Francesco De Sanctis, il quale inclinava a credere che "accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge". Il libro-intervista con Alberto Moravia, suo grande amico, fu adottato nei corsi universitari di Lettere. E nella stessa collana laterziana avrebbe firmato più di recente L'editore fortunato, una partecipe conversazione con Carlo Caracciolo, insieme a Eugenio Scalfari suo compagno di viaggio nell'avventura dell'Espresso e di Repubblica.
Erede dei Flaiano e dei Maccari, i cui acquerelli affollavano le pareti di casa, Ajello era anche un formidabile autore di corsivi. Tra il 1992 e il 1993, sulle pagine politiche del quotidiano, ritrasse il naufragio della prima Repubblica. Per Bettino Craxi coniò il motto "l'irritation au pouvoir", a ricalco dello slogan del Sessantotto francese. Con De Mita intonava "Fratelli d'Irpinia". E Formigoni era la "prova ontologica dell'inesistenza di Dio". Quello del corsivo era un genere che gli somigliava. "Confina con l'aforisma e l'epigramma", lo definì una volta. "Nasconde l'animosità dietro l'ironia. Chiude la cattiveria dietro la gabbia del distacco. La sua perfidia, quando c'è, va servita fredda. È un tipo di prestazione che, con la sua brevità, fulmina l'autore per primo. Non sopporta il sussiego. Somiglia all'articolo di fondo come una lucertola a un coccodrillo: o è agile o non è".
Agile Nello lo era anche nella vita. Ogni parola fiammeggiava di ironia. "Per una battuta si mangerebbe una casa", scrisse una volta Valerio Riva curandone un'antologia di scritti. Epigrafe che non gli dispiaceva. Un'arguzia affidata al rovesciamento parodistico, in cui lui scivolava agli ultimi gradini e gli altri erano pericolosamente promossi a sovrani pro tempore. Niente gli era più estraneo di quello che definiva il "soufflé dell'ego", quanto mai contagioso nella varia umanità che rallegra il nostro mestiere. Ma se nella professione e nello stile intellettuale esercitava e predicava distanza, nella convivenza con amici e colleghi non c'era lutto o anche solo dispiacere che non lo vedesse coinvolto. Umanissimo e sensibile. Impeccabile e generoso. Attento e a tratti malinconico. Distratto da sé fino all'ultimo, tanto da non accorgersi del male che lo minava.
Anche nei giorni del dolore per l'agonia di Giulia, non ha mancato di inviare a Repubblica una serie di articoli per l'anniversario del crollo del fascismo. Puntuale, come sempre. Documentato, come nessun altro. Il mestiere non contempla lacrime, in pubblico. Ciao, Nello. E grazie.
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