Simonetta Fiori
la Repubblica
11 agosto 2013
È MORTO a Roma il giornalista e scrittore Nello Ajello, storica firma di
Repubblica e dell'Espresso. Avrebbe compiuto 83 anni il 20 novembre.
Era da tempo malato di tumore, ma l'ha scoperto solo di recente perché
concentrato su un dolore più grande: la malattia della moglie Giulia,
scomparsa lo scorso 25 luglio. Una storia d'amore d'altri tempi, un
legame che non poteva essere reciso.
Elegante,
ironico, una leggera somiglianza con l'attore David Niven, Nello Ajello
incarnava esemplarmente la stirpe degli "anglonapoletani", una specie
antropologica e intellettuale che Beniamino Placido faceva risalire alla
fine del Settecento, l'epoca di Emma Hamilton, moglie dell'ambasciatore
britannico nel Regno di Napoli. Inconfondibili nel rigore.
Inconfondibili nel modo di vestire. Inconfondibili nell'amare la loro
imbarazzante città - imbarazzante per "l'eccesso" e "l'incoscienza"
- opponendole uno stile che non conosce approssimazione. Né in termini
etici né in quelli estetici.
Anche
il percorso intellettuale di Nello Ajello non conobbe approssimazioni,
essendosi definito sin dagli anni Cinquanta attraverso alcuni santuari
della cultura democratica e progressista. I primi passi a Nord e Sud, la
rivista di Francesco Compagna che coniugava meridionalismo ed
europeismo ("il capitolo più appassionante della mia giovinezza"). Il
lavoro a Torino all'Olivetti, al fianco del mitico mecenate Adriano
("Mio padre si mostrò stupefatto: 'Che vai a fare a Torino? È 'nu
paisiello! 'Vado a Torino, risposi, perché la amo molto e perché non
posso andare a Helsinki non conoscendone la lingua").
La
collaborazione al Mondo di Pannunzio e la successiva attività nelle
stanze dell'Espresso, di cui per tanti anni fu condirettore al fianco di
Livio Zanetti ("Mi occupavo di qualsiasi cosa, dal salotto di Croce
alla vallata vietnamita di Da-Nang, dalla legge Merlin alla Guerra dei
sei giorni"). Infine l'approdo nelle pagine di Repubblica, dove dall'89
al '91 diresse il supplemento culturale Mercurio e poi restò firma
d'eccellenza, sempre nel segno della levità e della destrezza. Un
itinerario politico e culturale coerente, che egli amava restituire con
il consueto understatement: "Mi pare di aver provato simpatia per una
liberaldemocrazia a sfondo laico che fosse davvero tale, senza
sconfinamenti verso utopie di segno diverso o verso cangianti
settarismi. E senza aderire - per farla breve - ai più acrobatici
revisionismi a' la page. Ciò non toglie che nella classica distinzione a
firma di Norberto Bobbio tra destra e sinistra, io mi riconosca nel
secondo corno del dilemma, pur non rinunziando allo sgomento cui mi
induce l'oltranzismo anche in veste progressista".
Maestro di
antiretorica, ha saputo raccontare il Novecento - ma anche gli esordi
del nuovo secolo - senza tracce di sussiego, nella lucida
consapevolezza delle mine nascoste in un mestiere che ha contribuito a
reinventare. Nelle migliaia di articoli e profili critici - che
compongono una sorta di enciclopedia dell'intellighenzia contemporanea
- non ci si imbatte mai né nell'accademia né nell'astrattezza.
Considerava il giornalismo culturale una specialità a sé, che richiede a
chi vi si cimenta un'ardua quadratura del cerchio. "La figura del
redattore culturale", diceva Nello, "è esposta a un pericolo: sta in
bilico tra il professore che non sa scrivere e il dilettante che magari
sa scrivere ma non sa. Professionalmente parlando, egli può o deve
essere un centauro. Ossia deve sapere, e deve sapere scrivere". E se non
sa, aggiungeva, deve sapere dove mettere le mani.
Lettore colto e
raffinatissimo, Ajello apparteneva alla specie di chi sapeva. E sapeva
scrivere con rara capacità narrativa. Ma non è rintracciabile negli
innumerevoli interventi un sospetto di supponenza. Rigore storiografico,
cura del dettaglio sapido e il cannocchiale rovesciato dell'ironia: nel
territorio assai vasto del dibattito delle idee, il suo approccio è
sempre rimasto giornalistico, capace di nutrire l'intelligenza senza mai
renderla stanca od opaca. Anche nel fare i titoli - genere in cui
esercitava un indiscusso magistero - scuoteva gerarchie e monumenti. E
in redazione non erano ammessi musi lunghi: se in questo mestiere non
ci si diverte - era il suo monito - forse è meglio sceglierne un
altro.
Nelle sue istantanee poco ossequiose, intere schiere di maîtres à penser
sono scese dal piedistallo per acquistare abitudini, ossessioni,
nevrosi, fragilità proprie di uomini comuni. Romanzieri, poeti, critici,
editori, umoristi, attori, filosofi, statisti, sociologi, politologi.
Maggiori e minori. La sua galleria di Illustrissimi (un libro del 2006)
mostra "un alternarsi di pensoso e ilare" che era anche una metodologia
di lavoro. "Un giornale è per definizione quanto di più pragmatico e di
meno protocollare esista quando ospita temi culturali. Incenso e gloria:
ecco due ingredienti che mi piacerebbe non figurassero in queste
pagine". E divenuto egli stesso "illustrissimo", evitò fino alla fine di
impancarsi a venerato maestro. Una tentazione, diceva, che nella
vecchiaia è assolutamente da evitare.
I suoi due saggi sui
rapporti tra intellettuali e Pci, che coprono mezzo secolo di vicende
nazionali, resteranno un caposaldo della bibliografia storica
contemporanea (Intellettuali e Pci e Il Lungo addio, entrambi di
Laterza). Il consueto stile mercuriale, accompagnato da una sterminata
documentazione anche inedita su episodi e personaggi, ne fanno dei
classici destinati nel tempo a essere letti, riletti e consultati. "Una
paziente e modesta monografia", li definiva l'autore rubando il termine a
Francesco De Sanctis, il quale inclinava a credere che "accertare un
fatto desta più interesse che stabilire una legge". Il libro-intervista
con Alberto Moravia, suo grande amico, fu adottato nei corsi
universitari di Lettere. E nella stessa collana laterziana avrebbe
firmato più di recente L'editore fortunato, una partecipe conversazione
con Carlo Caracciolo, insieme a Eugenio Scalfari suo compagno di viaggio
nell'avventura dell'Espresso e di Repubblica.
Erede dei Flaiano e
dei Maccari, i cui acquerelli affollavano le pareti di casa, Ajello era
anche un formidabile autore di corsivi. Tra il 1992 e il 1993, sulle
pagine politiche del quotidiano, ritrasse il naufragio della prima
Repubblica. Per Bettino Craxi coniò il motto "l'irritation au pouvoir", a
ricalco dello slogan del Sessantotto francese. Con De Mita intonava
"Fratelli d'Irpinia". E Formigoni era la "prova ontologica
dell'inesistenza di Dio". Quello del corsivo era un genere che gli
somigliava. "Confina con l'aforisma e l'epigramma", lo definì una volta.
"Nasconde l'animosità dietro l'ironia. Chiude la cattiveria dietro la
gabbia del distacco. La sua perfidia, quando c'è, va servita fredda. È
un tipo di prestazione che, con la sua brevità, fulmina l'autore per
primo. Non sopporta il sussiego. Somiglia all'articolo di fondo come una
lucertola a un coccodrillo: o è agile o non è".
Agile Nello lo
era anche nella vita. Ogni parola fiammeggiava di ironia. "Per una
battuta si mangerebbe una casa", scrisse una volta Valerio Riva
curandone un'antologia di scritti. Epigrafe che non gli dispiaceva.
Un'arguzia affidata al rovesciamento parodistico, in cui lui scivolava
agli ultimi gradini e gli altri erano pericolosamente promossi a sovrani
pro tempore. Niente gli era più estraneo di quello che
definiva il "soufflé dell'ego", quanto mai contagioso nella varia
umanità che rallegra il nostro mestiere. Ma se nella professione e nello
stile intellettuale esercitava e predicava distanza, nella convivenza
con amici e colleghi non c'era lutto o anche solo dispiacere che non lo
vedesse coinvolto. Umanissimo e sensibile. Impeccabile e generoso.
Attento e a tratti malinconico. Distratto da sé fino all'ultimo, tanto da non accorgersi del male che lo minava.
Anche
nei giorni del dolore per l'agonia di Giulia, non ha mancato di inviare
a Repubblica una serie di articoli per l'anniversario del crollo del
fascismo. Puntuale, come sempre. Documentato, come nessun altro. Il
mestiere non contempla lacrime, in pubblico. Ciao, Nello. E grazie.
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