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mercoledì 27 agosto 2025

La materia di Dante

 


fatevi una nuotata con dante e il suo mare
Critica

Quanti libri su Dante possono uscire in un trimestre? Sembra ci siano periodi dell’anno in cui essi planano in libreria con la stessa frequenza delle stelle cadenti attorno al 10 di agosto. Donato Pirovano e Ambrogio Camozzi Pistoja hanno scritto due libri molto diversi, ma entrambi attraenti, l’uno forse più tradizionale, l’altro più innovativo.

Il primo offre una importante e leggibilissima analisi tematica di tutto Dante, da quello lirico a quello della Commedia, il tema essendo non solo le similitudini centrate sul mare (per le similitudini dantesche si vedrà il volume di Lewis, originariamente pubblicato nel 1966, con un saggio dei suoi che spazia dalle similitudini di Omero a quelle cdi Virgilio a quelle di Dante), ma il mare come uno dei centri dell’immaginazione di un poeta che, se senza dubbio ha visto il “tremolar de la marina”, non ha mai, probabilmente, navigato. Il secondo presenta una reinterpretazione totale, non facile ma originalissima, del poema dantesco a partire da, e per finire con, il concetto di “materia”.

Solo e pensoso, Pirovano misura a passi tardi e lenti i più deserti campi, e porta gli occhi per fuggire intenti ove vestigio uman l’arena stampi: il metodo gli permette di non perdere una sola immagine marina, sin dal “vasello” nel quale Dante dichiara in un celebre sonetto di voler esser “messo” per incantamento insieme a Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, e fino all’acqua da nessuno prima mai percorsa del Paradiso, presentando anche un corredo iconografico breve ma di grande suggestione. Di ognuna di tali immagini ricerca le fonti, discute il significato nell’economia del poema, ricostruisce il contesto: compie insomma l’opera meritoria di trasformare Dante, già da qualcuno definito “poeta terragno e terrigno”, in cantore polivalente del mare: di Ulisse e degli Argonauti, del “gran mar de l’essere”, del “discorrer di Dio” sovra le acque celesti al momento della Creazione, del rinchiudersi dell’oceano sopra un vascello naufragante e del ritornare equale dell’acqua dietro la nave che “cantando varca”.

In un percorso, cioè, dall’abisso infernale, che inizia sulla “fiumana ove ’l mar non ha vanto”, alle “migliori acque” del Purgatorio, al pelago paradisiaco nel quale “nostro intelletto si profonda tanto che retro la memoria non può ire”, al tuffo di Glauco nel “trasumanar”, all’insondabile ponto della giustizia divina. Chiudendo il libro, ci si sente come dopo una lunga nuotata al largo, o come dev’essersi sentito Pigafetta dopo tre anni di circumnavigazione del globo: stanchi e rinfrescati, e pronti a rileggere i passi più coinvolgenti, molti e redatti a perfezione.

L’esperienza che si fa leggendo La materia di Dante è più accidentata, più complessa, ma anche, alla fine, premiante.

A chi gli domandava, qualche anno fa, su cosa stesse lavorando, Camozzi Pistoja avrebbe voluto rispondere: «Il fondamento materico del mondo, perché le cose sono invece di non essere, se questo mare in cui ci muoviamo ciascuno a suo porto abbia un ordine, se quest’ordine sia conoscibile, se sia effettivamente una proprietà del reale là fuori». Mi fermo, il paragrafo è troppo lungo per una recensione. Ma quella risposta che l’autore allora non dava, scegliendo la più banale (e del resto esatta) “Letteratura medievale e in particolare Dante”, è divenuta questo libro, un volume in undici sezioni che parte da un celebre articolo di Charles Singleton del 1965 nel quale veniva rivelata “una vasta sequenza simmetrica” al centro esatto della Commedia.

Dai canti centrali del Purgatorio tale simmetria si estendeva poi a macchia d’olio a coprire l’intero poema. Non è cosa da poco, e Camozzi ritrova una conformazione strutturale eptavalente nell’ “atto poietico” – “l’atto che trae in essere le cose” – in tutti gli scritti di Dante. C’è una ragione? Sì, è appunto la materia, l’ilemorfismo dantesco quale emerge, per esempio, in Paradiso XXIX: “Forma e materia, congiunte o purette”. La materia, la hyle dei greci, è come Proteo che vive in fondo al mare e a tutti sfugge, cangiando di forma. La materia, secondo Dante, è talvolta “sorda” all’“intenzion de l’arte”, cioè alle richieste della forma. Costanti quindi due effetti: la caducità e la metamorfosi, Malebolge e la bolgia dei ladri. Hével, perciò: soffio, vanitas vanitatum.

È chiaro che un percorso a spirale compiuto con inventività linguistica estrema, per così dire post-continiana, e con titolature immaginose sul piano metaforico, eppure sempre rilevanti – L’ultime fasce, I sacri arredi, Bugonia, Materiologia, Akedah, Pardès – non può essere riassunto in una recensione di giornale, ma quel che va sottolineato è che esso si fonda su un’attenzione paziente al testo, ai suoi particolari micro- e macroscopici, nonché su bibliografie ragionate capitolo per capitolo, sicché alla fine il lettore si forma un’idea completa della immensa materia di Dante, che è la stoffa stessa del mondo fisico e l’invenzione di un nuovo universo. Un libro così è di un’originalità dirompente, e a lungo rimarrà sule nostre scrivanie.


Donato Pirovano
Dante e il mare

Donzelli, pagg. 296, € 28

Ambrogio Camozzi Pistoja

La materia di Dante

Longo, Ravenna,

pagg. 292, € 24


Copertina del volume: Dante e il mare

Donato Pirovano

Dante e il mare

Collana: Saggi. Arti e lettere
2025, pp. 312
ISBN: 9788855227216

€ 28,00  € 26,60
  • Altre edizioni
    ePub con social DRM
    ISBN: 9788855227889
    € 11,99
Scheda libro

Nel viaggio oltremondano raccontato nella Commedia, Dante rasenta una
volta sola il mare: sono le acque oceaniche che bagnano l’isola del
purgatorio nell’emisfero australe, che il poeta vede dopo essere uscito
dall’inferno. In quelle stesse acque, all’inizio della creazione è
precipitato Lucifero, e lì è naufragata la nave di Ulisse, dopo che l’eroe
greco aveva convinto i suoi compagni a lanciarsi oltre le Colonne d’Ercole.
Il Mar Mediterraneo è invece presente nei racconti di personaggi incontrati
lungo il cammino, da Francesca a Folchetto di Marsiglia, da Pier da Medicina
a Sapia. Il mare nostrum si intravede anche nei miti che interagiscono con la
poesia dantesca: Glauco, la Sirena, Ero e Leandro, gli Argonauti. Tuttavia, è
nel tessuto metaforico che il mare fa sentire maggiormente il rumore dei
suoi flutti, a partire dalla similitudine con cui si apre il poema, quella di un
naufrago che scruta le acque alle quali è sopravvissuto, fino all’immagine
del canto finale del Paradiso, in cui Nettuno guarda meravigliato l’ombra
di Argo, la prima nave che ha solcato il suo regno. C’è poi una metafora
antica che Dante rende sua e rinnova, quella della poesia come
navigazione, che apre mirabilmente le ultime due cantiche e innerva l’intera
struttura del poema. Quello del mare è un tema ricorrente nella
Commedia, ma è presente in quasi tutte le opere di Dante; dato
curioso, visto che molto probabilmente egli non ebbe mai occasione di
solcarlo. Si tratta di un argomento sterminato, ricco di sfaccettature,
oltre che di implicazioni letterarie e filosofiche, spesso toccato dalla critica,
ma fino a oggi mai affrontato compiutamente in una monografia. Il libro di
Pirovano colma questa lacuna offrendo un’analisi completa della
presenza del mare, fisico e metaforico, nel corpus dantesco.

Autore

Donato Pirovano
Donato Pirovano è professore ordinario di filologia e critica dantesca
all’Università di Milano. Socio dell’Accademia delle scienze di Torino,
ha tenuto pubbliche letture dantesche presso varie istituzioni culturali
e università in Italia e all’estero. Nel 2015 ha curato una nuova
edizione criticamente rivista e commentata della Vita nuova.
Per i tipi della Donzelli ha pubblicato Amore e colpa. Dante e
Francesca (2021) e La nudità di Beatrice. Dante, Giotto,
Ambrogio Lorenzetti e l’iconografia della Carità (2023). 


venerdì 8 agosto 2025

Confessioni di un bagnino

Stefano Mazzotti non è il bagnino dell'intervista


Filippo Fiorini
Lo storico bagnino: "Io, Fellini e le tedesche sul moscone, la Riviera ha voltato le spalle al mare"
La Stampa, 8 agosto 2025

Sono vitelloni, latin lover, rubacuori, «birri» di Romagna. Fieri di essere bagnini. Anche se il tempo scorre, loro restano gli stessi. Si adeguano alle mode, rinnovano l’abbronzatura, sorridono sui ricordi di ragazze (e di ragazzate) passate, così come sorridono ad ogni nuova stagione balneare che inizia, trascorre e va, come i loro adorati turisti. Fausto Ravaglia, mezzo secolo in servizio alla sua Marano Beach di Riccione, racconta quel che è stata la Riviera, che cosa è cambiato, perché tanti sempre tornano e perché altri invece vanno altrove. Per il futuro, questi piccoli imprenditori che conservano nella conduzione famigliare il segreto della loro rinomata accoglienza, si sentono minacciati dai grandi capitali esteri a cui la direttiva Bolkenstein ha aperto le concessioni sulle spiagge. Nonostante una stagione tutt’altro non eccellente, confidano in un Ferragosto sold-out.

Da quanto fa il bagnino?
«Sono 53 anni quest'anno».

Come è cambiata la Riviera?
«Strutturalmente, e nel modo d’uso. Oggi, c’è un turismo mordi e fuggi. Una volta, si facevano le vacanze lunghe. Ferie di 15 giorni o un mese. Dagli Anni 60 fino ai ’90, venire qui era una questione di status e noi a Riccione, in questo siamo sempre stati un punto di riferimento».

E la clientela?
«È cambiato anche il pubblico. Anni fa, avevamo la Mitteleuropa che ci invadeva. Tedeschi, svedesi, inglesi. L'aeroporto Fellini di Rimini lavorava molto, ora è deserto. Poi, in agosto arrivavano gli italiani».

Che cosa ha causato il cambiamento?
«Un trauma notevole c'è stato nel 1989 e nel '90, per le mucillagini. Lì, hanno preso vigore le località balneari concorrenti, come quelle in Spagna. Poi, c'è stata una rivalità sempre più aggressiva dai Paesi emergenti. Sia chiaro, l'offerta in stile romagnolo non si trova da nessuna altra parte, ma anche altrove hanno ammodernato le strutture».

Come si è adeguato?
«Ho già fatto tre ristrutturazioni radicali. Dall'ombrellone e lettino, che c'era una volta, con i mosconi a remi, si è passati ai mosconi a pedali. Poi, le moto d'acqua. Dalla mucillagine in poi, abbiamo un po’ girato le spalle al mare. Abbiamo iniziato a offrire servizi a terra, anche se la qualità dell’acqua migliorava. C'è stata la deindustralizzazione del porto. Sono stati installati depuratori d’avanguardia. Il nostro Adriatico non è mai stato bello come oggi. Ora, ci concentriamo sui servizi: prima i campi da beach volley e tennis, le aree giochi per bambini e l’animazione. Abbiamo fatto gli idromassaggi e le piscine. C’è stato il periodo delle motonavi, che adesso vanno scomparendo, ora, ci sono i chioschetti per gli aperitivi».

E il mito del vitellone, sopravvive?
«Siamo parte della storia, la tradizione resta. Fellini ha immortalato per sempre il fenomeno com’era negli Anni 50, ma ci sono tante generazioni successive che ne hanno fatto parte, tenendo vivo questo spirito pieno di leggerezza e libertà».

Può svelare qualche trucco?
«Per esempio, all’epoca si prendeva il moscone per andare a fare il bagno. Ce n’erano di tre tipi e bisognava scegliere quello con il prendisole, così la straniera si metteva subito comoda e tu, al momento giusto, avevi modo di fare i tuoi tentativi d'approccio».

Per forza una straniera?
«No, ma con le italiane eravamo più impegnati durante la settimana, perché nei week-end arrivavano mariti e fidanzati. Poi, scherzando tra ragazzi, dicevamo che una straniera valeva più punti nella classifica dei rubacuori. Comunque, una volta al largo, c’era abbastanza intimità per lasciarsi andare. Però, mentre tu eri indaffarato, la corrente ti portava verso riva e finiva che ti vedevano i bagnanti, allora dovevi subito riprendere i remi e tornare al largo».

Che cosa vede nel futuro della Romagna?
«C'è la grossa incognita della Bolkenstein, per cui chiunque può partecipare al bando per le spiagge. Anche le multinazionali. Questo è un pericolo per la nostra identità, la storia, la gestione famigliare fatta di microimprese accoglienti. Lo abbiamo visto succedere a Jesolo, dove la Geox ha acquistato sei bagni. Su questo, c'è una grossa responsabilità politica, in cui vedo poche idee e molto confuse. La nostra categoria, poi, non ho mai capito perché, gode di poca simpatia, ma è un lavoro di grande impegno, umano ed economico, che comincia da marzo».

Domani ci sarà uno sciopero dei bagnini perché il tratto di mare da controllare durante la pausa pranzo è molto grande. Che ne pensa?
«Oltre che bagnino, sono preparatore e maestro di salvamento. Penso che abbiano tutte le ragioni per dire che dover controllare 300 metri di mare è una grossa responsabilità. In passato c’era un’ora buca, ora sono due, con un’area più ampia da sorvegliare. Così, è vero che la sicurezza è aumentata, ma sarebbe meglio che i bagnini fossero pubblici ufficiali, con una qualifica simile a quella di un vigile del fuoco. Dovrebbe essere lo Stato a garantire questo servizio indispensabile, anche perché al giorno d’oggi i bagnini scarseggiano».

La stagione, come va?
«Non tutte le ciambelle riescono con il buco, e questa sta venendo col buco storto: il potenziale delle famiglie è limitato. È aumentato tutto tranne stipendi e pensioni. Il meteo è imprevedibile e, se le previsioni mettono pioggia, molti disdicono all’ultimo momento. Non dimentichiamoci che noi qui vendiamo soprattutto l’ombra. Giugno è andato bene, anche grazie agli eventi prima dell’alta stagione. Luglio, meno. Agosto promette sold-out, almeno nelle settimane centrali. Comunque, i conti li facciamo quando chiudiamo gli ombrelloni».

sabato 17 maggio 2025

Suona, ragazzo, suona! Herman Melville



Herman Melville
Redburn (1849)

A bordo della nostra nave, tra i passeggeri emigranti, c'era un ragazzo italiano dalle guance ricche e dai capelli castani, vestito con una giacca di velluto color oliva sbiadito e pantaloni stracciati arrotolati fino al ginocchio. Non aveva più di quindici anni; ma nella crepuscolare tristezza dei suoi giovanissimi occhi, sembravano rivivere esperienze così tristi e variegate, che i giorni dovevano essergli sembrati anni. I suoi occhi non erano come quelli di Harry, larghi e femminei, ma brillavano di una luce tenera e spirituale, come la luna in un cielo tropicale e parlavano  di umiltà, di profondità pensosa, ma anche di una serena accettazione di tutti i mali della vita.

Aveva una testa piccolissima; e ricoperta di folti grappoli di riccioli, ricadenti in parte sulla fronte e sugli orecchi delicati, faceva pensare qualche volta a un classico vaso, colmo di fogliame, di Falerno.

Dal ginocchio in giù, la gamba nuda era bella da vedere come le braccia di una donna, morbide e rotonde, piene di grazia infantile. Tutta la sua persona era disinvolta, bella e indolente; era un fanciullo come quelli che fioriscono alla vita in una vigna napoletana; un ragazzo come quelli che le zingare rubano bambini; oppure un ragazzo come Murillo dipingeva spesso, quando andava tra i poveri e gli emarginati, per soggetti con cui catturare gli occhi dei nobili e dei ricchi; un ragazzo come solo i mendicanti andalusi sono, pieno di poesia, che sgorga da ogni fessura.

Il suo nome era Carlo ed era un povero e solitario figlio della terra, che non aveva padroni ed era trascinato nell'oceano della vita, come uno spruzzo di mare in una tempesta.

Qualche mese prima, era sbarcato a Prince's Dock con il suo organetto in mano, da una nave di Messina; e aveva girato per le strade di Liverpool, suonando le arie allegre dei paesi meridionali, tra la nebbia e il nevischio del nord. E ora, avendo accumulato abbastanza soldi per pagarsi il viaggio sull'Atlantico, si era imbarcato di nuovo per cercare fortuna in America.

Fin dal primo momento, Harry si affezionò al ragazzo.

"Carlo," gli aveva chiesto, "come te la sei cavata in Inghilterra?"

Era sdraiato su una vecchia vela stesa sulla scialuppa grande; e, gettando indietro il berretto, sporco ma ornato di un fiocco, e accarezzandosi una gamba come un bimbo, aveva alzato lo sguardo e detto nel suo inglese approssimativo, che sembrava come mescolare il potente vino di Porto con uno sciroppo delizioso: "Ah! Ci riesco benissimo! Perché ho melodie per i giovani e gli anziani, per i gai e i tristi. Ho marce per i giovani militari, arie d'amore per le dame e musiche serie per gli anziani. Non attiro mai una folla senza sapere dai loro volti le canzoni più adatte; non mi fermo mai davanti a una casa senza giudicare dal suo portico per quale melodia mi getteranno più volentieri un poco d'argento. E suono sempre arie tristi per chi è i allegro, e arie allegre per chi è triste e quasi sempre sono i ricchi che preferiscono le canzoni malinconiche e i poveri che amano quelle allegre."

"Ma non ti capita mai di incontrare dei vecchi stizzosi e bisbetici che, invece di ascoltare la tua musica, vorrebbero che tu te ne andassi?

"Sì, qualche volta," disse Carlo giocherellando con un piede, "qualche volta mi capita."

"E allora, conoscendo il valore della quiete per un uomo agitato, immagino che non te ne andrai mai via per meno di uno scellino."

"No", continuò il ragazzo, "amo il mio organetto come me stesso, perché è il mio unico amico, povero organetto! Canta per me quando sono triste e mi conforta; e non suono mai davanti a una casa allo scopo di essere pagato per andarmene, no davvero. Come potrei, mio povero organetto?" E guardò giù dal boccaporto dove si trovava lo strumento.
"No, non ho mai fatto niente del genere e non lo farò mai, nemmeno se dovessi morire di fame; perché quando la gente mi caccia via, non credo che la colpa sia del mio organo, ma loro; perché le canne musicali di questa gente sono crepate e arrugginite, e nessuna musica può più penetrare nelle loro anime."

"No, Carlo, forse non esiste musica come la tua", disse Harry con una risata.

"Ah! Ecco l'errore. Sebbene il mio organetto è pieno di melodia come un alveare di api, nessuno strumento  può produrre musica in un cuore privo di armonia; non più di quanto possano fare i venti della mia patria, quando soffiano su un'arpa senza corde."

Il giorno seguente c'era un tempo sereno e delizioso e la sera, quando la nave procedeva increspando appena le onde, spinta da una brezza leggera e costante e i poveri emigranti, sollevati dalle loro ultime sofferenze, si erano radunati sul ponte, Carlo si riscosse improvvisamente dalla sua pigra distensione, scese sottocoperta e, con l'aiuto degli emigranti, tornò con l'organo.

Ora, la musica è una cosa sacra, e i suoi strumenti, per quanto umili, devono essere amati e venerati. E non c'è umile strumento musicale, non un piffero o un violino negro che non debba essere rispettato come il più grandioso organo che mai abbia rovesciato la sua marea di armonie sulla navata di una cattedrale.

Persino una zampogna può essere suonata in modo da risvegliare tutte le fate che sono in noi e farle danzare sulla nostra anima, come su un tappeto di violette illuminate dalla luna. Ma che cos'è questo sottile potere in un pezzetto d'acciaio che avrebbe potuto formare un chiodo da due soldi, che penetra senza avvertire nel nostro essere più profondo e ci rivela un mondo di ansie segrete? 

Ma guardate! Ecco l'organo del povero Carlo; e mentre una folla silenziosa lo circonda, lui se ne sta lì, guardandosi intorno con aria pacata ma interrogativa; la sua mano destra tira e contorce le manopole  d'avorio a un'estremità dello strumento.

Guardate l'organo!

Certo, se tanta virtù si cela negli antichi violini di Cremona, e se la loro emissione melodica è proporzionata alla loro antichità, quale meravigliosa delizia non dovremmo noi trarre da questo venerabile, antico organo brunito, che potrebbe quasi aver suonato la marcia funebre di Saul, quando lo stesso re Saul fu sepolto.

Un magnifico organo antico! Scolpito a immaginarie antiche torri, torrette e campanili: la sua architettura ricorda un po' l'ordine gotico monastico. Di fronte sembra la facciata ovest della cattedrale di York.

Quali archi scolpiti, che conducono entro misteriosi labirinti! Quelle finestre a bifora, che sembrano affacciarsi su cappelle inondate di tramonti devozionali! Quei contrafforti, quei frontoni, e quelle nicchie coi santi!... Ma un momento! È un'iniquità moresca; perché qui, ne sono certo, c'è un arco saraceno che, per quanto ne so, potrebbe condurre nell'interno di qualche Alhambra.

Sì, è così; perché quando Carlo ora cambia mano, sento lo zampillo della Fontana dei Leoni, mentre suona una popolare aria italiana, un mare di suoni misti e liquidi che mi spruzzano il viso.

Suona ragazzo italiano, suona! Perché se anche qualche nota è stonata, c'è qualcosa dentro di me che la corregge. Volgi verso di me quei tuoi occhi giovani e pensosi e mentre ascolto i due organi, il tuo e il mio,  lascia che guardi nella profondità dei tuoi occhi senza fondo. E' bello come guardare in fondo al grande Mare del Sud e vedere i raggi balenanti dei delfini.

Ora dimmi, Carlo, se, per un solo penny, all'angolo di una strada, io posso lasciarmi rapire in questi paradisiaci sogni, chi è più ricco di me? Non certo un milionario.

E Carlo? Male incolga alla voce che non ti saluta, ragazzo italiano, e sia maledetto lo schiavo che scaccia
dalla porta di un nobilastro la tua meravigliosa scatola di immagini e suoni!

https://machiave.blogspot.com/2024/10/chiamatemi-ismaele_23.html

giovedì 17 aprile 2025

La stella ha pianto rosa

 


La stella pianse rosa...

La stella piangeva rosa nel cuore delle tue orecchie,
l'infinito rotolava bianco dal tuo collo ai tuoi lombi,
il mare si tingeva di rosso perla sui tuoi seni vermigli
e l'uomo sanguinava nero sul tuo fianco sovrano.

Arthur Rimbaud, 1871

La stella ha pianto rosa

La stella ha pianto rosa al cuore delle tue orecchie,
L’infinito è rotolato bianco dalla tua nuca alle reni
Il mare è imperlato rosso ai tuoi seni vermigli
E l’Uomo ha sanguinato nero al tuo fianco sovrano.


L'étoile a pleuré rose au coeur de tes oreilles,
L'infini roulé blanc de ta nuque à tes reins
La mer a perlé rousse à tes mammes vermeilles
Et l'Homme saigné noir à ton flanc souverain

 The Star Cried Pink... è una poesia senza titolo, una quartina isolata. Lo sappiamo da un documento scritto di pugno da Verlaine, in cui quest'ultimo aveva copiato La stella pianse rosa... subito dopo il sonetto di Voyelles. Questa vicinanza ha alimentato i commenti, ma può essere spiegata con ragioni piuttosto semplici: le due poesie sono indubbiamente di datazione simile ed entrambe si basano su uno "studio" dei colori. 
     
The Star Wept Pink... può essere definita una "celebrazione critica" del culto di Venere: i primi tre versi esaltano il corpo superbo della Donna, il quarto opera un'inversione di prospettiva dove il lettore rimbaldiano riconoscerà un tema vicino a quello dei Piccoli Amanti e delle Suore della Carità.

Uno " stemma "? 

  I quattro complementi avverbiali che occupano il secondo emistichio elencano (indicativamente dall'alto verso il basso, secondo una logica descrittiva caratteristica del genere " stemma ") le parti del corpo femminile: le "orecchie", la schiena (dal "collo" ai "reni"), i seni ("mammes" è un neologismo, elegante sinonimo di "seni", tratto dal latino "mamma"), il "fianco". Se escludiamo il verso 4 (che, come abbiamo già detto, sembra gettare una luce diversa sul significato generale della poesia), il gruppo soggetto-verbo-attributo che occupa il primo emistichio di ogni alessandrino adotta il tono della lode. La prima prova di questa ispirazione “blasonata” risiede nella dimensione cosmica del poema.  

Una " nascita di Venere "?

      "La stella", "l'infinito", "il mare", non sono personaggi della vita quotidiana; Sono attori simbolici sulla scena cosmica. La donna cantata dalla poesia non è chiaramente la prescelta dal rimatore che esercita la lira, bensì "La Donna", la cui poesia mette in scena l'Incoronazione da parte delle forze elementari della Natura che sono "la stella", "l'infinito" e "il mare". La seconda persona singolare usata nella poesia ("le tue orecchie", "i tuoi lombi", ecc.) suggerisce l'invocazione rivolta a una dea. Questa incarnazione della femminilità ha un nome nella mitologia: Venere. 
     L'immagine di Venere si impone al lettore, anche se Rimbaud evidentemente ha preferito lasciare la poesia senza titolo e giocare la carta dell'enigma. Le ragioni di ciò sono molteplici: la popolarità del tema nel XIX secolo, sia tra i pittori che tra i poeti (vedi la nostra scheda sulla Venere Anadiomene su questo punto ); la ricorrenza del tema nello stesso Rimbaud ( Sole e carne, Venere Anadiomene, Buongiorno pensiero, Le città I ); le metafore del poema che possono far pensare alla nascita marina di Venere (v.2 e 3) o all'astro che porta il nome della dea (v.1); infine la (possibile) fonte segnalata da Pierre Brunel a Sully Prudhomme.

I doni ricevuti dalla Donna al momento della sua creazione:
     
Pierre Brunel dimostra in modo convincente la presenza di questo tema nel testo, attraverso il paragone che propone tra  La Stella Pianse Rosa... e la prima quartina della Nascita di Venere di Sully Prudhomme:

Quando il mare ebbe offerto le sue perle alla mia bocca,
il suo azzurro insondabile al mio sguardo affascinante,
mi distese, lasciando al mio letto
la sua eterna freschezza e il suo ondeggiare.

Sully Prudhomme La nascita di Venere , 
in Posizioni, Quarta sezione: Miscellanea

      Questo paragone ci permette di scoprire nella poesia di Rimbaud quello che potrebbe essere un "cliché" della letteratura parnassiana: l'offerta fatta a Venere dalla sua madre divina (il Mare, la Natura) della sua bellezza naturale, della sua sensualità e della sua fertilità. Ci fa comprendere che le azioni verbali compiute dagli "attori simbolici della scena cosmica": il pianto, il rotolamento, il cingere la testa , sono quelle che plasmano il corpo superbo della Donna, e che le attribuiscono le sue doti naturali.
     Il versetto 2 è forse quello che più facilmente rivela il suo significato metaforico. Il verbo "rotolare" evoca le onde, i rotoli della lama. L'infinito in questione qui è quello dell'Oceano, che è in effetti un simbolo comune. La curva del corpo di una donna assomiglia chiaramente alla rotondità del seno. L'aggettivo "bianco", applicato a questo infinito, è inteso come un'allusione alla cresta spumeggiante delle onde e, contemporaneamente, al corpo della donna.
     Il versetto 3 conferma questa interpretazione introducendo esplicitamente il tema del mare. Il verbo "perler" descrive nel linguaggio quotidiano un liquido che scorre goccia a goccia. Applicato al seno della donna, seno designato con un termine ("mammes") che ricorda "seno", questo verbo suggerisce l'allattamento. Ma "perler" contiene anche l'idea della perla. Associata a due aggettivi sinonimi di "rosso" ("rousse", "vermeilles") la forma della perla evoca quella del capezzolo.

     Il verso 1 è in parte chiarito dal confronto proposto da Yves Reboul con 
il Sonnet de l'oreille di Albert Mérat . Il padiglione auricolare brilla come una stella ("E la luce vi traccia scie squisite", scrive Mérat). Il "rosa" è un colore che gli si addice ("Sarebbero il rosa e il raso dei fiori", scrive ancora Mérat). Infine, il verbo "piangere" rimanda a un luogo comune romantico: "Il romanticismo è la stella che piange, è il vento che piange, è la notte che trema, ecc." (Musset, Lettere di Dupuis e Cotonet, Opere complete, Le Seuil, Opere complete, 1963, p. 877 ). Forse dovremmo riconoscere il tema, presente in Ma Bohême , del "dolce fruscio" delle stelle,  Versione rimbaldiana dell'"armonia delle sfere" : un mormorio melodioso (e in questo caso malinconico) attraverso cui poeti e mistici rappresentano la perfezione della meccanica celeste e della creazione divina.
     In definitiva, questa quartina, che i commentatori hanno criticato per il suo "metaforismo arbitrario" o, talvolta, al contrario, lodato per la sua audacia "visionaria", non è poi così difficile da spiegare. E non ci sembra sbagliato considerarlo, almeno in parte, una forma di "stemma".

Una caduta oscura:

     resta l'ultimo verso. Il tono è chiaramente diverso, addirittura opposto. Il nero sostituisce il colore. La rappresentazione sembra lasciare che la Donna si concentri sull'Uomo. L'Uomo con la maiuscola, cioè qui l'altro sesso (l'Altro della Donna, con la F maiuscola)? Infine, questo "Uomo" è raffigurato mentre sanguina dal costato di Venere, e il sangue "nero" è sinonimo di veleno o morte. Pierre Brunel, nella nota della sua edizione Rimbaud alla Pochothèque, sottolinea giustamente la possibile associazione con l'immagine di Cristo in croce, col costato trafitto dalla lancia di un soldato romano, così come viene evocata nel Vangelo secondo san Giovanni . Troviamo qui - come suggerisce sottilmente Yves Reboul (op. cit. p. 23) - una "Pietà" capovolta, dove la sagoma spezzata della Vergine ai piedi della croce sarebbe sostituita dall'immensa statura di Venere, che domina, portando sul suo "fianco sovrano" (dice il testo), l'immagine del crocifisso.
     Chi non conoscesse Rimbaud potrebbe avere qualche difficoltà a interpretare questa conclusione enigmatica. Ma se teniamo presente, come ci invita a fare Yves Reboul, che questa quartina si trova quasi certamente nella cronologia rimbaldiana accanto a testi come 
Les Sœurs de charité Premières Communions , che "sono entrambi dedicati a esprimere l'alienazione della donna" (op.cit. p. 23), comprendiamo facilmente il significato di quest'ultimo verso. Come tanti altri testi di Rimbaud, egli denuncia nella Donna «colei che avrebbe dovuto essere per lui, allo stesso tempo, la sorella della carità dello scambio amoroso e la dea madre di un mondo riconciliato» (ibid.) ma che sa essere solo la complice servile di una società in cui l'amore è diventato impossibile.

Madrigale o epigramma?

     È Yves Reboul a porre la domanda (ibid.). Si suppone infatti (secondo un elenco stilato da Verlaine delle poesie che Rimbaud gli aveva dato nel 1871), che Rimbaud avesse pensato di intitolare questa quartina: Madrigale . Il fatto non è improbabile e l'idea è addirittura molto divertente. 
     In realtà il 
madrigale è un genere poetico appartenente principalmente alla tradizione della poesia amorosa e mondana. Ecco la definizione data dal Tesoro Computerizzato della Lingua Francese (TLFI): "Un brano poetico consistente in un pensiero espresso con finezza in pochi versi liberi e che spesso assume, nel caso di una donna, la forma di un complimento galante. Esempio: "Quando tuberete, o regine del salotto! / Questi elaborati madrigali e queste tenere sciocchezze / Che il prezioso Clitandro improvvisò per voi?" (BANVILLE, Cariatides, 1842, p. 28)". L' epigramma appartiene anch'esso alla tradizione della poesia mondana, ma è definito come un "piccolo poema satirico che si conclude con un motto di spirito" (TLFI). 
     Il titolo "Madrigale", come vediamo, potrebbe essere più o meno adatto ai primi tre versi della quartina. L'elogio è certamente meno "galante" che "lirico", ma non si può non trovarvi qualche traccia di preziosità: la sua ingegnosa costruzione, l'immagine raffinata proposta dal verbo "perler", la discreta lamentela suggerita dal verbo "pleurer", l'uso sofisticato dell'aggettivo di colore "impiegato come avverbiale" (Brunel, Pochothèque) non sarebbero stati fuori luogo in un madrigale aristocratico del XVII secolo. Émilie Noulet non aveva certo tutti i torti nell'elogio vibrante che ha fatto di questa quartina, per la quale è stata molto criticata: «Pura poesia di un'evocazione che tutto il mondo cosmico glorifica [...] è una smagliante enumerazione di quattro volte quattro parole che si possono leggere sia verticalmente che in versi, e ogni quarto delle quali rappresenta al tempo stesso un mondo e una categoria di discorso, in una sequenza doppiamente parallela: sostanza - azione - colori - luoghi sensibili dell'amore» (op. cit. p. 105).
     Ma è vero che un simile commento non tiene conto dell'ultimo versetto. Ma quest'ultimo versetto trasforma l'intero significato del testo. Più che un "madrigale", termine usato con ogni probabilità in senso ironico, questa quartina andrebbe considerata piuttosto un "epigramma", e addirittura, dice Reboul, un epigramma con un finale "sinistro".

http://abardel.free.fr/petite_anthologie/l_etoile_commentaire.htm