Pensare con Freud
Raffaello Cortina, Milano 2013
XX-132 pp.
È ancora possibile "pensare con Freud"? La riflessione psicoanalitica del secondo Novecento, così carica di un intrinseco pluralismo che sembra molto spesso aver quasi dimenticato l'insegnamento originario del maestro, sembrerebbe per certi aspetti contraddire questa ancora oggi così rivoluzionaria possibilità. Senza dubbio, nella sua lunga attività di ricerca Freud è stato uno straordinario maestro di pensiero che ha saputo (ma non sempre in maniera soddisfacente) incarnare ed intrecciare inappellabili istanze di scientificità con la strenua volontà di andare "al di là del fenomeno", per addentrarsi negli indeterminabili territori metapsicologici dell'inconscio.
A ciò si aggiunge, come un naturale e ancora una volta indiscutibile corollario, una straordinaria capacità di scrittura e di divulgazione teorica. Insieme alla parola parlata, discussa e ragionata, la scrittura rappresenta infatti la cifra più alta della riflessione psicoanalitica freudiana. D'altra parte, la stessa attività di scrittura, che «istituisce uno "spazio sospeso" tra la linearità del racconto e l'emergere variegato di nuove associazioni e nuove idee», sembra manifestare in una forma affatto secondaria la questione (problematica) del soggetto scrivente. Come affermano Laura Ambrosiano ed il compianto Eugenio Gaburri nel loro variegato testo – intitolato per l'appunto "Pensare con Freud" (Raffaello Cortina Editore, XX-132 pp.) – riecheggiando il tormento di un "fantasma senza pace" vissuto da Freud nel periodo della stesura del suo lavoro su Mosè, «ogni scritto è come un fantasma che spinge per essere realizzato, che inquieta, interroga, urge. La spinta a scrivere è, in parte, vissuta come qualcosa di estraneo, che, da dentro, fa pressione, come qualcosa di indipendente dall'autore stesso.
Ripercorrendo le figure antropologiche (ovvero "archetipiche") della personalità, del desiderio cannibalico, del destino, dell'impersonalità, della morte e della fantasia, gli autori giungono a riconoscere nell'azione sublimatoria una particolare funzione terapeutica, «un tentativo di autocura della fragilità e dei limiti della nostra presenza in un mondo che non controlliamo, dell'impatto con la morte, il dolore, la piccolezza delle nostre risorse conoscitive». Su questa base, la capacità di sublimare diviene lo strumento necessario in vista dell'organizzazione di un senso, della rappresentazione della vita e della morte, della crudezza dell'esistenza e della condivisione con la comunità: come «interesse per la propria vita, nonostante il dolore», la sublimazione permette così di sperimentare la soddisfazione «non più sessuale della conoscenza realizzata, dell'opera creata, dell'incontro riuscito» come cifra della contemplazione del «granello di verità» che l'individuo riesce a catturare e a condividere con la comunità (la "pubblicazione" bioniana). Ciò delineerebbe, con buona pace di chi avrebbe sempre visto la psicoanalisi come una "cura del passato", la possibilità di un autentico "recupero del futuro" in senso terapeutico, nella costante «ricerca delle possibili prospettive di sviluppo del singolo individuo e del gruppo». Prima ancora che semplice o complessa teoria dell'uomo e sull'uomo, la psicoanalisi è dunque pratica, pratica della scrittura ovvero pratica della cura.
Aurelio Molaro
Il Sole 24 ore, 2 agosto 2013
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