Maurizio Ricci
la Repubblica, 16 luglio 2013
È la recessione, si dice.
Laura ha 24 anni e, in tasca, una
bella laurea in chimica. Per lei, il mondo dovrebbe cominciare ora.
Invece, lavora a Madrid in uno Starbucks a servire caffè. Be', forse
lavorare è un termine eccessivo: dieci ore a settimana e paga
conseguente. All'altro capo della Spagna, a Barcellona, Aida, 27 anni,
si è laureata sei anni fa come bibliotecaria, ma non ha mai visto una
biblioteca. È riuscita a lavorare solo come cameriera in un ristorante.
Fino
a un anno fa, quando l'hanno licenziata. Da allora, più nulla: è ferma
a casa. Storie spagnole, che noi italiani riconosciamo subito.
Abbiamo
anche noi, più o meno tutti, un parente, magari un figlio, o un amico o
la figlia di un amico con un bel diploma o una brillante laurea in
tasca, che è riuscito a trovare un lavoro precario per qualche mese,
poi ha perso anche quello e adesso è a spasso.
Èla crisi,
allora, che morde i Paesi deboli dell'Europa mediterranea, l'Italia
come la Spagna? Anche, ma non solo. C'è sotto qualcosa di più. Linnea,
25 anni, una laurea in ecoturismoe storia culturale, il Mediterraneo lo
vede, se va bene, solo d'estate. Vive a Stoccolma, in quello che a noi
appare come il prospero Nord Europa. Ma Linnea, con la sua laurea, ha
trovato solo un posto part time in un ente no profit. Gratis. Quando a
dicembre le è scaduto il contratto, le hanno proposto di restare a
tempo pieno, sempre gratis. Da allora, ha mandato in giro decine di
domande di assunzione, ma, in sei mesi, ha collezionato in tutto due
colloqui.
In tutto il mondo, i media si riempiono di storie di
giovani che girano a vuoto. Una generazione - quella dei nati dopo il
1980 - che, confermano le statistiche, a Est come a Ovest, a Nord come a
Sud, non è mai stata più preparata e istruita, ma non riesce a
decollare. Neanche dove la logica economica sembrerebbe imporlo. Negli
ultimi dieci anni, in Giappone il numero complessivo dei lavoratori è
sceso del 7 per cento. Ma quello dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni
disoccupati è raddoppiato. Akigutsu, 27 anni, viene inquadrato dalla
telecamera mentre, impeccabile nel suo vestito grigio, esce per
l'ennesima volta da un'agenzia di collocamento, il cui nome suona,
grosso modo, "Neolaureato, salve lavoro". Non è il caso di Akigutsu:
fra due giorni, lascia la Waseda University, una delle migliori del
Giappone, con una laurea in gestione pubblica. Ma il lavoro lo cerca
già da due annie mezzo. Ha riempito almeno 100 formulari di assunzione e
si è messo 40 volte quello stesso abito grigio per un colloquio. È
stato anche all'università un anno in più, per guadagnare tempo. Tutto
inutile: neanche una proposta.
È un dramma, forse una tragedia,
quella che si sta consumando in questi anni. Milioni e milioni di
ragazzie ragazze che escono da scuole e università, per impantanarsi
subito e alzare, sempre più spesso, bandiera bianca.
Un
fenomeno che le statistiche sulla disoccupazione, in realtà, non
catturano. La notizia che il tasso di disoccupazione dei giovani sotto i
24 anni, in Europa, è del 24 per cento, del 40 per cento in Italia,
quasi del 60 per cento in Grecia e in Spagna fa effetto, ma vuol dire
poco. Per rientrare nella statistica, bisogna aver attivamente cercato
lavoro (come Linnea e Akigutsu) nelle ultime due settimane. Pochi
giovanissimi lo fanno. Secondo gli esperti, circa il 10 per cento di
chi ha quell'età. Il 60 per cento di quel 10 per cento vuol dire che 6
giovani spagnoli sotto i 24 anni su 100 hanno cercato lavoro, senza
successo, nelle ultime due settimane. Non parrebbe una catastrofe. Ma
il problema sono gli altri. Quelli che hanno abbandonato o completato
gli studi, ma non hanno trovato lavoro e neanche lo stanno cercando.
Quelli che si sono arresi: né studio, né lavoro, i "néné". In Italia,
sono passati dal 2007- prima della recessione- al 2011, dal 16 al 21
per cento dei giovani fra i 15 e i 24 anni. Un giovane italiano su
cinque, insomma, non fa nulla. In misura minore, ma questo vale anche
per i suoi coetanei d'Europa, dove i "né-né" sono cresciuti dal 10,8 al
13,2 per cento. Colpa loro che non hanno capito che solo studiando,
aumentando le proprie competenze, centrando titoli di studio sempre più
alti si può trovare il proprio posto nel mondo di oggi? Niente
affatto. E qui sta il dramma. Il numero dei laureati "né-né" nei paesi
dell'Ocse - l'organizzazione che raccoglie i paesi più ricchi del mondo
- è cresciuto dal 10,6 al 14,8 per cento fra il 2008 e il 2011.
L'Italia ha una sorta di record: i laureati che non studiano più e non
lavorano ancora sono passati dal 18,6 al 21,8 per cento e qui parliamo
di giovani fra i 24 e i 29 anni, condannati ad una sorta di animazione
sospesa. Ma non sono i Paesi deboli del Mediterraneo a drogare la
media Ocse. Germania e Svezia, grazie soprattutto al part time, molto
spesso involontario, hanno visto un lieve calo delle loro quote di
laureati fuori dal gioco. Ma in Francia sono saliti dal 7,5 al 10,4 per
cento dei loro coetanei post universitari, in Giappone sono
addirittura quasi raddoppiati, arrivando al 15,8 per cento. In Gran
Bretagna e anche negli Usa, nel giro di quattro anni, sono aumentati di
circa un terzo, arrivando, rispettivamente, oltre l'8 e il 12 per
cento.
E quelli che un lavoro lo hanno trovato? Le notizie non
sono buone neanche qui. I laureati che non sono disoccupati, i
laureati che non hanno gettato la spugna si trovano spesso dove mai
avrebbero pensato. In America, nel 1970, un tassista su 100 aveva una
laurea in tasca. Oggi, sono il 15 per cento. Idem i pompieri: 2 per
cento di laureati nel 1970, 15 per cento oggi. Non occorre una laurea
per maneggiare un tassametro o un idrante. Tanti anni di studio non
avrebbero dovuto consegnarli ad una vita piena, felice, gratificante? È
la promessa che i giovani si sono sentiti ripetere decine di volte.
Ma, a quanto pare, non vale più. Una recente ricerca di tre studiosi
canadesi (Paul Beaudry, David Green, Benjamin Sand) osserva che la
domanda di competenze legate ad una maggiore istruzione, negli Usa, è
andata salendo fino al 2000, ma, da allora,è in calo.I laureati,
comunque, aggiungono i tre canadesi, farebbero bene a non lamentarsi
troppo: la laurea ha impedito che andasse peggio. Che succede? Questa
volta, la globalizzazione c'entra poco.
Pesa di più la
rivoluzione digitale, l'esplosione del software onnipresente. I dati,
anche stavolta dell'Ocse, mostrano che esiste ancora, sul mercato del
lavoro, un premio per il diploma e, ancor più per la laurea.
Mediamente, nei paesi industrializzati, il 13 per cento di chi non ha
finito la scuola media superiore è disoccupato, mentre solo il 5 per
cento dei laureati lo è. Inoltre, un laureato guadagna, mediamente,
una volta e mezzo lo stipendio di un semplice diplomato. Attenzione,
però, avvertono i tre studiosi canadesi, le distanze restano, ma è una
corsa verso il basso: è la rivoluzione tecnologica a spingere in giù.
Prima l'automazione ha svuotato le fabbriche, poi computer e Internet
hanno dimezzato il personale degli uffici: dalle centraliniste ai
fattorini. Adesso la digitalizzazione sta risalendo le gerarchie. Fino a
qualche anno fa, la brillante americana laureata in legge sarebbe
entrata in un grosso studio, cominciando con lo spulciare ponderosi
tomi, alla caccia di qualche precedente per una causa importante.
Adesso, la ricerca dei precedenti la fanno i computer, ad un decimo del
costo. I grossi studi legali non assumono giovani avvocati, anzi,
tagliano selvaggiamente gli organici. La giovane laureata h a
qualche speranza di infilarsi come assistentesegretaria, a tenere
l'agenda di un grosso avvocato. E la giovane diplomata che, fino a
qualche anno fa, avrebbe preso quel posto di segretaria? A fare le
pulizie in ospedale. È ancora presto per sapere se i tre studiosi
canadesi hanno ragione e se il mercato del lavoro - negli Stati Uniti e
altrove - si sta schiacciando verso il basso.
Quello che è
chiaro sin d'ora, però, è che la crisi che si è aperta nel 2008 nonè
una recessione come le altre e che processi profondi stanno modellando
la ripresa in direzioni, oggi, imprevedibili.
Economia e
società, probabilmente, non saranno le stesse di prima della crisi. Non
sono trasformazioni che avvengono gratis. A pagare il conto,
salatissimo, delle novità è un'intera generazione di nati dopo il 1980,
illusi, poi delusie frustrati che, della crisi e, forse, anche della
sua fine, porteranno a lungo le cicatrici.
Psicologiche e
finanziarie. Perché quando le giornate si assomigliano tutte e
l'impressione è di girare in tondo, alla fine anche grinta, iniziativa,
ottimismo si logorano.E perché, se alla fine si comincia a lavorare
sul serio, ma si hanno già 30-40 anni, il tempo per garantirsi la
serenità di un tesoretto per una vecchiaia che già si annuncia
lunghissima, è davvero poco.
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