mercoledì 31 luglio 2013
Battiato, Povera patria
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore...
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà
si che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare.
La fantascienza: Urania e oltre
L'Indice, 22 luglio 2013
lunedì 29 luglio 2013
Una rivista, uno stile: Carlo Ferdinando Russo
Il comunicato della Scuola Normale
E’ scomparso oggi Carlo Ferdinando Russo, filologo classico, grande
umanista, allievo della Scuola Normale dal 1939 al 1943 (Corso
ordinario) e dal 1945 al 1946 (Perfezionamento). Direttore dal 1961
della rivista “Belfagor”, Carlo Ferdinando Russo è stato per generazioni
di studiosi una coscienza critica di grande respiro e ha lasciato una
traccia durevole negli studi di greco: soprattutto Aristofane, Giuliano,
Omero. A lungo docente di Letteratura greca all’Università di Bari (di
cui era docente emerito), Carlo Ferdinando era figlio di Luigi Russo,
critico letterario e italianista che diresse la Scuola Normale negli
anni Quaranta.
Pisa, 26 luglio 2013
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La chiusura della rivista
Mirella Appiotti
La Stampa, 8 settembre 2012
La Olschki, Costanza prima di tutti, ci ha provato in ogni modo, a fare «resistenza».
La
più aristocratica editrice italiana lo tiene tra i suoi gioielli. Il
mondo degli studi lo annovera tra i suoi sinora irrinunciabili punti di
riferimento. A diversi livelli, il mondo della cultura (quel che ne
resta nel nostro Paese) ha già dimostrato il proprio dispiacere. Perché,
da Bari, la decisione di Carlo Ferdinando Russo è irrevocabile:
Belfagor, la «rassegna di varia umanità» fondata da suo padre,
l’italianista princeps Luigi Russo (con Adolfo Omodeo) e poi lungamente
guidata dal grande «Lallo», filologo classico, instancabile, vulcanico,
geniale-rigorosissimo maieuta che l’ha mantenuta sino a oggi alla
massima tensione, chiude con il numero del 28 novembre, dopo 66 anni e
400 fascicoli bimestrali (maniacalmente puntuali), abbonamenti in 80
nazioni, «fascia A» nella valutazione internazionale.
Un addio
meditato, reo il tempo «che fugge» (non i «conti», buoni persino nella
crisi, né certo la mancanza di interlocutori), mentre intatto resta
quell’«aroma infernale» (machiavellico) ampiamente gustato da Garin nei
Novanta ma che già, dalla prima uscita il 15 gennaio 1946, con la sua
testata irrispettosa («mi pare che come titolo laico possa andare
sempre»: Luigi Russo a Croce), laica alla maniera di chi non ha bisogno
dell’accademia, ha attratto i maestri e i futuri leader del sapere a
cominciare da Cantimori e Pampaloni, Natta, Carlo Levi, Ragghianti, poi
Ceserani, Terracini sino a Segre, a Mario Isnenghi, in questi ultimi
tempi condirettore della rivista, a Antonio Resta, cui si deve anche la
curatela, recentissima, degli Indici 1946-2010 aperti dalla «voce» di
Carlo Ferdinando Russo.
Il suo Congedo è una vitalissima summa
dell’avventura che nei decenni ha esplorato italianistica e letterature
straniere, filosofia e cinema, filologia, educazione, politica - fuori
dalla politica, nessun moralismo, funambolismo mai gratuito, con la
miriade di documenti (e la parabola si chiude come era iniziata:
l’ultimo Belfagor porta una lettera inedita di Croce), le famose
rubriche al vetriolo, Minima personalia, frutto non di malizia ma di
totale libertà, «un rempart contre les abus de l’industrie culturelle»,
come sigillava Le Monde nel ’69. Un viatico, non un «congedo».
Grey's Anatomy al microscopio
Corriere della Sera, La Lettura, 28 luglio 2013
Non chiamatela guilty pleasure, ossia qualcosa che ci piace, ma di cui ci vergogniamo. Potreste fare arrabbiare la sua creatrice, Shonda Rhimes, la produttrice più influente della televisione americana contemporanea. Meredith Grey è molto di più. Non è solo un personaggio che «ci vergogniamo di amare», non è solo l’ultima erede della narrativa popolare di consumo, l’ennesima pollastrella da chick lit. E in fondo, come spiega Rhimes, «quando dici che uno show è un guilty pleasure, non è certo un complimento. In pratica, stai dicendo che fa schifo».
Chi è allora Meredith Grey? È un affermato aiuto primario presso la divisione di chirurgia generale al Grey Sloan Memorial Hospital di Seattle: la sua carriera è partita da molto lontano, per l’esattezza otto anni e nove stagioni fa, quando la notte precedente al suo primo giorno come tirocinante di chirurgia è finita a letto con un tizio conosciuto per caso in un bar, di cui stentava a ricordare il nome e che prevedeva di non rivedere mai più dopo quell’unico one-night-stand. Per poi scoprire, la mattina dopo, che il tizio in questione era Derek Shepherd, il miglior neurochirurgo dello Stato di Washington, nonché suo superiore tra le mura dell’ospedale. Il destino non si scompone mai senza una ragione. Shepherd è presto ribattezzato dottor McDreamy (in italiano si sono inventati «Dottor Stranamore») e, da lì in avanti, per Meredith la carriera inizia a intrecciarsi irrimediabilmente con il sesso, i drammi chirurgici iniziano a confondersi con quelli sentimentali.
Meredith è il personaggio che dà il titolo a una delle serie più importanti dell’ultimo decennio, in onda su Abc, una delle poche con una forte female lead, forse non la più bella, sicuramente non quella maggiormente acclamata dalla critica, ma senz’altro quella più amata dal pubblico, come testimoniano la sua longevità e i suoi ascolti stellari (al debutto 21 milioni, diminuiti solo nelle ultime due stagioni). Il titolo della serie, Grey’s Anatomy, oltre a mettere Meredith al centro del racconto, è un gioco di parole che richiama il famoso manuale di anatomia descrittiva e chirurgica scritto nel 1918 da Sir Henry Gray e ancora in uso nelle scuole di medicina. Tra le altre cose, Meredith è anche costretta a portare lo stigma di «predestinata», perché «figlia di», nello specifico del famoso chirurgo Ellis Grey: una specie di star della medicina, vincitrice di due premi Harper Avery, ideatrice di un divaricatore per l’addome e di molte procedure chirurgiche all’avanguardia. Una madre devota solo alla medicina, sposata con un uomo debole, che finisce per lasciare dopo averlo a lungo tradito con il più vigoroso collega Richard Webber. Quando Meredith decide di iscriversi a medicina, la scoraggia dicendole che «non ha il carattere». Sarebbe già abbastanza per evocare i più potenti traumi psicologici legati al rapporto madre e figlia, ma le cose si complicano quando Ellis viene colpita da un’aggressiva forma di Alzheimer precoce. Non ricorda più nulla, disconosce la figlia, lascia l’ospedale per trasferirsi in una casa di cura e infine muore per le complicazioni della malattia.
Meredith rimane sola con se stessa, è solo la vocazione per la medicina a sostenerla. È così che, come nella migliore tradizione seriale americana, si costruisce giorno dopo giorno una famiglia sostitutiva, composta dai colleghi tirocinanti e dai primari, che diventano alternativamente mentori, antagonisti, amanti. Un gruppo di medici in carriera, ma anche in tumulto ormonale, espressione di un’ampia varietà etnica e di gender molto cara a Rhimes. Cristina Yang, sua collega di specializzazione, è il doppio di Meredith, quella che lei chiama «la sua persona»: arrivista e talentuosa, disinteressata alla vita familiare almeno quanto Grey desidera ricostruire quel nido che le è sempre mancato
In Grey’s, ogni personaggio risponde a profili narrativi semplici, in fondo quasi schematici, mantenuti con coerenza e costanza nel tempo, accompagnati da dialoghi sempre costruiti in perfetta aderenza alla biografia del personaggio. Il romanzo di formazione dei tirocinanti racconta l’apprendimento delle pratiche chirurgiche, ma è soprattutto una formazione sentimentale, una soap di alta qualità. Insomma, in Grey’s Anatomy, il letto più importante non è certo quello che sta in corsia, tanto che il «New York Times» ha fatto presto a ribattezzare la serie Sex and the City Hospital. Grey’s è un «Luogo d’angoscia», come si confà a un medical drama, ma anche un Nonluogo di avventure sentimentali. A differenza di altre serie, non si preoccupa tanto di descrivere i particolari tecnici delle operazioni mediche (diagnosi, interventi, cure), quanto piuttosto di rappresentare le emozioni dei primi atti terapeutici, così intrinsecamente legati agli intrecci amorosi. Nella sala operatoria, i tirocinanti se la cavano bene, è la vita fuori da lì, con tutte le complicazioni delle relazioni umane, a riservare le insidie maggiori: «Con un bisturi in mano, ti senti inarrestabile. Non provi più paura, né dolore. Ti senti un gigante invincibile. Ma poi esci dalla sala operatoria. E tutta quella perfezione, tutto quello splendido autocontrollo, va in malora».
Il punto di vista di Meredith filtra tutto il racconto, il fulcro narrativo è stretto su di lei, anche grazie all’espediente della sua voce fuori campo (come quella di Carrie in Sex and the City e di Mary Alice in Desperate Housewives) che incornicia ogni episodio con mielose frasi «di genere» in apertura e chiusura, una prosa emozionale e molto ripetitiva, facile a trasformarsi in citazione: «Mi amerai anche quando mi odierai» fa promettere nei voti nuziali redatti su un post-it al dottor McDreamy, in procinto di diventare suo marito. Nel corso delle stagioni, lo sguardo della serie si è allargato a comprendere in modo più bilanciato, ma anche più convenzionale, gli altri personaggi del cast, calcando ancora di più la mano su un’impostazione soapish. Meredith è l’ultima esemplare di una lunga tradizione letteraria (e poi televisiva) di rappresentazione delle eroine sentimentali, ma il suo personaggio aggiorna la categoria da molti punti di vista. In lei non c’è solo virtù, ma è disposta a usare il suo corpo anche in modo divertente e spregiudicato; non vede le cose bianche o nere, ma secondo molte sfumature di grigio, «many shades of Grey», appunto. Frequentare un uomo sposato? Va bene, se sua moglie è a sua volta un’algida traditrice. Manomettere la sperimentazione clinica sull’Alzheimer? Va bene, se è fatto per aiutare la moglie malata del primario di chirurgia, che molti anni prima era stato l’amante di sua madre. Senso di colpa, eterna vocazione al masochismo sentimentale, spirito da crocerossina? Non si sa che cosa l’abbia spinta.
In fondo Meredith è una a cui soffrire non dispiace, soprattutto nelle prime stagioni della serie, quando è per la maggior parte del tempo umbratile e cinica, sempre accompagnata da un velo di pessimismo cosmico. Solo lentamente diventa una donna più sicura e fiduciosa, addirittura disposta a essere felice (e la minore originalità delle ultime stagioni della serie forse va proprio imputata a questo cambio nel personaggio). Helen Eisenbach ha scritto su «Salon»: «Oggi forse abbiamo dimenticato l’impatto che Grey’s ha avuto nel 2005, al suo debutto. Anni prima dell’approccio brillante ed esplicito di Lena Dunham (Girls) o Elizabeth Meriwether (New Girl), Leslye Headland (Assistance) e Mindy Kaling (The Office, The Mindy Project), Grey’s ha rappresentato una svolta trasgressiva. Ci ha fatto capire che i personaggi femminili possono essere ambiziosi, severi, rudi, felicemente promiscui e anche imperfetti, essere antieroi per i quali facciamo il tifo e non solo ragazze carine, fidanzate bollenti e ammirabili eroine. Anche se, certo, a volte possono essere tutte queste cose. È stato esilarante e ha creato dipendenza nel pubblico».
Come le eroine del romanzo epistolare, alla Pamela di Samuel Richardson per intenderci, il personaggio di Meredith funziona come un parafulmine narrativo per sventure e disgrazie di ogni genere (un vero marchio di fabbrica di Shonda Rhimes). Le cose peggiori accadono per darle l’occasione di soffrire, toccare il fondo e rialzarsi, e allo stesso tempo per permettere allo spettatore di simpatizzare con lei: è sopravvissuta nell’ordine a un paziente con una bomba in corpo (letteralmente), a un annegamento, alla sparatoria di un folle in ospedale e a un conseguente aborto spontaneo, alla caduta di un aereo in cui muore anche la sua sorellastra, alle complicazioni di un parto cesareo che avvengono durante un black-out elettrico causato da un uragano. Senza dimenticare la minaccia genetica dell’Alzheimer che pesa su di lei come una spada di Damocle. Ma Meredith è una che sulle sue sfighe sa anche ironizzare. Per annunciare al marito la sua prima gravidanza sente il bisogno di mettere le mani avanti: «Ho sempre l’utero ostile, e mi capitano in continuazione cose terribili».
Negli Stati Uniti, la critica impegnata si è scatenata: è lagnosa, lunatica, prende decisioni spesso irrazionali. È stata criticata dalle femministe per i suoi tratti stereotipati di donna in carriera (alla Mary Taylor Moore): professionalmente competente, personalmente un disastro. A difenderla ci ha pensato la sua creatrice, Shonda Rhimes: «La verità è che sua madre è morta di Alzheimer, nessun altro della sua famiglia le parla, e l’uomo che ama è sposato. È sola come un cane. Ha tutto il diritto di essere lamentosa. Quando inciampa è anche perché non ha nulla a cui aggrapparsi». Il lavoro di Shonda nel costruire i suoi personaggi sta tutto in queste sfumature, niente è solo giusto o solo sbagliato, la morale si può costruire. Parlando di Olivia Pope, la protagonista della sua ultima serie Scandal che con Meredith ha molto in comune compreso il fatto di ricoprire il ruolo di amante, ha raccontato a «Salon»: «L’assunto di base della maggior parte degli show televisivi è quello che, in fondo, le persone sono buone. E c’è sempre un eroe contrapposto ai cattivi. Certo, questi sono i fondamentali della fiction generalista. Ma qui non c’è nessun eroe. Fai il tifo per Olivia, ma lei non è un’eroina. Forziamo il pubblico a identificarsi con lei, e poi gli chiediamo di identificarsi con qualcuno che sta facendo qualcosa di sbagliato».
Le nove stagioni della serie ci hanno permesso di conoscere Meredith da vicino, di vederla trasformare nel tempo: Ellen Pompeo, l’attrice che la impersona, ha avuto la bravura di interpretarne le sfumature più sentimentali e comiche come quelle più cupe e drammatiche. «How to save a life», come salvare una vita, recita una delle ballad usate come colonna sonora per gli episodi della serie (tutti prendono il titolo da una canzone). Il senso del personaggio di Meredith è questo, imparare a salvare vite, possibilmente anche la sua.
giovedì 25 luglio 2013
François Furet su Marx e la Rivoluzione francese
La storiografia dominante all'epoca in cui ero studente, faceva della Rivoluzione un movimento, quasi esclusivamente sociale, che andava dal rovesciamento dell'aristocrazia all' avvento di una nuova diseguaglianza di classe. E in fondo la Rivoluzione francese in quanto rivoluzione borghese, era vista quasi soltanto come la premessa di un'altra rivoluzione a venire, destinata ad adempiere le promesse che la Rivoluzione francese non aveva mantenuto. In quella storiografia che Lei chiama tradizionale - ma che io preferirei chiamare marxista-leninista - era iscritta una visione teleologica della storia. La rettifica da me apportata è questa: i problemi lasciati insoluti dalla Rivoluzione francese non sono affatto quelli dell'eguaglianza civile, che furono regolati assai presto e definitivamente - o almeno per i due secoli avvenire. Il problema più importante è invece l'articolazione del nuovo corpo politico, il progresso della libertà, perché dopo tutto, nella Rivoluzione francese, dei quattro regimi che ho enumerato prima, ce ne sono due liberali, per esprimersi concisamente, e due del tutto illiberali: il Terrore e Napoleone. In seguito, rileggendo attentamente Marx, scrivendo su di lui, ho scoperto che Marx, nelle opere della giovinezza, aveva già visto tutto ciò e che la storiografia del XX secolo, che avevamo chiamato marxista, era una storiografia leninista, piuttosto che una storiografia marxista propriamente detta. Come sempre Marx è stato atrocemente semplificato, mutilato proprio dalla sua vittoria e dal leninismo. Marx nelle opere della giovinezza, ne "La Sacra Famiglia", ne "La questione ebraica", nelle opere del l844-46, descrive la Rivoluzione francese come la dialettica del politico nella società moderna. Il problema della società politica moderna nasce dal presupposto che il corpo politico debba essere dedotto dalla società civile. E' costantemente presente nella società liberale moderna una debolezza della sfera politica, una difficoltà a costruire la sfera politica. E' questo che la Rivoluzione francese mostra con grande ricchezza di esempi.
Il giacobinismo nel suo senso originario, che è non soltanto quello di credere nello stato, ma più profondamente quello di effettuare una rottura nel tempo, mediante il volontarismo politico, l'essenza del giacobinismo è il trionfo della volontà sulle inerzie della società, mediante l'azione rivoluzionaria soggettiva degli uomini. Da questo punto di vista il bolscevismo è un giacobinismo. D'altronde i bolscevichi non hanno mai smesso di dichiararlo e nella loro prospettiva avevano ragione. Lenin viene dalla tradizione giacobina, attraverso mediazioni che si potrebbero facilmente ripercorrere attraverso il XIX secolo francese e russo. La filiazione giacobina dei bolscevichi non implica che le due Rivoluzioni si possano confrontare o anche semplicemente accostare. Al contrario, mi sembrano straordinariamente diverse. La Rivoluzione francese è una rivoluzione che consolida la proprietà borghese, che crea una massa di nuovi possidenti; la Rivoluzione russa distrugge la società civile, l'aristocrazia, la borghesia, e in seguito i contadini e la classe operaia, fino a che non c'è più società nel senso di una società organizzata. Mentre in Francia il giacobinismo è durato solamente due anni, dal l792 al l794, nella Rivoluzione russa, il bolscevismo può essere analizzato, nella stessa prospettiva, come un giacobinismo catastrofico, un giacobinismo spinto alle estreme conseguenze. Se si prolunga idealmente la dittatura di Robespierre fino al l840 si ottiene l'immagine della Rivoluzione russa. E' piuttosto curioso che tanti spiriti lucidi abbiano potuto istituire un parallelo tra la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, quando in fondo le due rivoluzioni non hanno altro in comune che quel rapporto immaginario, quell'ambizione prometeica, che ci ha fatto sognare tutti e donde la Rivoluzione russa ha tratto i suoi sortilegi, la magia che ha esercitato sugli uomini del XX secolo.
La società moderna che possiamo chiamare anche "società borghese" - è una definizione come un'altra: non mi disturba affatto - o "società capitalista", è una società che non si può amare. Non si può amare perché manca di una legittimazione profonda. La società aristocratica ha una legittimità profonda, perché l'aristocrazia ha origini remote, la legittimità le è conferita dal suo passato. La società monarchica è legittima nella misura in cui un re è qualcosa di più del suo corpo, della sua semplice presenza: è una presenza immaginaria nella quale l'insieme del corpo sociale si può riconoscere. Un socialista trae la sua legittimità morale dal fatto di combattere per un mondo di cui non farà parte: vedo in ciò una forma di disinteresse. Un borghese non è nulla, consiste tutto nella sua ricchezza, non ha legittimità nell'immaginazione degli uomini. E poi la ricchezza è aleatoria. Il borghese è ricco, ma avrebbe potuto essere povero, così come il povero avrebbe potuto essere ricco. In altri termini, nella società borghese c'è un consenso debole, perché l'autorità non è legittima. Proprio quando le società hanno più bisogno del consenso dei governati, poiché le società democratiche sono fondate sul consenso della volontà, proprio allora è più difficile ottenere il consenso, perché manca una classe dirigente politica rispettabile. Da qui nasce la crisi della società borghese, da cui non siamo ancora usciti, perché la fine del comunismo non ha reso più accettabili le società borghesi, ma le ha lasciate con tutti i loro difetti. Ha semplicemente privato una parte delle frustrazioni di quella specie di sbocco illusorio che era una società di tipo sovietico. Questo è il problema di fondo. Il fatto che le masse, come anche gli intellettuali d'altronde, siano entrate nell'illusione non è affatto misterioso, mi sembra anzi comprensibile. Anche in ciò che concerne il fascismo, si sa che oggi è diventato quasi impossibile parlare del fascismo: è un po' come se ci fosse una interdizione morale, che per lo storico è un elemento di disturbo. La storia cerca di comprendere il passato, e in passato il fascismo ha suscitato in Europa - non soltanto in Italia o in Germania, ma anche in altri paesi d'Europa - l'entusiasmo di milioni di uomini e questo è un fatto storico che bisogna comprendere. Non basta criminalizzare il fascismo, per darne una interpretazione storica, perché se lo si criminalizza, non si comprende più la sua forza d'attrazione. La sola maniera di comprendere la seduzione che ha esercitato il fascismo - io credo - è quella che ho tentato io, provando a ricomporre che cosa ha potuto essere, negli anni Trenta, una speranza fascista, quali erano le aspettative della gente. Quelle aspettative per me erano chiaramente: una rottura con l'angoscia dell'individualismo borghese, una ricerca della comunità fraterna, il superamento del mondo dell' interesse e del denaro. La società liberale veniva colpita nel suo punto debole. Potrei fare un'analisi differente, ma un po' negli stessi termini, della speranza comunista. Il comunismo non è più una speranza vissuta sotto il segno dell'elemento nazionale o della comunità nazionale, ma in nome dell'universalmente umano, dell'emancipazione dell'umanità. In questo senso ritrova l'utopia liberale, perché già l'utopia liberale non ha più la nazione, ma il genere umano come orizzonte, è universalista, come mostra la Rivoluzione francese dell'89. Il comunismo ha conferito un supplemento di verosimiglianza all'universalismo liberale.
Il comunismo è stato una tragedia soprattutto per il popolo russo, nei confronti del quale gli europei occidentali hanno manifestano sempre una profonda indifferenza. Perciò la tragedia russa è stata considerata come un'occasione perduta, mentre i comunisti italiani e francesi si sono trovati dal lato giusto. Sono stati protetti in un certo modo dall'antifascismo, che è stato la grande benedizione e al tempo stesso la grande maschera del comunismo. Non si può non essere profondamente colpiti dalla differenza del trattamento che subiscono nei nostri paesi comunismo e fascismo. Il fascismo è esecrato, criminalizzato, al punto che è quasi vietato tenere su di esso un discorso storico e d'altronde è bizzarramente, costantemente riesumato sotto le forme dell'antifascismo. Non si riflette abbastanza al fatto che mentre da cinquant'anni non esiste più un regime fascista, non c'è mai stato un antifascismo così forte come oggi. C'è una frase di Orwell che mi ha sempre meravigliato, ma che continua ad essere vera: la sinistra europea è antifascista, non antitotalitaria. E' profondamente vero: la sinistra europea non ha un autentico amore per la libertà. Allora che cosa succede in Francia? Quello che ho detto è particolarmente vero per la Francia. In Francia c'è un forte partito socialista che ha mantenuto un completo silenzio sul crollo dell'Unione Sovietica e un partito comunista, in via di riconversione - anche se meno del Partito Democratico della Sinistra in Italia - composto in gran parte di quadri anziani, che dal punto di vista intellettuale sono ancora fermi alla vecchia idea di pianificazione statale dell'economia, ecc. ecc. Noi abbiamo questa sinistra a metà riconvertita e a metà non riconvertita, che continua a incarnare una tradizione antiliberale, da duecento anni assai forte, in Francia, come in Italia. Dunque non è morta, ma è stata ripresa su un modo minore, perché questi partiti antiliberali sono tuttavia europeisti. E qui vedo una contraddizione fondamentale, perché l'Europa si fa essenzialmente in nome di valori liberali. Soltanto l'avvenire potrà togliere questa contraddizione.
Io ho il più grande rispetto per la sinistra socialista, che è rimasta libertaria. Noto d'altronde che molte lucide critiche del bolscevismo sono state fatte all'inizio da gente di sinistra, come Kautsky, Léon Blum, Koestler, Souvarine: la critica dell'esperienza bolscevica è cominciata a sinistra. Ma sono rimaste voci inascoltate, a cui non si è dato credito. Quanto a me, quello che mi interessa è precisamente che l'Unione sovietica nonostante il suo corso sia riuscita a cristallizzare intorno a sé la speranza. Perché, quando si prende in esame la storia del XX secolo, si è obbligati a riconoscere, se si fa storia con obbiettività, che la fede comunista si è largamente, massicciamente incarnata nell'Unione Sovietica. Il fatto sorprendente è che questa fede si sia sviluppata nonostante la tragicità di quella esperienza. Con ciò non intendo dire che a sinistra non ci siano state delle menti lucide. Ce ne sono state e ne ho il massimo rispetto. Io considero Koestler come uno dei maggiori scrittori del secolo, Kautsky come uno dei più grandi marxisti della storia europea, ma non hanno avuto credito, sono rimasti delle voci isolate. Si osservi la scena politica francese o italiana negli anni Quaranta, alla fine della guerra: l'Unione sovietica è riuscita a incarnare di nuovo la speranza comunista. E' questo il problema che mi appassiona: la storia di una speranza impiantata su una tragedia, il fatto che il tragico corso del bolscevismo non abbia distrutto la speranza. E in fondo la speranza è rimasta viva fino a Gorbacev, perché ancora sotto Gorbacev si spera di trovare una via d'uscita. Solo dopo la caduta di Gorbacev la speranza è venuta meno.
Nella storia della Chiesa agisce la divinità, la cui realtà è trascendente, esterna al mondo e quindi non può essere vinta dalla storicità. Il fatto inaudito nella storia del comunismo è che siamo di fronte a una religione dell'immanenza, che sopravvive allo spettacolo dell'immanenza. In questo senso le cose sono, nei due casi, completamente diverse. D'altronde così si spiega, probabilmente anche perché l'idea comunista ha avuto vita breve. In fondo è durata solo settant'anni: un tempo straordinariamente breve. Ma, per il suo carattere di universalità, l'idea comunista è arrivata più lontano, nel mondo, dell'idea cristiana. Parecchi paesi asiatici, non raggiunti dal cristianesimo, sono stati mobilitati, nel XX secolo, dall'idea comunista. E' un'idea con una enorme forza di penetrazione, ma di breve durata. Il compito che mi sono posto è stato di mostrare che si poteva fare una storia dell'immaginazione politica, che l'immaginazione politica poteva essere un soggetto storico. Come si è nutrita, che cosa l'ha costituita? Come si è sviluppata? Dopo tutto, quando fanno politica i cittadini moderni, che generalmente non sono religiosi, la fanno per convinzione, non per interesse. Fanno politica perché hanno un'idea dell'avvenire, perché hanno un'idea dell'interesse generale, del benessere dei loro concittadini ecc. E anche qui il discorso si annoda con la mia biografia, perché in fondo tento di comprendere la mia vita. In gioventù sono stato comunista e poi ho voluto capire perché questa idea è stata così forte, com'è stato possibile che una persona come me, che sono così analitico, e che lo ero anche da giovane, sia potuta entrare in quella illusione.
Pensare la Rivoluzione francese, 1978
mercoledì 24 luglio 2013
Lucy Riall su Bronte
La Stampa, 19 luglio 2013
Nel 1860 il paesino etneo di Bronte era tra i luoghi più depressi di tutta la Sicilia, ma quando, incoraggiati dalle notizie dello sbarco dei Mille, i contadini affamati si provarono a occupare le terre, la loro ribellione fu sanguinosamente repressa dagli stessi garibaldini, pronti a schierarsi con l'ordine costituito. L'episodio è stato rievocato, più o meno polemicamente, più volte, anche in una pellicola di Florestano Vancini del 1972 (Bronte, cronaca di un massacro), che la Rai dopo averla commissionata come serie di tre puntate mandò in onda una volta sola, in veste ridotta e in un giorno diverso da quelli in cui abitualmente si trasmettevano film. Oggi il libro di una storica inglese, Lucy Riall - Under the Volcano - Revolution in a Sicilian Town (Oxford University Press) - ricostruisce con eccellente documentazione la vicenda, i cui antecedenti e il cui seguito sembrano istruttivi almeno quanto il fatto stesso.
Tutto ebbe inizio molti anni prima del 1860, addirittura nel 1799. In quell'anno re Ferdinando - III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie -, minacciato dall'avanzata delle truppe francesi, fuggì a Palermo a bordo della nave da guerra dell'ammiraglio Nelson; e una volta tratto in salvo ricompensò grandiosamente il suo salvatore nominandolo duca di Bronte e regalandogli in quel luogo una ampia tenuta, che comprendeva il paesino stesso e il convento in disuso di Maniace. Nelson non vide mai il suo feudo, ma prima di morire a Trafalgar fece in tempo a vagheggiare di stabilirvisi un giorno con la sua amante Lady Hamilton. Il dono passò poi ai suoi discendenti Bridport, che, pur continuando a tenersi alla larga dal luogo, si fregiarono del titolo. A quanto pare «Bronte» suonava bene; così quando si trasferì in Inghilterra per farvi carriera un oscuro ma ambizioso parroco irlandese cambiò proprio in «Bronte» il suo cognome poco nobile - si chiamava Patrick Brunty - scrivendolo con una dieresi sulla e finale per garantirsi che fosse pronunciato bisillabo; ed è come Brontë che le tre grandi romanziere sue figlie diventarono famose.
Occupando le terre di Bronte, i contadini del 1860 reagivano dunque a un caso di assenteismo ancora più clamoroso di quello vigente in altri latifondi: qui i proprietari erano addirittura stranieri che nessuno aveva mai visto. Ma l'Inghilterra era una potente nazione da tenersi amica, tanto più in quel momento. Così a reprimere la sommossa fu mandato il più energico e il meno scrupoloso dei conquistatori, ovvero Nino Bixio. La Riall lo tratta meglio di altri cronisti, attribuendogli anche un certo rammarico per l'azione compiuta, ma non tace sui suoi metodi spicci, che comportarono la fucilazione di cinque insorti scelti senza troppo discriminare (tra loro c'erano lo scemo del villaggio e l'avvocato liberale Niccolò Lombardo, che aveva tentato di calmare le acque).
Dopodiché Bronte rimase a disposizione dei suoi lontani e invisibili padroni inglesi ancora per un altro secolo. Solo negli anni 1930 il quinto Duca si trasferì sul posto e tentò di impiantarvi un'attività; D. H. Lawrence, che lo incontrò durante il suo viaggio in Sicilia, lo descrisse come un cretino. Né lui né i suoi successori comunque si mescolarono mai alla popolazione locale. Da ultimo, nel 1969, lo Stato italiano acquistò la proprietà. Oggi il latifondo è un parco pubblico, e Bronte si autodefinisce non senza fierezza la «capitale mondiale del pistacchio».
martedì 23 luglio 2013
Goldrake alla terza generazione
domenica 21 luglio 2013
Fenomenologia di Luciana Littizzetto 2
L'Internazionale, 19 dicembre 2012
a proposito di Madama Sbatterflay, Mondadori
... c’è stato un momento, sul principio degli anni ottanta, in cui parevano contendersi la scena due tradizioni, due visioni della vita, due linguaggi e soprattutto due ritmi. C’era un umorismo flemmatico, filosofico, conviviale, ironico più che comico, che veniva dalla Magna Grecia e si era impiantato saldamente nella coscienza (e nella tv) nazionale grazie alle roccaforti di Quelli della notte e Indietro tutta, le due trasmissioni di Renzo Arbore.
Dal nord calavano invece i Longobardi del Drive in di Antonio Ricci, con i loro ritmi frenetici, la loro ilarità un po’ isterica, le loro risate registrate e un’attenzione mimetica (ancorché sociologicamente curiosa, e in questo ammirevole) per certi gerghi raccapriccianti dell’epoca, dai paninari ai bocconiani. Da quell’originario showdown, la geografia dell’umorismo italiano è cambiata: lasciando da canto la questione dei toscani (l’ultima parola a riguardo l’ha già detta Stanis LaRochelle), si può dire che i Padani hanno vinto, annettendosi anche una parte dell’umorismo dell’Italia centrale (il tipo parodistico del “coatto” romano, per dirne una, è ormai una macchietta da Drive in sotto mentite spoglie). Una colonizzazione che si è accompagnata alla funesta diffusione, in tutta la penisola, del costume celtico dell’aperitivo. Gli umoristi del “pensiero meridiano”, ahinoi, si sono pressoché estinti.
Luciana Littizzetto è il prodotto più basso di questo lungo processo, un punto di capitolazione su cui si scaricano il peggio dell’antonioriccismo nella variante Gabibbo, il peggio del beppegrillismo e della tradizione ligure, il peggio del cabaret televisivo alla Zelig e una nota di virtuosismo verbale da coattismo neoverdoniano, il tutto tenuto insieme da una visione del mondo da Bagaglino ripulito e democratico. Dimentichiamoci per un attimo, con sovrumani sforzi di autocontrollo, della voce della Littizzetto e della cadenza della sua parlata (il nostro è un processo inquisitorio e rigorosamente cartolare, dove l’oralità non trova spazio) e dedichiamoci a questa sua pagina. Distinguendo, alla buona, tra il cosa e il come, poiché “la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l’ornamento de le parole”.
L’ornamento de le parole, qui, è fatto per lo più di similitudini iperboliche e immaginose nello stile del “barocco coatto”: i vip si rifidanzano nel “tempo di evacuazione di una rondine”, alla “velocità del bosone di Ginevra”, o ancora nel “tempo che ci metteva il Trota per dire una boiata”; Belén che ti si offre è “come vedere le cascate del Niagara andare al contrario”, e così via. Poca cosa, ne converrete: modi artificiosi per travestire banalità (il Trota è stupido, le bellone della tv non te la daranno mai, ahahah).
Poi c’è tutto un metaforeggiare facilotto intorno agli organi sessuali: “poco bijoux” (con una x di troppo), “poco asparago”, un “cucchiaino da caffè”, sul versante fallico; la “cruna”, sull’altro versante (e almeno per una pagina ci è risparmiata la “Jolanda”, che ci fa piangere calde lacrime di nostalgia per l’Ubalda dei decamerotici). E c’è infine un continuo rifarsi ai tic verbali e alle parlate in voga (“per questi qua rifidanzarsi è un attimo”), rispetto alle quali la Littizzetto ha la sola funzione di spugna, che assorbe e risputa sciattamente, e non già quella di cozza, che quanto meno depura le acque torbide.
Fin qui l’ornamento. Ma che cosa adorna, questo ornamento? Dov’è la “bontade” della sentenza? Tutto questo ammiccare, questo dar gomitatine d’intesa, su cosa ci chiede di convenire? Non vogliamo farne una questione politica o ideologica, beninteso, siamo solo ipersensibili alla banalità e alla noia. E sotto la bigiotteria grossolana del linguaggio-Littizzetto si cela la banalissima, noiosissima Weltanschauung-Littizzetto (lei direbbe Walterschauung, e sai che ridere). Una cosa a metà tra il Bagaglino, la commedia sexy degli anni settanta – che rimane a confronto un vertice di eleganza inarrivabile –, il tormentone Marte/Venere e il lamento ironico della casalinga esasperata.
Una visione ossessionata non tanto dal sesso, che è pur sempre una delle fonti della grande comicità, quanto proprio dagli organi genitali (il meglio che la Littizzetto sa inventarsi su Corona è “quel suo pendere in avanti”) e da relazioni uomo-donna ferme alla terza media. I maschi sono erotomani che sbavano indistintamente se una bella donna “gliela tira dietro”, “gliela porge”, “sventola il lepidottero” o “la dona”. Le donne, le altre, quelle escluse dalla partita scimmione-vuole-oca, sono pettegole che guardano alla vita dei belli o dei vip con un misto di ironia, di orgoglio da bruttine-ma-simpatiche e di blanda condiscendenza (modello, peraltro, che vanta molte sciagurose carriere giornalistiche al femminile). E va bene che non vogliamo farne una questione politica, ma il lepidottero di Belén fa meno danni all’immagine della donna delle battute della Littizzetto sul lepidottero di Belén.
Fenomenologia di Luciana Littizzetto 1
Corriere della Sera, la Lettura
a proposito di Luciana Littizzetto Franca Valeri, L'educazione delle fanciulle, Einaudi
Quando leggi Franca Valeri senti che è vicina di pianerottolo di Gadda e Arbasino. Abita in quel condominio. Prendete questo pezzetto sulla Signorina Snob, il suo famoso personaggio: «La Signorina Snob, se vogliamo tirarla in ballo, per viaggi, cene, teatri era più fornita di amici maschi (amicizia, s’intende), il Pierone, il Mimi genio, il Lodo e il Tato inseparabili come pappagalli, eccetera. Era meno benevola con le amiche. Quella tonta integrale dell’Ildefonsa, sai che non legge al di là di Pinocchio? La Camillona (40 di piede) non ti si presenta alla Scala col vestito dell’anno scorso?». Oltre a Gadda e Arbasino, si sente anche un po’ di Moravia: «La noia siamo noi. Ho concluso dopo molti anni di vita che lei non esiste. È un tema letterario». E non manca naturalmente la perfida grazia settecentesca: «Mi torna in mente Madame de la Ferté, che in Bavardages (vuol dire “chiacchiere”) scrisse: “Le donne non hanno ancora capito che i gatti sono più belli di loro”». La prosa di Luciana Littizzetto è tutt’altra cosa. È così: «A proposito di cuoche, e cambiando argomento ché ne ho bisogno, io sono molto affezionata alla minestrina. Quand’ero piccola mi faceva cagarissimo». Ed è anche così: «Lui dice: “Che film preferisci?”. E tu: “Mah, fai tu!”. “Vuoi vedere un western?”. E tu: “Sì, sì, figurati!”. Che poi magari ti fa orrore il western… Oppure: “Senti, andiamo a mangiar la trippa?”. E tu: “Ah, non l’ho mai assaggiata la trippa. Uao!”. In realtà ti fa cagarissimo!». La cosa più incredibile è che, in copertina, il nome della Littizzetto precede quello della Valeri, come se fosse la sua la firma più importante. Direbbe Madame de la Ferté: «La Littizzetto (che mi fa cagarissimo!) non ha ancora capito che la Valeri è molto più grande di lei».
sabato 20 luglio 2013
Gian Enrico Rusconi, L'esecutivo perde credibilità
La responsabilità per la «storia inaudita» del caso Ablyazov (come l'ha definita il presidente Giorgio Napolitano) va chiarita e risolta in modo esemplare. Non sotto il ricatto della caduta del governo. Con quale faccia infatti Enrico Letta si presenterà agli incontri europei se «una reticente e distorta rappresentazione del caso e di pressioni e interferenze» (parole di Napolitano) ha coinvolto i vertici del ministero degli interni, ma viene banalizzata e manipolata? «Risolta all'italiana» - come già ridacchiano all'estero.
È inutile chiederci che cosa sarebbe successo in Germania se si fosse verificato qualcosa del genere. Il paradosso ora è che da noi si cerca di disinnescare malamente la gravità dell'episodio per non turbare i tedeschi. I mercati magari saranno contenti che il governo Letta sopravviva, ma il prestigio italiano e la sua credibilità scenderanno ancora più in basso. Non credo che la drammatica raccomandazione del Presidente della Repubblica a non mettere «a repentaglio la continuità di quest» governo», comprendesse questo prezzo. Ma evidentemente non la pensano così i senatori del Pd che oggi voteranno «no» alla sfiducia individuale ad Alfano. Le raccomandazioni del Presidente li sollevano dalla responsabilità politica di risparmiare un ministro inadeguato per salvare il governo. Non è un buon servizio all'Italia.
Ancora una volta Giorgio Napolitano ha svolto il suo ruolo autorevole - unica autorità di fatto in un sistema politico alla deriva. Ma, come mai prima d'ora, sta toccando il limite della sua capacità di persuasione. Non c'è dubbio che «oggi nella attenzione collettiva deve avere il primo posto la criticità delle condizioni economiche e sociali del paese» e quindi «il cronoprogramma di diciotto mesi per le riforme» (come precisa Napolitano). Ma non al prezzo di metter a repentaglio altri valori fondamentali.
Questo obiettivo minimale si sarebbe potuto ottenere con una semplice operazione: Angelino Alfano si ritira dalle sue cariche ministeriali e cede il posto ad un altro rappresentante del Pdl. Se una soluzione tanto ovvia non si verifica, vuoi dire che nella compagine delle «larghe intese» non funziona il requisito fondamentale per cui chi mostra incompetenza o inadeguatezza o dabbenaggine deve pagare. Perché ha (giustamente) pagato la ministra Josefa Idem per un errore meno grave, e non deve pagare Alfano per una inadeguatezza enormemente più seria.
So bene che le mie parole suonano ingenue ai sofisticati commentatori della cronaca politica. Il clima nel Pdl infatti è profondamente alterato per il profilarsi di un altro evento che potrebbe essere ben più drammatico dell'allontanamento di Alfano. È l'imminente sentenza giudiziaria finale per Berlusconi. L'ipotesi di una condanna definitiva sta facendo perdere la testa ai vertici del Pdl. Ma evidentemente anche ad una parte dell'alta nomenklatura del Pd.
In questo clima l'invito di Napolitano ad affidarsi con fiducia alla Cassazione suona illusorio. In realtà la sentenza potrebbe creare uno di quei momenti che (per usare ancora una volta le parole del Presidente della Repubblica, riferite al recente passato) potrebbero contenere «rischi di paralisi nella vita pubblica senza precedenti». Non voglio credere che quello che accadrà nelle prossime ore nel mondo politico possa essere l'anticipazione dello scenario, assai più traumatico, di fine mese. Per Napolitano sarà l'ultima sfida alla sua autorevolezza politica.
La Stampa, 19 luglio 2013, pp. 1 e 29.
venerdì 19 luglio 2013
Salvatore Lupo, La trattativa
SiciliaInformazioni.com
14 luglio 2013
giovedì 18 luglio 2013
Gorbačëv, il percorso di una vita
martedì 16 luglio 2013
Primo Levi, poesia per il partigiano giustiziato
EPIGRAFE
O tu che segni, passeggero del colle,
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Uno fra i molti, questa non è più solitaria
neve,
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Porgimi ascolto: ferma per pochi istanti il tuo corso
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Qui dove m'hanno sepolto, senza
lacrime, i miei compagni:
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Dove, per ogni estate, di me nutrita cresce
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Più folta e verde che altrove l'erba mite del campo.
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Da non molti anni qui giaccio io, Micca partigiano,
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Spento dai miei compagni per mia non lieve colpa,
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Né molti più ne avevo quando l'ombra mi colse.
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Passeggero, non chiedo a te né ad altri perdono,
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non preghiera né pianto, non singolare ricordo.
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Solo una cosa chiedo: che questa mia pace duri,
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Che perenni su me s'avvicendino il caldo e il gelo,
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Senza che nuovo sangue, filtrato attraverso le zolle,
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Penetri fino a me col suo calare funesto
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Destando a nuova doglia quest'ossa oramai fatte pietra.
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6
ottobre 1952
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