L'Indice, 22 luglio 2013
Tempo fuori luogo di Philip K. Dick, Cyberiade di Stanislaw Lem, Anni senza fine di Clifford Simak, Drive-in di
Joe R. Lansdale: sono soltanto alcuni dei classici della fantascienza
oggi ripubblicati, rispettivamente, da Sellerio, Marcos y Marcos, Nord
ed Einaudi che hanno visto originariamente la luce su “Urania”. Quando
una collana editoriale vanta milleseicento titoli in un catalogo che
spazia per oltre mezzo secolo e altri cinquecento tra ristampe, volumi
apparsi in collane satelliti e supplementi, smette di essere soltanto
una serie periodica (per giunta umilmente venduta nelle edicole) e
diventa patrimonio collettivo. È il caso di “Urania”, la più longeva
collana italiana di fantascienza, fondata nel 1952 da Giorgio Monicelli,
nipote acquisito di Arnoldo Mondadori, e dal secondo figlio
dell’editore, Alberto. I due cugini diedero vita a un nuovo tipo di
periodico italiano, sull’esempio delle riviste americane di science fiction,
e inventarono la parola “fantascienza”, un conio che era stato
anticipato soltanto dalla rivistina amatoriale “Fantascience Digest”,
edita negli Stati Uniti tra il 1937 e il 1941. Di quel periodico
ciclostilato e oggi rarissimo, nei giorni di Internet esiste una voce
completa su Wikipedia, ma ci si chiede quanto possa essere stato
familiare a Monicelli e Mondadori nel 1952. Influenzati o no dal
neologismo americano (e però di gusto classico), l’editore e il primo
curatore di “Urania” permisero al romanzo di fantascienza moderno di
diffondersi sul nostro mercato. Da allora la loro collezione, diretta
successivamente dalla coppia Fruttero & Lucentini, da Gianni
Montanari e dal sottoscritto, ha continuato a stuzzicare l’immaginazione
di migliaia di lettori, fino a toccare il traguardo dei sessantun anni
di pubblicazioni ininterrotte.
È
evidente come un arsenale del genere fosse destinato a diventare
sinonimo di utopia, inventiva e futuribile: per questo, fin dai primi
anni della sua vita editoriale, “Urania” non ha mai smesso di
influenzare altre collezioni con spunti, idee e una quantità di titoli
migranti. L’esodo di autori e romanzi tradotti originariamente sulle sue
pagine e passati nei cataloghi di altri editori è tanto vario quanto
vasto. La prima a riproporre i propri classici fu “Urania” stessa, che
negli anni sessanta creò la vetrina dei “Capolavori”, cioè ristampe dei
migliori titoli della fase pionieristica. Successivamente apparvero i
“Classici Urania”, una collana durata dal 1977 agli anni Duemila, cui
sarebbe seguita l’attuale “Urania collezione”.
Questo gusto di riscoprire il passato,
di ritrovare il meglio di un genere alonato di leggenda nella memoria
dei lettori, ha avuto conseguenze molto importanti tra la fine degli
anni sessanta e l’inizio dei settanta. In quel periodo alcuni editori di
battaglia diedero il via a collane rilegate o librarie volte a
presentare la science fiction a un pubblico ormai maturo. Scoppiò
la febbre delle traduzioni integrali, con il restauro dei vecchi
caposaldi spesso maltrattati o sunteggiati nelle versioni da edicola.
Prima l’esclusiva Libra di Bologna, poi la Nord di Milano e quindi, a
Roma, la Fanucci attinsero a piene mani, quando poterono, ai testi della
fantascienza eroica che la collana di Monicelli aveva divulgato
quindici o vent’anni prima. Le traduzioni vennero rifatte o aggiornate,
mentre in qualche caso si assisté al fenomeno delle versioni gonfiate,
il contrario di quelle adattate degli anni cinquanta: libri dove non
solo non si espungeva una virgola rispetto all’originale inglese, ma
addirittura si aggiungeva del proprio, chiamando in causa (a proposito e
a sproposito) non so quale lezione di Vittorini.
Fu una stagione folle e indimenticabile. Da ancella dei chioschi, per più di un decennio la science fiction diventò
un settore che “tirava” in libreria. La sovrapproduzione divenne
spaventosa, le collane specializzate si distinguevano per i marchi
d’argento e d’oro, questi ultimi riservati alle ristampe tratte da
“Urania” o da altri corni dell’abbondanza. Non che non ci fossero state,
in passato, altre iniziative librarie, a partire dalle antologie
einaudiane a cura di Sergio Solmi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini (Le meraviglie del possibile, 1959; Il secondo libro della fantascienza,
1961), per continuare con le pregevoli collezioni dello Science Fiction
Book Club di Piacenza, dirette da Roberta Rambelli: ma erano state
mosche bianche. Negli anni settanta e ottanta, invece, editori diversi
come Dall’Oglio e Sugar, Meb e Sonzogno, Nord e Fanucci (oltre,
naturalmente, alla stessa Mondadori, che nel 1963 aveva lanciato una
serie di antologie rilegate tratte dal catalogo di “Urania”, gli
“Omnibus fantascienza” a cura di Fruttero & Lucentini) portarono i
classici e le ultime novità del genere ovunque.
I
giornali ne parlavano volentieri, i dibattiti si accendevano su autori e
tendenze, le riviste letterarie e politiche si disputavano gli
approfondimenti su un genere che non solo commentava ma, in un certo
senso, creava il futuro. Forse per l’ultima volta prima del boom
informatico di metà anni ottanta, che avrebbe costretto a ripensare
tutto, sembrò davvero che la science fiction fosse la chiave per
entrare materialmente nel mondo nuovo, con la testa e non solo con i
piedi. E già i film di Kubrick della trilogia avveniristica, Il dottor Stranamore, 2001 odissea nello spazio e Arancia meccanica,
avevano dipinto un domani prossimo venturo che in qualche modo era
ormai arrivato, o un avvenire grandioso nel cosmo che sembrava in linea
con il pensiero immaginoso di Gerard O’Neill, l’autore di Colonie umane nello spazio, e di Stanislaw Lem, l’autore polacco di Solaris. Non dimentichiamo che proprio mentre in Italia usciva 2001,
per il Natale 1968, tre uomini a bordo dell’Apollo 8 circumnavigavano
per la prima volta la luna, e che il 21 luglio dell’anno successivo Neil
Armstrong e Edwin Aldrin vi sarebbero scesi davvero.
In quel periodo d’entusiasmo, e negli
anni che seguirono, le ristampe dal catalogo di “Urania” riproposero
l’aspetto più spettacolare della fantascienza, quello che aveva fatto la
fortuna del genere negli anni cinquanta, anche se non necessariamente
il più aggiornato. La Libra ritradusse City di Simak, cioè Anni senza fine,
un’elegia del lontano futuro che si risolve con la dispersione
dell’umanità in una serie di mondi nascosti e privati; la Fanucci rifece
Crociera nell’infinito di A. E. van Vogt, forse la più
elettrizzante “space opera” degli anni quaranta, fonte di ispirazione
per i futuri film di mostri nello spazio come Alien; la Nord ripropose Schiavi degli invisibili di
Eric Frank Russell, un romanzo del 1939 che illustrava la teoria
paranoide di Charles Fort secondo cui noi esseri umani saremmo il
bestiame di più evoluti e invisibili horlà. Insomma, mentre nel campo
della fantascienza nuova e aggiornata si cominciavano a riscoprire
Philip K. Dick e Lem, Robert Silverberg e il Kurt Vonnegut delle Sirene di Titano,
quando si trattava di conquistare le simpatie degli appassionati, lo
zoccolo duro della fantascienza, non si poteva sbagliare. Un classico
degli anni trenta-quaranta, importato da “Urania” nei cinquanta e
ritradotto per la gioia dei lettori dei settanta.
Ma
poi questa situazione finì, e del resto già gli “Omnibus” di Fruttero
& Lucentini avevano privilegiato un altro genere di produzione,
quella più moderna degli anni sessanta, saccheggiando il catalogo
recente di “Urania”. A metà anni ottanta i due torinesi abbandonarono la
direzione della loro collana e un’altra rivoluzione, quella del
computer domestico, mutò ancora una volta la faccia del presente, quindi
del futuro. Niente sarebbe stato più come prima: videoscrittura,
televisione ventiquattr’ore su ventiquattro e negli anni novanta
Internet, i telefoni cellulari. Un modo di vivere avveniristico e sempre
più dispendioso, che tuttavia non aveva alle spalle la spinta ideale
dei tre decenni precedenti, ma anzi una rigida programmazione
neo-capitalista. Quando Sellerio, negli anni novanta, provò a tradurre
alcuni titoli di fantascienza letteraria, alcuni li ripescò anche dal
catalogo di “Urania” e non furono certo titoli trionfalistici: Orfani del cielo alias Universo di
Robert A. Heinlein postulava il volo in un’astronave tanto grande da
essere scambiata, dai suoi occupanti, per il mondo, anzi l’universo
intero: si potrebbe chiamarlo il classico della science fiction claustrofobica. L’anno successivo (1996) lo stesso editore ripropose un gioiellino dei primi anni sessanta, Il viaggio di Joenes di
Robert Sheckley, opportunamente ritradotto e manifestamente cinico: un
“viaggio sentimentale nel lontano Ventesimo secolo”, una crociera per il
mondo dorato del consumismo e delle promesse pubblicitarie. Terzo e
importante recupero da “Urania” fu L’uomo dei giochi a premio di Philip K. Dick, dato in questa versione con il titolo Tempo fuori luogo (1959):
un incubo che promette lo sfaldarsi del reale quotidiano a favore di
“giochi” apocalittici manovrati dal futuro. L’errore di Sellerio, se
vogliamo definirlo così, fu di inserire questi capolavori in una collana
segregata, dedicata appunto alla fantascienza. Andarono male. Liberati
dalla gabbia e immessi nella fortunata collezione della “Memoria”,
alcuni di essi continuano a essere goduti dai lettori ancora oggi.
Negli anni Duemila, numerosi editori
letterari hanno accolto la celestiale eredità di “Urania”, soffermandosi
anche sulla produzione più recente: Marcos y Marcos ha riproposto la Cyberiade e altri titoli di Stanislaw Lem, Einaudi si è portato a casa il dittico del Drive-in di
Joe R. Lansdale (un autore che noi avevamo importato in Italia nel
1993), Fazi ha volto le sue attenzioni a Ray Bradbury e Fanucci a
Richard Matheson, tutti capisaldi della gloriosa collezione
fantascientifica. E intanto almeno un autore italiano, apparso per la
prima volta su “Urania” nel 1994, conquistava i vertici di una meritata
popolarità nel campo dell’utopia fantastorica: Valerio Evangelisti. Ma
quello è uno scrittore che Mondadori si tiene gelosamente in casa.
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