Demetrio Volcic
recensione per L'Indice
Michail Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita, ed. orig. 2013, trad. dal russo di Nadia Cicognini e Francesca Gori, pp. 493, € 20, Marsilio, Venezia 2013
Il titolo Ogni cosa a suo tempo indicherebbe
una vicenda ordinata, cosa che la vita di Gorbačëv proprio non è stata:
sbagliò mosse, compì passi troppo lunghi per superare la stagnazione o
troppo corti perché non trovava il guado. Ha avuto il tempo per finire
la guerra fredda. La perestrojka non è riuscita a produrre
risultati duraturi, per la brevità della gestione, dal 1985 al 1991, e
non ha dato molta gioia ai pensionati e alla gente semplice. Ha tuttavia
prodotto con El’cin oltre mille miliardari, secondo le stime degli
americani. Il regime ha alfabetizzato il paese, ha scritto un capitolo
di grande significato per la Russia, che si è iscritta nell’elenco delle
nobili utopie.
L’impero del male, l’Urss, per il presidente Reagan è diventato un
paese amico, e Gorbačëv ha trovato particolarmente simpatici gli indiani
che si battevano per un mondo denuclearizzato. Sobrio nel descrivere la
professione e la vita, privo di cinismo, semmai in alcuni momenti
innocente, per uno che dirige un variegato impero con migliaia di agenti
segreti e generali. Le sue ricette avrebbero dovuto valere per il
mondo, non solo per un paese in crisi. Finché parlava dell’atomo aveva
molto ascolto dappertutto.
A una festicciola universitaria conobbe una ragazza e
la invitò a fare due passi. Dopo alcune ore lui disse di aver gradito
la passeggiata e lei anche. Senza parlare eccessivamente degli affetti,
si amarono per cinquantasette anni. Raissa è stata la colonna portante
della loro vita, Gorbačëv la voleva sempre accanto nei momenti decisivi.
Prima delle visite all’estero lei si studiava le guide dei musei. Le
mogli degli statisti erano perplesse, consideravano le visite culturali
all’estero come momenti protocollari da sbrigare in cinque minuti.
Trattenendole a lungo, Raissa dimostrava la sua cultura e quella della
sua Russia. Piccole soddisfazioni.
Michail e Raissa venivano da villaggi dove non
esistevano né luce né telefono e quando si partiva per Mosca le valigie
di cartone erano enormi, ma buona parte del contenuto erano viveri. Il
nonno contadino di Raissa fu accusato di trotzkismo, condannato alla
fucilazione, ma la pena non fu eseguita. I genitori di Michail, anche
loro contadini, conobbero la persecuzione e il padre qualche anno di
prigione. Il futuro presidente non sapeva come presentare le biografie
dei genitori quando chiese l’iscrizione al Partito comunista.
Finiti
i quattro anni di studi a Mosca, la coppia tornò nella città di lui,
Stavropol, in una stanza con il letto di ferro troppo stretto e con la
rete che si piegava fino a toccare terra. Come tavolo usavano una
cassetta di legno per la frutta. Era un passo in avanti rispetto al
grande dormitorio dell’università sulle colline di Lenin, dove anche gli
studenti sposati non potevano stare insieme. Se Michail veniva a
trovare Raissa, poco dopo suonava il telefono per ammonire contro la
presenza di uno straniero nella stanza. Che i giovani imparino a essere
controllati! Si sono sposati a settembre, ma sono diventati di fatto
marito e moglie a ottobre, in un boschetto dietro all’università. Dopo
tre anni a Stavropol l’amministrazione cittadina assegnò ai due e alla
neonata figlia un monolocale di 38 mq, con una cucina di 12 mq, un
bagno, un gabinetto e un corridoio. Ai Gorbačëv sembrava di non aver più
bisogno di nient’altro nella vita.
I dissidenti di tutte le democrazie popolari, da
Dubček a Nagy, i grandi e piccoli Trockij, si battevano per un comunismo
diverso. La cornice socialista non è stata mai messa in dubbio. Le
vittime sono state spesso personaggi per una metà poeti e per l’altra
sognatori. I grandi dissidenti Solženicyn e Sacharov non sono mai stati
comunisti di professione, ma sono più noti all’estero che a casa loro.
Senza la crisi del regime pochi li avrebbero conosciuti. La salita era
riservata a chi aveva cominciato da piccolo.
I profili dei colleghi disegnati da Gorbačëv sembrano più esatti rispetto alla media dell’abituale cremlinologia.
Senza
Andropov probabilmente non sarebbe sorto un forte movimento riformista
nel partito. Il suo passato lasciava perplessità: ambasciatore sovietico
a Budapest nel 1956 durante l’intervento sovietico, per molti anni capo
dei servizi segreti sovietici, anche durante l’invasione della
Cecoslovacchia nel 1968. Gorbačëv, uno dei suoi cinque-sei figli
spirituali, racconta come arrostivano spiedini sul falò, quando con
Andropov trascorsero due vacanze estive insieme, ma l’autore si chiede
se fossero stati veramente amici: “Credo di sì. Dico questo con una
certa prudenza, perché più tardi avrei scoperto che i sentimenti hanno
un significato diverso negli alti gradi del potere. Nonostante il
riserbo di Andropov, potevo sentire che era ben disposto nei miei
confronti anche quando discutevamo”.
Un giudizio favorevole riguarda Kosygin, dall’aria
quasi sempre dimessa, che restava avvolto nella sua corazza. La sua
cautela, secondo Gorbačëv, era comprensibile, essendo l’unico vivo di un
gruppo fatto uccidere da Stalin. Kosygin di regola guardava. Dal suo
silenzio l’interlocutore poteva forse capirne il pensiero. Se fosse
stato in dissenso, avrebbe troncato il dialogo. “Dovunque andassi, non
ero mai solo”, disse Kosygin in un raro momento di apertura, e si
riferiva al controllo assoluto della sua vita personale. Gorbačëv gli
chiese una volta perché aveva abbandonato la riforma nel 1965. Kosygin
rispose con una domanda: “Perché lei, già membro del comitato centrale,
non intervenne al plenum in difesa delle riforme?”. Ambedue sapevano che
tre anni dopo la primavera di Praga aveva preso molte (forse troppe)
idee dal repertorio del primo ministro.
I dirigenti si davano tutti del voi o del lei,
patronimico compreso. Soltanto alcuni, tra questi il segretario
generale, davano del tu a una decina di collaboratori più stretti. Dopo
l’arrivo a Mosca, Gorbačëv invitò nella sua dacia per una colazione
l’ideologo Suslov, rigido e severo, che venne con la famiglia e fu
un’occasione piacevole. Invitò pure Andropov e questi rifiutò spiegando:
“Michail non deve meravigliarsi, Brežnev avrebbe saputo in poche ore
del nostro incontro il che non avrebbe servito al più giovane di noi
due”.
Senza Gorbačëv non sarebbe finita la guerra fredda,
senza Andropov non sarebbero usciti allo scoperto i riformatori o
sarebbero stati diversi. Sono dati necessari per il bilancio dei meriti
(o demeriti) del XX secolo. La riforma non aveva gli strumenti per poter
procedere velocemente. I politologi di Harvard, d’accordo con gli
economisti liberal russi, raccomandavano la chiusura dei grandi impianti
paramilitari, obsoleti e senza mercato. Il presidente in un incontro mi
disse: “Gli esperti che propongono il licenziamento di quattro milioni
di lavoratori non sanno ciò che dicono”.
Un
giorno andò nella clinica del Cremlino per una visita a Brežnev e trovò
uno slogan che entusiasmò il malato. Pane e difesa. Tornato al Cremlino
comunicò il consenso del capo supremo almeno su uno dei punti per i
quali si batteva: la gara con la storia, la vodka, l’agricoltura e la
Difesa: l) la storia: pochi giorni prima della caduta del Muro, Michail
Sergeevič ricordava a Berlino al padrone di casa Honecker che “la storia
non perdona chi è in ritardo”; 2) alcool: con uno dei primi
provvedimenti fissò i limiti alla produzione e alla vendita della vodka;
3) contadini: ogni autunno lo stato concedeva un prestito milionario
alle imprese agricole statali, significa a tutte. Nessuno ha mai
restituito un solo centesimo. Gorbačëv propose di alzare solo di pochi
centesimi il prezzo del pane per rientrare nell’economia normale e
abbandonare i simbolismi. Ma per anni non riuscì a vincere. Costava meno
acquistare ingenti quantità di grano all’estero e pagare il deficit con
il petrolio che cozzare contro il tabù del pane per tutti. 4) Difesa:
nella zona industriale caucasica si sfasciavano i carri armati, si
trasportava l’acciaio in un altra fabbrica per costruire un nuovo tank
identico al precedente. L’operazione di risurrezione si ripeteva e così
lavoravano cinquecento specialisti.
Le prime memorie di Gorbačëv del 1995 (oltre milleduecento pagine, dal titolo Vita e riforme,
edito dall’agenzia Novosti, con tiratura di sole tremila copie)
risalgono alla vigilia delle elezioni nazionali. Il suo avversario
principale era lo spaccamontagne Boris El’cin, spesso cattivo e ogni
tanto con un sottofondo alcolico, ma dal cuore cagionevole. Nel periodo
più teso stava sotto i ferri del cardiochirurgo americano DeBakey. Ma
El’cin impazzava su tutte le reti di tutte le televisioni, ballava,
raccontava, prometteva, e stravinse. Aveva registrato gli spot in
anticipo. Se fosse morto, il successore si sarebbe trovato nei guai.
Il primo volume di memorie servi da canovaccio al
secondo, ora tradotto in italiano. L’autore lo ha ridotto a meno della
metà, togliendo alcune sintesi dei suoi colloqui con i grandi del
periodo: Mitterand, Thatcher, Brandt, Kohl, Andreotti e tutti i
responsabili della politica americana. Il secondo libro è dedicato alla
moglie morta nell’autunno 1999: “L’anno successivo è stato il più
difficile, la vita ha perso ogni significato, dopo una convivenza di
quasi mezzo secolo”. Gli inizi della malattia di Raissa risalgono alla
tarda estate del 1991, quando il golpe contro Gorbačëv fallì, perché
condotto in modo confuso. Quasi all’alba del giorno dopo al Cremlino
nessuno dei congiurati voleva assumersi la responsabilità. La vodka fece
il resto e per l’attacco etilico dovette essere trasferito in ospedale
il primo ministro Pavlov. Si schierarono con Gorbačëv alcuni reparti di
aviazione e una divisione alle porte di Mosca. Poche ore più tardi
El’cin poté salire su un carro armato, maledire il golpe e chiedersi
come mai il pericolo non fosse stato previsto. Quando la coppia
presidenziale rientrò dal Caucaso a Mosca, Raissa si copriva le braccia
con un plaid per mascherare l’inizio di una paralisi. Prima di morire,
il suo principale tarlo, scrive il marito, era lasciare il destino del
paese nelle mani di “individui disonesti, irresponsabili e senza
scrupoli”.
Per il fallimento delle riforme Gorbačëv accusa
soprattutto il personale politico, le satrapie che si annidavano nei
capoluoghi delle quindici repubbliche federative, ma anche nei tanti
uffici della metropoli. Al Cremlino interessavano la stabilità e
l’equilibrio tra i gruppi sgomitanti in una lotta anche nazionale assai
ruvida, in cui il ritrovato senso nazionale contava più dei valori
ideologici. Gorbačëv pensò di non essersi “trovato impreparato quando
cominciò a profilarsi nel paese la questione delle nazionalità. Uno del
Caucaso ha un’inclinazione innata a creare compromessi in tutte le
situazioni”. Il suo modo di agire non sarebbe stato una debolezza di
carattere come sostenevano gli avversari.
Quando tuttavia un generale sovietico prende la guida
della rivolta cecena, quando la polizia interviene con inusitata
violenza contro le piazze delle città baltiche, quando Sacharov
rientrato dall’esilio interno si procura milioni di tifosi ai dibatti in
tv, mentre El’cin puntava senza nasconderlo alla presidenza, il
Cremlino avrebbe dovuto consultare almeno il Kgb se non la Cia,
abbandonare la tesi economica che tutto si sarebbe sistemato con le
migliorate condizioni di vita. Gorbačëv capì le possibili reazioni
negative alle riforme, ma non le nuove derive che si sarebbero
presentate, e tanto meno faceva ipotesi sulle derive delle derive. Il
barometro della vita nel socialismo doveva salire. I capi dei paesi
comunisti non la presentavano come un’ipotesi, ma come una legge della
storia, come dicevano molti storicisti, marxisti compresi.
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