Luciano Allegra
Sergio Luzzatto, Partigia. Una storia della resistenza, pp. 373, € 19,50, Mondadori, Milano 2013
recensione per l'Indice
Una piccola banda partigiana che
operava in Val d’Aosta nel 1943 decide di giustiziare due suoi giovani
uomini. Efficacemente infiltrata, dopo pochi giorni viene sgominata e la
gran parte dei suoi membri subisce l’arresto. Tre di loro, ebrei,
verranno immediatamente instradati verso Auschwitz, via Fossoli: due,
fra cui Primo Levi, faranno ritorno; la terza no. All’indomani della
liberazione, dei due partigiani uccisi si costruirà una falsa memoria:
si dirà che erano caduti per il fuoco fascista e li si onorerà come
martiri. Questo, in estrema sintesi, è il contenuto di Partigia di
Sergio Luzzatto, un libro che vuole essere, programmaticamente, la
storia della Resistenza attraverso una storia della Resistenza.
La
ricerca ha preso le mosse proprio dalle pagine che Levi ha dedicato
all’episodio. Sono pagine letterarie, pagine ben note, nelle quali
Luzzatto ritiene si celi un terribile segreto che avrebbe accompagnato e
angosciato lo scrittore per tutta la vita: essere stato corresponsabile
di un assassinio, quello dei due partigiani, deciso forse con
leggerezza e comunque sproporzionato rispetto all’entità della colpa.
Lungo questo filo rosso, che tiene insieme tutto il lavoro, vediamo
scorrere una ridda di personaggi che ci parlano dalle carte d’archivio
dei processi, dai giornali del tempo, o attraverso la viva voce delle
interviste rilasciate all’autore. E man mano cresce nel lettore che le
segue l’ansia di sapere che cosa accadde davvero in quei gelidi giorni
di dicembre a Levi, alle due vittime, agli altri componenti della banda.
Chi decise l’esecuzione? Chi la eseguì? Quale fu il coinvolgimento di
Levi? Ma, soprattutto, per quali motivi si giunse a tanto? Queste
domande, per la delusione del lettore, rimangono senza risposta. Dopo
più di trecento pagine continuiamo a non sapere se quella scelta sia
originata da ragioni più o meno futili, oppure “gravi”, come lo stesso
Levi ebbe a dichiarare. La verità dunque non viene a galla, e di
conseguenza il caso clamoroso, lo scoop inseguito con palpabile
trepidazione da Luzzatto, scoppia come una bolla di sapone. A quel punto
sarebbe stato logico abbandonare la pista Levi e concentrarsi
sull’episodio in sé, per collocarlo nella storia più generale della
lotta di liberazione, quella che non ama i clamori e non necessita di
“provocazioni”. In questo modo però sarebbe venuto meno il richiamo
maggiore, perché la figura di Levi garantiva spettacolarità e quindi
doveva essere tenuta in ballo a tutti i costi.
Il sistema periodico).
Il fatto stesso che Levi avesse rievocato quell’esperienza, per di più
in un’epoca contrassegnata dalla monumentalizzazione della Resistenza,
sembrerebbe suffragare la dolorosa consapevolezza dei limiti della
giustizia sommaria in tempo di guerra, piuttosto che celare un senso di
colpa individuale. Strano segreto, del resto, questo “brutto segreto”,
visto che era stato lo stesso Levi a propalarlo. Forse conscio della
sostanziale insussistenza dell’accusa di reticenza, Luzzatto è allora
ricorso, per rinforzarla, a un altro artificio retorico: il discredito
del testimone attraverso l’insinuazione e l’enfasi di contraddizioni
irrilevanti. Vediamone due esempi fra i tanti. Levi accenna, nel corso
di due distinte interviste, all’esistenza di bande che operavano nella
stessa zona della sua: quella dei casalesi, che riteneva ben munita di
“armi e camion”, e quella di Piero Urati, dalla fama ambigua. La prima,
in realtà, non disponeva di tutta quella potenza di fuoco e quindi non
era stata né il movente né l’obiettivo del rastrellamento nel quale Levi
venne catturato; la seconda invece si sarebbe formata di lì a poco,
essendo Urati prigioniero dei tedeschi a Torino. Queste contraddizioni
inducono Luzzatto a bollare come “fallace” e “impreciso” Levi,
sentenziando come, nel suo caso, riesca “poco utile un’interrogazione
della memoria che valga da criterio di storia”. Per
riuscirvi, Luzzatto è ricorso a tre dispositivi: ha accusato Levi di
essere stato colpevolmente reticente in merito; ha cercato di farlo
passare come un testimone inattendibile perché impreciso; ha forzato la
lettura di certi suoi passi per mostrare l’esistenza di un’angoscia
irredimibile e latente legata a quell’episodio. Fingendo che quella non
fosse la cifra di Levi, Luzzatto comincia dunque con il confondere la
densità essenziale delle sue parole (che definisce “avarizia narrativa”)
con la reticenza e la vergogna, senza però chiedersi che cos’altro
avrebbe dovuto dire lo scrittore nell’evocare l’episodio, o che
cos’altro avrebbe potuto, trovandosi all’interno di un contesto
narrativo (il racconto Oro del libro
È
sbalorditivo però che non si chieda come Levi avesse potuto attingere
quelle (false) informazioni: ovvero che non abbia presente il magistrale
Les fausses nouvelles de la guerre di
Marc Bloch, abc di chiunque voglia misurarsi con un’interpretazione non
ingenua né letterale di fonti così delicate. Ma, ancora. Il 13 dicembre
del ’43, con i repubblichini all’uscio che stanno per catturarlo, Levi
nasconde la sua rivoltella “nella cenere della stufa”, o almeno così
racconta. Nel 2010 un testimone, Yves Francisco, sostiene invece di
averla nascosta lui, quella pistola, “in un interstizio del sottotetto”.
La futilità del particolare non invoglia certo ad almanaccare su quale
delle due versioni sia quella più vicina alla verità, se quella del Sistema periodico o
quella dell’ottantottenne Francisco. Ma l’effetto è assicurato: il
lettore, a quel punto, avrà l’ennesima conferma che Levi è un testimone
inaffidabile. Sarà addirittura portato a dubitare di lui come persona e
(perché no?), non appena i negazionisti si impadroniranno di questa
discordanza cominceranno a dire che anche Se questo è un uomo è
pura menzogna. Un “effetto collaterale” ampiamente prevedibile, di cui
però Luzzatto si mostra del tutto inconsapevole o noncurante se, non
ancora soddisfatto delle due mani di belletto con cui ha cercato di
tenere in piedi la sua ipotesi- fantasma, ricorre a una terza ipotesi,
improvvisandosi, lui, semiologo letterario. E dunque cercando in ogni
anfratto degli scritti di Levi conferme di quell’atroce segreto che
avrebbe angosciato l’intera sua esistenza – altro che Auschwitz. Ne
trova ovunque: non c’è racconto o poesia che non ne rechi traccia
evidente, o non la celi fra le righe. Perfino Se non ora, quando? sarebbe
pervaso di indizi, beninteso manifesti solo a lui (“così visibile che
nessuno lo ha visto”; sugli abbagli della sua lettura vedi le belle
pagine di Alberto Cavaglion in http://ehess.dynamiques.fr/usagespublicsdupasse).
Fra gli altri non irrilevanti effetti
collaterali emerge poi un’immagine della Resistenza caricaturale, fatta
di persone scriteriate o goffe, di improvvisatori e pasticcioni, di
ebrei snob e di giustizialisti implacabili, di fronte ai quali campeggia
una sola figura: quella di Edilio Cagni, l’autentico eroe nero della
vicenda, che sembra attirare tutta l’ammirazione dell’autore. Non che
mancassero figure come quelle, ovviamente, né che i partigiani non
commettessero errori, ingiustizie, violenze: la favola del lupo contro
l’agnello gli storici non se la raccontano più da un pezzo. E non a caso
negli ultimi anni sono apparsi in merito molti fondamentali contributi,
alcuni proprio sulle esecuzioni sommarie delle bande. La vicenda di Partigia avrebbe
dovuto farvi esplicito riferimento, perché le cause, le forme, i
modelli di quei comportamenti e di quelle azioni erano di volta in volta
diversi e costituiscono oggi un campo di indagine fra i più
promettenti. Nel libro, però, a essi neanche un accenno, tranne quello,
fugace, a Pansa, che non basta ad assolvere il compito. E così,
omettendo di affrontare nella sua complessità e nella sua generalità il
tema quanto mai rilevante della violenza e della giustizia partigiana, Partigia non
riesce a uscire dalle secche della storia locale. Nella quale finisce
la costruzione di una falsa memoria all’indomani della guerra, un
processo che, tanto fra le file dei fascisti quanto fra quelle dei
partigiani, coinvolse migliaia di persone, stendendo una coltre di
ambiguità sulla nascente repubblica. Anche in questo caso ci si ferma
alla storia delle due vittime, come se il fenomeno non fosse generale e
non richiedesse, per comprenderne tutta la complessità, una
formalizzazione e un approccio comparato.
A fine lettura ci si chiede quale sia,
al di là del crisma retorico e artificiale rappresentato da Primo Levi,
il problema centrale attorno al quale ruota il libro e il fine per il
quale è stato scritto. Non si trovano risposte diverse da quella che
Luzzatto stesso ha più volte confessato: per liberarsi da certe sue
ossessioni. Non pare però che ci sia riuscito, visto che continua a
menare fendenti contro “i devoti di Primo Levi”. Ci sono terapie più
efficaci che scrivere brutti libri di storia.
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