Aldo Grasso e Cecilia Penati
Corriere della Sera, La Lettura, 28 luglio 2013
Non chiamatela guilty pleasure, ossia qualcosa che ci piace,
ma di cui ci vergogniamo. Potreste fare arrabbiare la sua creatrice,
Shonda Rhimes, la produttrice più influente della televisione americana
contemporanea. Meredith Grey è molto di più. Non è solo un personaggio
che «ci vergogniamo di amare», non è solo l’ultima erede della narrativa
popolare di consumo, l’ennesima pollastrella da chick lit. E in fondo, come spiega Rhimes, «quando dici che uno show è un guilty pleasure, non è certo un complimento. In pratica, stai dicendo che fa schifo».
Chi è allora Meredith Grey? È un affermato aiuto primario presso la
divisione di chirurgia generale al Grey Sloan Memorial Hospital di
Seattle: la sua carriera è partita da molto lontano, per l’esattezza
otto anni e nove stagioni fa, quando la notte precedente al suo primo
giorno come tirocinante di chirurgia è finita a letto con un tizio
conosciuto per caso in un bar, di cui stentava a ricordare il nome e che
prevedeva di non rivedere mai più dopo quell’unico one-night-stand.
Per poi scoprire, la mattina dopo, che il tizio in questione era Derek
Shepherd, il miglior neurochirurgo dello Stato di Washington, nonché suo
superiore tra le mura dell’ospedale. Il destino non si scompone mai
senza una ragione. Shepherd è presto ribattezzato dottor McDreamy (in
italiano si sono inventati «Dottor Stranamore») e, da lì in avanti, per
Meredith la carriera inizia a intrecciarsi irrimediabilmente con il
sesso, i drammi chirurgici iniziano a confondersi con quelli
sentimentali.
Meredith è il personaggio che dà il titolo a una delle serie più
importanti dell’ultimo decennio, in onda su Abc, una delle poche con una
forte female lead, forse non la più bella, sicuramente non
quella maggiormente acclamata dalla critica, ma senz’altro quella più
amata dal pubblico, come testimoniano la sua longevità e i suoi ascolti
stellari (al debutto 21 milioni, diminuiti solo nelle ultime due
stagioni). Il titolo della serie, Grey’s Anatomy, oltre a
mettere Meredith al centro del racconto, è un gioco di parole che
richiama il famoso manuale di anatomia descrittiva e chirurgica scritto
nel 1918 da Sir Henry Gray e ancora in uso nelle scuole di medicina. Tra
le altre cose, Meredith è anche costretta a portare lo stigma di
«predestinata», perché «figlia di», nello specifico del famoso chirurgo
Ellis Grey: una specie di star della medicina, vincitrice di due premi
Harper Avery, ideatrice di un divaricatore per l’addome e di molte
procedure chirurgiche all’avanguardia. Una madre devota solo alla
medicina, sposata con un uomo debole, che finisce per lasciare dopo
averlo a lungo tradito con il più vigoroso collega Richard Webber.
Quando Meredith decide di iscriversi a medicina, la scoraggia dicendole
che «non ha il carattere». Sarebbe già abbastanza per evocare i più
potenti traumi psicologici legati al rapporto madre e figlia, ma le cose
si complicano quando Ellis viene colpita da un’aggressiva forma di
Alzheimer precoce. Non ricorda più nulla, disconosce la figlia, lascia
l’ospedale per trasferirsi in una casa di cura e infine muore per le
complicazioni della malattia.
Meredith rimane sola con se stessa, è solo la vocazione per la
medicina a sostenerla. È così che, come nella migliore tradizione
seriale americana, si costruisce giorno dopo giorno una famiglia
sostitutiva, composta dai colleghi tirocinanti e dai primari, che
diventano alternativamente mentori, antagonisti, amanti. Un gruppo di
medici in carriera, ma anche in tumulto ormonale, espressione di
un’ampia varietà etnica e di gender molto cara a Rhimes. Cristina Yang,
sua collega di specializzazione, è il doppio di Meredith, quella che lei
chiama «la sua persona»: arrivista e talentuosa, disinteressata alla
vita familiare almeno quanto Grey desidera ricostruire quel nido che le è
sempre mancato
In Grey’s, ogni personaggio risponde a profili narrativi
semplici, in fondo quasi schematici, mantenuti con coerenza e costanza
nel tempo, accompagnati da dialoghi sempre costruiti in perfetta
aderenza alla biografia del personaggio. Il romanzo di formazione dei
tirocinanti racconta l’apprendimento delle pratiche chirurgiche, ma è
soprattutto una formazione sentimentale, una soap di alta qualità.
Insomma, in Grey’s Anatomy, il letto più importante non è certo
quello che sta in corsia, tanto che il «New York Times» ha fatto presto
a ribattezzare la serie Sex and the City Hospital. Grey’s è un «Luogo d’angoscia», come si confà a un medical drama,
ma anche un Nonluogo di avventure sentimentali. A differenza di altre
serie, non si preoccupa tanto di descrivere i particolari tecnici delle
operazioni mediche (diagnosi, interventi, cure), quanto piuttosto di
rappresentare le emozioni dei primi atti terapeutici, così
intrinsecamente legati agli intrecci amorosi. Nella sala operatoria, i
tirocinanti se la cavano bene, è la vita fuori da lì, con tutte le
complicazioni delle relazioni umane, a riservare le insidie maggiori:
«Con un bisturi in mano, ti senti inarrestabile. Non provi più paura, né
dolore. Ti senti un gigante invincibile. Ma poi esci dalla sala
operatoria. E tutta quella perfezione, tutto quello splendido
autocontrollo, va in malora».
Il punto di vista di Meredith filtra tutto il racconto, il fulcro
narrativo è stretto su di lei, anche grazie all’espediente della sua
voce fuori campo (come quella di Carrie in Sex and the City e di Mary Alice in Desperate Housewives)
che incornicia ogni episodio con mielose frasi «di genere» in apertura e
chiusura, una prosa emozionale e molto ripetitiva, facile a
trasformarsi in citazione: «Mi amerai anche quando mi odierai» fa
promettere nei voti nuziali redatti su un post-it al dottor McDreamy, in
procinto di diventare suo marito. Nel corso delle stagioni, lo sguardo
della serie si è allargato a comprendere in modo più bilanciato, ma
anche più convenzionale, gli altri personaggi del cast, calcando ancora
di più la mano su un’impostazione soapish. Meredith è l’ultima
esemplare di una lunga tradizione letteraria (e poi televisiva) di
rappresentazione delle eroine sentimentali, ma il suo personaggio
aggiorna la categoria da molti punti di vista. In lei non c’è solo
virtù, ma è disposta a usare il suo corpo anche in modo divertente e
spregiudicato; non vede le cose bianche o nere, ma secondo molte
sfumature di grigio, «many shades of Grey», appunto. Frequentare un uomo
sposato? Va bene, se sua moglie è a sua volta un’algida traditrice.
Manomettere la sperimentazione clinica sull’Alzheimer? Va bene, se è
fatto per aiutare la moglie malata del primario di chirurgia, che molti
anni prima era stato l’amante di sua madre. Senso di colpa, eterna
vocazione al masochismo sentimentale, spirito da crocerossina? Non si sa
che cosa l’abbia spinta.
In fondo Meredith è una a cui soffrire non dispiace, soprattutto
nelle prime stagioni della serie, quando è per la maggior parte del
tempo umbratile e cinica, sempre accompagnata da un velo di pessimismo
cosmico. Solo lentamente diventa una donna più sicura e fiduciosa,
addirittura disposta a essere felice (e la minore originalità delle
ultime stagioni della serie forse va proprio imputata a questo cambio
nel personaggio). Helen Eisenbach ha scritto su «Salon»: «Oggi forse
abbiamo dimenticato l’impatto che Grey’s ha avuto nel 2005, al suo debutto. Anni prima dell’approccio brillante ed esplicito di Lena Dunham (Girls) o Elizabeth Meriwether (New Girl), Leslye Headland (Assistance) e Mindy Kaling (The Office, The Mindy Project), Grey’s
ha rappresentato una svolta trasgressiva. Ci ha fatto capire che i
personaggi femminili possono essere ambiziosi, severi, rudi, felicemente
promiscui e anche imperfetti, essere antieroi per i quali facciamo il
tifo e non solo ragazze carine, fidanzate bollenti e ammirabili eroine.
Anche se, certo, a volte possono essere tutte queste cose. È stato
esilarante e ha creato dipendenza nel pubblico».
Come le eroine del romanzo epistolare, alla Pamela di Samuel
Richardson per intenderci, il personaggio di Meredith funziona come un
parafulmine narrativo per sventure e disgrazie di ogni genere (un vero
marchio di fabbrica di Shonda Rhimes). Le cose peggiori accadono per
darle l’occasione di soffrire, toccare il fondo e rialzarsi, e allo
stesso tempo per permettere allo spettatore di simpatizzare con lei: è
sopravvissuta nell’ordine a un paziente con una bomba in corpo
(letteralmente), a un annegamento, alla sparatoria di un folle in
ospedale e a un conseguente aborto spontaneo, alla caduta di un aereo in
cui muore anche la sua sorellastra, alle complicazioni di un parto
cesareo che avvengono durante un black-out elettrico causato da un
uragano. Senza dimenticare la minaccia genetica dell’Alzheimer che pesa
su di lei come una spada di Damocle. Ma Meredith è una che sulle sue
sfighe sa anche ironizzare. Per annunciare al marito la sua prima
gravidanza sente il bisogno di mettere le mani avanti: «Ho sempre
l’utero ostile, e mi capitano in continuazione cose terribili».
Negli Stati Uniti, la critica impegnata si è scatenata: è lagnosa,
lunatica, prende decisioni spesso irrazionali. È stata criticata dalle
femministe per i suoi tratti stereotipati di donna in carriera (alla
Mary Taylor Moore): professionalmente competente, personalmente un
disastro. A difenderla ci ha pensato la sua creatrice, Shonda Rhimes:
«La verità è che sua madre è morta di Alzheimer, nessun altro della sua
famiglia le parla, e l’uomo che ama è sposato. È sola come un cane. Ha
tutto il diritto di essere lamentosa. Quando inciampa è anche perché non
ha nulla a cui aggrapparsi». Il lavoro di Shonda nel costruire i suoi
personaggi sta tutto in queste sfumature, niente è solo giusto o solo
sbagliato, la morale si può costruire. Parlando di Olivia Pope, la
protagonista della sua ultima serie Scandal che con Meredith ha
molto in comune compreso il fatto di ricoprire il ruolo di amante, ha
raccontato a «Salon»: «L’assunto di base della maggior parte degli show
televisivi è quello che, in fondo, le persone sono buone. E c’è sempre
un eroe contrapposto ai cattivi. Certo, questi sono i fondamentali della
fiction generalista. Ma qui non c’è nessun eroe. Fai il tifo per
Olivia, ma lei non è un’eroina. Forziamo il pubblico a identificarsi con
lei, e poi gli chiediamo di identificarsi con qualcuno che sta facendo
qualcosa di sbagliato».
Le nove stagioni della serie ci hanno permesso di conoscere Meredith
da vicino, di vederla trasformare nel tempo: Ellen Pompeo, l’attrice che
la impersona, ha avuto la bravura di interpretarne le sfumature più
sentimentali e comiche come quelle più cupe e drammatiche. «How to save a
life», come salvare una vita, recita una delle ballad usate
come colonna sonora per gli episodi della serie (tutti prendono il
titolo da una canzone). Il senso del personaggio di Meredith è questo,
imparare a salvare vite, possibilmente anche la sua.
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