Marino Niola
A lezione di pensiero selvaggio
la Repubblica, 28 novembre 2015
Scandiva le parole con la precisione di un metronomo. Seguiva il filo
del discorso in un labirinto di cui conosceva alla perfezione le entrate
e le uscite. La sua testa piccola e affilata somigliava a quella di un
uccello che punta la preda. Il resto lo facevano la solennità gnomica
dei toni e l’eleganza severa dei gesti, che rendevano le lezioni di
Claude Lévi-Strauss al Collège de France delle performance
intellettuali. Si aveva la sensazione fisica di assistere a un’opera che
si produceva davanti ai nostri occhi. E qualche volta sembrava
addirittura di sentire il ronzio del pensiero al lavoro.
Lui era tutto il contrario dell’antropologo alla Indiana Jones, quello
sempre vestito di avventura. Era invece il più schivo e il più
inimitabile dei maestri. Smontava e rimontava mondi lontani con
l’acribia di un orologiaio cosmico. Rapito dalla logica incandescente
del pensiero selvaggio, passava con la facilità apparente del poeta, dai
miti degli indiani d’America allo sciamanesimo siberiano. Dai
cacciatori di teste agli psicanalisti, che considerava i nostri
riduttori di teste. La sua erudizione, sterminata e preziosa, lo faceva
volare tra Montaigne ed Erodoto, tra Baudelaire e Wagner. Ogni volta
dinamitava le nostre certezze con una calma olimpica. E con il gusto
sottile dell’oscurità. Che è concessa solo ai grandi.
IL BELLO COME STRUTTURA
In un oggetto che troviamo bello - e il giudizio in materia può
variare da persona a persona - c’è qualcosa di particolare, che lo
distingue dagli altri, dagli oggetti dell’esperienza ordinaria? Dal mio
punto di vista - ma credo di non far altro che seguire infedelmente il
pensiero di Kant - gli oggetti ordinari, come il libro o il portapenne
sulla mia scrivania, costituiscono un sistema di relazioni. Il quale è
dello stesso grado, dello stesso livello, dei sistemi di relazioni di
tutti gli altri oggetti che costituiscono l’esperienza ordinaria. In un
oggetto che troviamo bello - e ne ho uno proprio tra le mani, ecco, per
esempio questo, anche se non è di eccezionale fattura [una piccola dea
Kali in ottone, ndr] - c’è qualcosa che lo rende tale per noi. Oltre
alle relazioni che ha con gli altri oggetti dell’esperienza in quanto
oggetto ordinario, c’è anche tutto un insieme di relazioni interne che
lo rendono più «denso», per così dire, degli altri oggetti che gli
stanno intorno. [...] È un po’ quello che tempo fa avevo cercato di
fare, insieme a Jakobson, per il sonetto di Baudelaire I gatti:
mostrare che si trattava di un oggetto più denso, più pesante, dal
momento che vi si potevano cogliere molte più relazioni di quelle che
possiamo cogliere in un semplice oggetto empirico.
(dal colloquio con Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, alla fine del 1997, pubblicato nel libro-intervista Cristi di oscure speranze, ed. Nottetempo)
http://www.treccani.it/enciclopedia/claude-levi-strauss_%28Dizionario-di-filosofia%29/
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