Massimo Recalcati
Quanto realismo magico
nelle parole dei bambini
Il mistero del linguaggio infantile ci
interroga da sempre. Perché per i più piccoli parlare non è uno
strumento ma un incontro che “crea” il mondo e apre all’Altro
la Repubblica, 5 novembre
2015
Il testo di Massimo
Recalcati che qui pubblichiamo è un estratto della prefazione a
Maestra, ma che ne sarà di me? di Angela Maria Borello
(Grantorino pagg.222 euro 20)
I bambini non
sono minorati che necessitano di un padrone che li guidi, ma soggetti
di parola, inventori di teorie, sognatori, incarnazioni viventi della
speranza. È questo il ritratto che di loro ci offre il bel libro di
Angela Maria Borello, direttrice didattica di una Scuola d’infanzia
di Torino. Il lettore che lo incontrerà farà una esperienza
nuova.
[...] La parola dei bambini trova la sua matrice prima
nel grido. Lo sappiamo: la vita viene alla vita attraverso il grido.
Il piccolo dell’uomo è sempre, all’inizio della vita, un grido,
solo un grido, un grido perduto nella notte. Questo grido è una
invocazione rivolta all’Altro affinché l’Altro risponda. È
questa la prima responsabilità (il cui etimo deriva appunto da
“risposta”) che l’esistenza di un bambino attribuisce alla vita
di coloro che si occupano di lui. È questa, se volete, una
definizione primaria della genitorialità ma, più in generale, della
funzione di chi deve promuovere l’umanizzazione della vita: non
lasciare la vita sola, persa, non abbandonarla alla notte, rispondere
al grido. L’accesso alla lingua sposta i bambini dall’universo
chiuso della famiglia a quello aperto del mondo. La lingua per loro
non è solo uno strumento che devono imparare ad usare, ma un
incontro generativo che apre a mondi sconosciuti prima; la lingua dei
bambini sa essere incantevole perché fa risorgere ogni volta l’atto
mitico della prima nominazione quando fu la parola a fare esistere le
cose. È così: le parole dei bambini aprono e ci aprono al mistero
del mondo. È la pioggia la prima pioggia, è la lumaca schiacciata
sotto la pietra la prima lumaca schiacciata sotto la pietra, è la
scoperta del proprio corpo la prima scoperta del proprio corpo. Manca
in queste parole l’interrogazione inquieta, forsennata, acida e
assetata, dell’adolescenza; manca il pensiero critico che vuole
ribaltare le convenzioni, manca la necessità spasmodica della
contestazione dell’Altro. Il mondo appare al loro sguardo come un
puro fenomeno ancora sottratto alle griglie corrosive della teoria
critica. Il loro sguardo non è teoretico. Si posa semplicemente
sulle cose del mondo con meraviglia. Per questo le parole dei bambini
assomigliano a quelle dei grandi mistici. Si adagiano sulle cose
trasformando le cose in parole. Facendo esistere le cose come cose;
la rosa come la rosa, la pietra come la pietra. Non c’è ancora
l’ansia — che irromperà con l’adolescenza — di cambiare il
mondo, di trasformarlo, ma la visione del mondo come un miracolo che
si ripete sempre nuovo: «Maestra lo sa che oggi la scuola è proprio
bella? Grazie ma è proprio come ieri. Sì ma io ieri non l’avevo
capito», dice una bimba stupita.
Le parole non servono solo a
comunicare. I bambini ci insegnano che le parole servono innanzitutto
a fare esistere le cose. «In bagno — Mi passi il phon? — Quale
phon? — Inventalo no! Non vedi che stiamo giocando!». «Maestra,
vogliono sempre farmi fare il cane... dice Paolo — Ma tu sei un
cane... risponde Giacomo e ride ». «No! Io non sono un cane e mi
sono stufato di fare il cane, anzi adesso il cane lo devono fare un
po’ anche loro, se non non è valido, vero maestra?». «Maestra,
lo sai che mi è venuta un’ape sul mio prosciutto ma io gli ho
detto che se ne voleva ne poteva mangiare un po’ e lei ha mangiato
e poi mi ha fatto zzzz che era un grazie e poi è volata via? Che
bello! Eh sì, adesso quella è una mia amica». Anche la morte non
ha uno statuto separato dalla parola, ma è innanzitutto una parola:
«Maestra, lo sai che io avevo un nonno che prima era vivo e poi è
morto e da quando è morto non l’ha più visto nessuno?».
I
bambini trasfigurano costantemente la realtà perché hanno una
necessità vitale dell’illusione. Non solo di pane vive, infatti,
l’essere umano, ma di parole, segni, gesti, desideri. L’illusione
è come un secondo pane, un altro alimento, un lievito che separa la
vita umana da quella meramente animale. Il bambino si nutre di
fantasia per non restare ustionato dal carattere osceno del reale. La
scoperta del mondo, della vita e della morte, del reale del sesso,
della violenza e dell’amore, deve poter avvenire attraverso il velo
dell’illusione. Altrimenti la luce senza schermi del reale potrebbe
bruciare le fragili pupille dei bambini.
Ce ne ha dato una
immagine indimenticabile Roberto Benigni ne La vita è bella:
l’orrore del campo di sterminio è filtrato dalla parola di un
padre capace di inventare, raccontare, generare una storia dentro la
quale il proprio figlio può trovare riparo dal trauma violento e
illegittimo del reale. Per questo il fondamento del mondo per loro
resta sempre l’amore dei genitori. L’affidabilità dell’Altro —
il suo amore — rende affidabile il mondo. La vita riceve sempre un
senso dall’Altro. Nessuno può farsi da sé il suo nome. «Io so
che non sono nato dalla pancia di mia madre, però sono nato nel suo
cuore, l’ho seguito e lei mi ha trovato».
Anche
l’interrogazione sul mistero del mondo non assume mai le forme
critiche che ritroveremo con lo sviluppo adolescenziale del potere
acuminato del ragionamento astratto. Non c’è astio verso il mondo,
non c’è odio verso l’essere, non c’è rivendicazione
risentita. Il pensiero di Dio non è mai un pensiero fanatico. «Dio
è forte come Star Trek?» chiede un bimbo alla sua maestra. L’umano
non è in competizione con Dio, non lo combatte, non lo sfida
ancora.
Il sapere dei bambini mostra che c’è un limite al
sapere, che non si può sapere tutto il sapere. È il mistero stesso
della loro esistenza fa risuonare questo limite. C’è un
impossibile da sapere che i bambini sanno custodire con cura perché
sanno di essere figli, cioè di non poter bastare a se stessi. Loro
sanno che senza l’Altro sprofonderebbero nella notte più fredda.
Sanno bene che solo l’amore dell’Altro può dare fondamento al
carattere infondato del mondo. Per questo la parola evangelica affida
proprio a loro il destino del Regno.
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