Corrado De Rosa
l'Espresso, 18 novembre 2015
Psicologia del terrorista islamico
La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che i terroristi non
siano “matti”. L’arruolamento predilige gente affidabile, scarta chi dà
segni di squilibrio. Non esistono criteri universali per definire la
psicologia di un terrorista, ma si possono identificare alcune
caratteristiche e meccanismi di pensiero comuni.
Si tratta di giovani, single, astuti e ambiziosi, non sempre provenienti
da famiglie disagiate, spesso di media cultura (come Mohamed Atta, il
terrorista dell’11 settembre), indottrinati nelle scuole che insegnano
il Jihad, con traumi alle spalle come la morte o il ferimento di
familiari, mimetizzati nell’odiata cultura occidentale. Il terrorista è
motivato, disciplinato, tollera lo stress, ha capacità di concentrazione
sull’obiettivo prefissato e forti aspettative di riscatto e crescita
sociale.
Hannah Arendt diceva che l’azione morale nasce dal dialogo interiore, e
che l’assenza di questo dialogo trasforma le persone normali in agenti
del male. L’assenza di dialogo interiore mescolata al bisogno di
sicurezza e identità spiegano, almeno in parte, l’alienazione del
terrorista nel suo gruppo di iniziati. Un gruppo che giustifica tutto in
nome di un ideale più elevato secondo il principio: “Qualsiasi cosa noi
facciamo, voi fate molto peggio”.
L’estremista accetta le responsabilità: le ritiene necessarie, minimizza
la sofferenza delle vittime, disumanizza il nemico, reprime scrupoli
morali e freni inibitori creandosi giustificazioni in cui crede
ciecamente. Ha una fede incondizionata nel Corano che accetta senza
critica: il fondamentalista islamico non pensa, perché i precetti del
Corano pensano per lui. È ossessionato da un’idea, influenzato da figure
carismatiche, non scende a compromessi: ha un’organizzazione di
pensiero fanatica, che si estremizza in chi sceglie di farsi saltare in
aria.
Il commando di Parigi si è mosso secondo strategie pianificate,
incompatibili con disturbi mentali gravi. Il kamikaze esaspera pensieri
che non sono esclusivi di un malato, ad esempio la capacità di
visualizzare il Paradiso. Annulla la sua vita: è certo che quello sia il
sistema più nobile per raggiungere l’aldilà, fede e nazione sono
l’unica strada di salvezza e si immola in loro nome perché li considera
valori più alti della vita stessa. Riconduce il suo suicidio al martirio
per la fede islamica. Per prepararsi all’operazione militare si
concentra sugli aspetti operativi in modo da evitare quelli emotivi,
neutralizza i sentimenti negativi con la dissimulazione.
Psicologia delle vittime
Gli attentati di Parigi hanno conseguenze psicologiche sui familiari
delle vittime, su chi era presente al Bataclan e nelle altre sedi degli
agguati, sulla popolazione generale. Devono creare ansia, paura e
insicurezza, e avranno ripercussioni sull’assetto delle famiglie, sui
contatti sociali, sul senso di appartenenza. Il venerdì 13
dell’Occidente incrina la capacità di fare previsioni, compromette le
certezze sulla possibilità di controllare il mondo esterno, determina
vissuti d’impotenza.
Nonostante la maggior parte delle persone non subisca gravi conseguenze
psicologiche, la popolazione può avere reazioni emotive (rabbia, ansia,
panico, terrore, tristezza, depressione, ecc.), cognitive
(disorientamento, confusione, ridotta capacità di concentrazione, ecc.),
somatiche (insonnia, affaticabilità, cefalea e altri disturbi),
comportamentali (facilità al pianto, reazioni di allarme e altro).
Sono più spesso lievi e transitorie: risposte normali a eventi
straordinari che si riducono in pochi giorni anche senza interventi
specialistici ma che interferiscono con la capacità di fronteggiare il
trauma. Circa 1/3 di chi è direttamente esposto a eventi come quello di
Parigi, però, può sviluppare un disturbo psichiatrico (più spesso dello
spettro dello stress) che, a differenza dei problemi fisici, rimane
generalmente sconosciuto, viene diagnosticato con difficoltà e non è
adeguatamente trattato. Forse i problemi psicologici non saranno
l’aspetto principale da affrontare dopo la strage di Parigi, ma
bisognerà tenerli in grande considerazione per ridurre la percezione di
vulnerabilità e restituire il senso della quotidianità a una civiltà
colpita nella mente.
°°°
Carlo Freccero
Daniela Strumia
Strategia del caos made in Usa
Guerra e media. La strategia è disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza
Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale
Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Ma qualcosa ormai è sfuggita di mano
il manifesto, 18 novembre 2015
... Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo.
Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un
mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti
questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune:
la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime.
E’ normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte
queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili
valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi.
Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la
famosa affermazione di Hillary Clinton: «l’Isis è una nostra creatura
che ci è sfuggita di mano».
Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta
la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni
caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos,
come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga?
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