lunedì 9 marzo 2015

Valentino Parlato, La mia Libia



La mia Libia
Le parate di Italo Balbo viste dal terrazzo di casa, la fuga in campagna dai nonni, la scoperta della politica e infine una nave per l’Italia
Valentino Parlato ricorda il paese dei suoi primi vent’anni “E di quando Gheddafi...”


la Repubblica, 8 marzo 2015


SUL FINIRE di quella notte di novembre del 1951 i poliziotti inglesi entrarono in casa nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io avevo vent’anni. Non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro, buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii che l’auto militare mi portava in direzione del porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera.
All’imbarco, sul piroscafo Celio, trovai Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giovanni e Giuseppe Russo, Bruno Mangani, vecchio anarchico. Quando presi la sua valigia per aiutarlo, il braccio mi volò per aria: dentro c’erano solo due cravatte Lavallière. Quelle degli anarchici.
Ma perché arrestati ed espulsi? In sostanza perché stavamo facendo un buon lavoro politico. Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolando: “Sei persone rimpatriate per attivismo comunista sovversivo”. Il Sunday Ghibli, più spiccio, annunciò: “One way ticket”, biglietto di sola andata.
Avevamo costruito — promotore soprattutto Cibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli, nonché il capo della banda — un sindacato italo-libico con il compagno libico Mohamed Buras che diresse uno straordinario sciopero del porto, il primo in cui italiani e libici parteciparono insieme. Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare anche un corteo piuttosto imponente. Del lavoro sindacale si occupavano in particolare i fratelli Russo e Nino Caruso, che oggi è un protagonista dell’arte della ceramica (proprio in questi giorni espone alla Galleria nazionale d’arte moderna). La diffusione del sindacato, l’infiltrazione del Partito comunista e, cosa forse più importante, l’Associazione per il progresso della Libia che rivendicava una Libia indipendente e democratica, trovarono l’opposizione non solo dell’Autorità militare britannica che occupava il Paese ma anche della comunità italiana che pensava che la Libia dovesse tornare all’Italia. Vale la pena ricordare che quasi contemporaneamente alla nostra cacciata non a caso fu rimandato in Egitto Bashir al Sadawi, che dirigeva il Comitato di liberazione della Libia e con il quale la nostra associazione aveva stretti rapporti.
Ci riunivamo nell’elegante studio notarile di Errico Cibelli. Io ero il più giovane, dovevo distribuire i volantini nelle buche delle cassette postali. Ma partecipavo anche attivamente, con Mario Mazzarino, alla redazione di due giornali successivamente chiusi d’autorità: Il Pinguino e il Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica “Visto da destra e visto da sinistra” — dove ovviamente gli argomenti “visti da destra” erano piuttosto stupidi.
Sono passati più di sessant’anni da allora e sono convinto che questa mia giovanile esperienza libica è quella che mi ha incamminato prima verso il Pci e poi verso il manifesto. Ma non è l’unica ragione per cui provo affetto per questo Paese oggi così drammaticamente devastato — e a mente fredda è difficile negare che l’intervento militare del 2011 abbia prodotto l’attuale disastro. La tragedia cui assistiamo in tv ha la capacità di riaccendere la mia memoria anche sugli anni precedenti quelli del mio impegno politico, gli anni in cui ero ancora soltanto un bambino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da giovanissimi genitori italiani.


Uno dei miei primi ricordi è il giorno in cui Mussolini doveva arrivare a Tripoli per impugnare la “Spada dell’Islam”. Allora era governatore il maresciallo dell’aria Italo Balbo (poi abbattuto dalla contraerea italiana nel cielo di Tobruk). Per l’accoglienza del Duce organizzò serate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli, dromedari. Per noi bambini era una festa. La residenza del governatore, che era vicina a casa nostra, era una specie di palazzo reale con tre cupole e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzose che noi guardavamo dal terrazzo come fossimo al cinema. La domenica, altro avvenimento: la messa ufficiale alla quale Balbo si faceva condurre da una berlina trainata da quattro cavalli. Entrava nella cattedrale sotto la navata centrale e sfilava tra due fila di giovani fascisti che presentavano le armi. Dovevano restare immobili per tutta la durata della messa. Alcuni svenivano, ed erano prontamente allontanati.
L’Italia entrò in guerra nel 1940, e noi tutti della quinta elementare venimmo promossi. Ma insieme con la “promozione di guerra” arrivarono anche le bombe di guerra sganciate dagli aerei inglesi. Mio padre mandò tutta la famiglia — mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe e Anna nella campagna di Sorman, un paesino a sessanta chilometri a ovest di Tripoli e a pochi chilometri da Sabratha, l’antica città romana, tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sul mare. Fu qui che mi trasformai in contadino agli ordini di mio nonno. Lui mi insegnò a curare gli animali, a montare a cavallo, a raccogliere le arachidi. Scopro così che le noccioline americane nascono sotto terra e imparo anche che gli animali hanno una memoria: una volta un cammello al quale avevo appiccato un fuocherello sotto la pancia per farlo alzare, l’indomani mi sferrò un calcio che mi sbatté per terra.
Tutto il lavoro agricolo era fatto da braccianti libici, noi li chiamavamo tutti “arabi”. L’uccisione del maiale e la festa del vino, invece, la facevamo noi. Gli arabi abitavano in capanne di legno, tela e lamiere che si chiamavano zeribe. Io li frequentavo, e con loro imparai anche qualche parola di arabo. Appresi che si dividevano in kabile , le fazioni oggi — credo — protagoniste degli scontri. In campagna frequentai anche i soldati italiani, prima in avanzata e poi in ritirata. Accampati nelle zone vicine venivano da mio nonno per comprare il vino. Si sistemavano sotto gli alberi davanti casa. Ero io che portavo loro il vino e — curioso — mi fermavo ad ascoltarli parlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, e più spesso di donne. Io che avevo tra gli undici e i dodici anni ero tutt’orecchi. Grazie all’esercito mi feci anche una cultura, seppur alquanto stravagante. Quando il campo d’aviazione fu smobilitato il comandante regalò infatti a mio nonno la loro biblioteca. Mi tuffai nella lettura: lessi Tolstoj, Palazzeschi, romanzi d’amore, ma anche dizionari e manuali su come si curavano le malattie veneree.
Con la ritirata arrivarono i tedeschi. Una sera fecero un’esibizione di fuoco antiaereo, poi uno di loro che parlava italiano disse a mio nonno che gli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto. Ovviamente mio nonno accettò. Fu preparata la cena, e mentre eravamo tutti a tavola — c’erano il comandante del reparto, l’ufficiale medico che mi sedusse perché aveva due coniglietti in una gabbietta sull’auto, il sergente Springhorum che parlava italiano — la radio, che avevano portato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò il gelo sulla tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti alzarono i bicchieri e l’indomani all’alba partirono per la Tunisia.
Se i tedeschi se n’erano andati, gli inglesi ancora non si vedevano e mio nonno, preoccupato di essere in balìa dei libici, decise di armarci tutti. Mi insegnò a sparare, ma per fortuna non successe niente: era il ‘43 e per noi la guerra era finita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesi avevano riaperto la pubblica amministrazione e mio padre, che era funzionario, tornò al lavoro. Io invece non tornai a scuola, studiai privatamente, saltai le medie e mi iscrissi direttamente all’unico liceo scientifico di Tripoli. Qui entro nel giro di Cibelli, qui comincio a interessarmi di politica e sempre qui assisto al tragico pogrom del 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di uno stato di Israele, il 4 novembre lasciano partire un ferocissimo pogrom che dura tre giorni, fa 132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delle violenze la polizia e le forze armate inglesi restano consegnate in caserma. Ho ancora il senso di colpa per non aver accompagnato in quei giorni, insieme agli altri studenti italiani, i nostri compagni di scuola ebrei a casa.
Paradossalmente è proprio dal lavoro politico di quei miei primi vent’anni — venni espulso dalla Libia che Gheddafi ne aveva appena nove — che quasi cinquant’anni dopo il Raìs mi invitò a Tripoli. Gli avevo fatto avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della Libia insieme agli articoli sulla mia espulsione. E mentre agli italiani nati in Libia era proibito tornare, Gheddafi non solo mi invitò ma mi concesse anche un’intervista per il manifesto. Lo incontrai altre volte. Era un dittatore, aveva una cultura notevole. Pubblicammo un suo libro di suggestivi e raffinati racconti. Fuga all’Inferno. Non poteva immaginare che la Libia si sarebbe trasformata in un inferno.






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