Massimo Bucciantini
La rivoluzione dei goriziani
Il Sole 24ore, 14 dicembre 2014
«Qui è notte fonda, su un'isola popolata di fantasmi. Barricata su se
stessa, lontana dalla memoria degli uomini». A pronunciare queste parole
non è il capitano Willard di Apocalipse now, né il marinaio Marlow in
Cuore di tenebra. Siamo in Italia, in una piccola città di provincia,
nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ma siamo ugualmente in uno
dei luoghi più tenebrosi della terra e quella che si sta compiendo è una
vera e propria discesa agli inferi.
A scriverle è Franco Basaglia appena giunto a Gorizia. È l'inverno del
1961 quando decide di lasciare il suo posto di assistente all'Università
di Padova – non ci sono cattedre per lui, glielo dicono chiaro e tondo –
e se ne va alla fine del mondo, in un luogo dimenticato e senza futuro,
dove non ci si passa ma «ci si va soltanto se bisogna andarci». Allora
l'Ospedale psichiatrico di Gorizia era «il più periferico, piccolo e
insignificante di tutti i manicomi italiani». Abitato da 600 pazienti,
la metà dei quali non parlava italiano, era come la città diviso in due
dalla cortina di ferro. Il confine tra Italia e Jugoslavia passava
proprio tra le mura, i cancelli, le sbarre, i reparti chiusi a chiave
del manicomio; come dentro ai suoi bellissimi giardini, sempre
silenziosi e deserti, fatta eccezione per la presenza di qualche
internato legato a una panchina o al tronco di un albero.
Quando vi mise piede la prima volta, Basaglia si sentì male. «Ritrovava
l'odore "di morte, di merda", lo assaliva il ricordo dei sei mesi
passati in una prigione fascista a Venezia nel 1944, a vent'anni».
Nessuno, in quegli anni, avrebbe scommesso che in un posto simile
sarebbe nata una rivoluzione, nessuno avrebbe mai immaginato che da lì
sarebbe partita la battaglia contro l'establishment accademico e
politico, tanto da diventare in poco tempo uno dei luoghi più visitati
da giornalisti, amministratori e medici provenienti da ogni parte
d'Italia. E uno dei simboli – insieme all'Ospedale di Trieste – per
l'intera generazione sessantottina.
La storia di Basaglia, chiamiamola così per brevità, è stata raccontata
più volte. Ma questo libro è per molti aspetti diverso da quelli che lo
hanno preceduto. Certo non nasce nel deserto, e fa buon uso di studi
recenti (come Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio,
o Liberi tutti di Valeria Babini), ma ha caratteristiche che lo
contraddistinguono e lo rendono un libro che segna un nuovo inizio. E
ciò dipende non tanto dalle informazioni di prima mano provenienti
dall'archivio della Fondazione Basaglia o da quello della casa editrice
Einaudi, quanto dalla prospettiva con cui l'autore interroga e seleziona
le fonti della sua ricerca.
Provo a dirlo in altro modo. Ci sono libri che aprono e libri che
chiudono. Ecco, questo è un libro che fa parte del primo gruppo. E vi
rientra a pieno titolo perché segna un cambiamento di orizzonte negli
studi sulla nuova psichiatria italiana e scava in profondità più di
quanto tante biografie dedicate al suo capo carismatico sono riuscite a
fare. E vi riesce proprio perché la prospettiva da cui guarda le cose
non è "basagliocentrica". La parola è orrenda, lo ammetto, ma ha il
pregio di farsi capire: se si illumina di troppa luce il protagonista,
il risultato che si ottiene è che il suo cono d'ombra impedisce di
vedere tutto ciò che gli sta attorno. Scrive John Foot: «Soltanto se
distogliamo una parte della nostra attenzione dalla persona di Basaglia
potremo apprezzare davvero la centralità del suo ruolo».
Il libro prende spunto da una foto scattata a Gorizia nel 1967. Attorno a
un tavolo, in una stanza dell'ospedale, Basaglia è ritratto insieme ai
suoi collaboratori durante una riunione di lavoro. Alcuni, come Giovanni
Jervis e Agostino Pirella, sono nomi noti; altri, come Antonio Slavich,
Domenico Casagrande e la psicologa Letizia Comba, la moglie di Jervis,
lo sono molto meno. A questi vanno poi aggiunti i nomi di Lucio
Schittar, Leopoldo Tesi, Giorgio Antonucci e Maria Pia Bombonato. Sono
loro i "goriziani", il nucleo principale della squadra che dal 1961 al
1969 lavorò con entusiasmo e senza un attimo di sosta a fianco di
Basaglia riuscendo a smantellare, anche se solo parzialmente, quel luogo
estremo di segregazione e di annientamento.
Insieme a loro c'era anche Franca Ongaro, la moglie di Franco Basaglia. E
le pagine a lei dedicate ristabiliscono un minimo di verità storica sul
suo contributo a quella esperienza pilota. Nonostante nutrisse
ambizioni letterarie – scrisse fiabe per il «Corriere dei Piccoli» e a
più riprese, fino al 1959, inviò senza fortuna i propri racconti per
l'infanzia alla Einaudi, e in particolare a Italo Calvino – Franca
svolse nel gruppo un ruolo chiave. Oltre a essere traduttrice di testi
fondamentali come Asylums di Erving Goffman e autrice di alcuni articoli
pubblicati in Che cos'è la psichiatria? (1967), Franca fu molto più di
una collaboratrice. «Il disordine istintivo e prorompente delle idee di
Franco veniva messa in riga, e in pagina, da Franca». A tal punto che
Foot sostiene che tutti i loro scritti sono più da attribuire a lei che a
lui. Anche per quanto riguarda il libro più celebre tratto
dall'esperimento scientifico goriziano, L'istituzione negata, fu lei a
occuparsi della raccolta dei testi e a mantenere i rapporti con Giulio
Bollati, dopo che Jervis, apprezzato consulente einaudiano da svariati
anni, aveva spianato la strada tra Gorizia e Torino, troncando così i
contatti che Basaglia aveva stabilito con Enrico Filippini (che, per
inciso, già allora era molto di più di «un dirigente della Feltrinelli»,
pagina 124). Nonostante il frontespizio riportasse la dicitura «a cura
di Franco Basaglia», si trattò di un appassionante e duro lavoro di
squadra, anzi con ogni probabilità il "vero" curatore del libro fu
Giovanni Jervis. Ma, come osserva Foot, «senza Basaglia non ci sarebbe
stata Gorizia. Era la sua creatura, e lui ne era chiaramente il leader».
L'istituzione negata uscì nel marzo del 1968. Al momento giusto. E fu un
bestseller: 12.500 copie vendute in quell'anno, 60mila tra il '68 e il
'72. Fu il libro di un'intera generazione, che fece di Basaglia un
leader indiscusso, e di Gorizia «un riflesso e un motore del Sessantotto
italiano».
Ma Foot indaga anche le zone d'ombra, parlando delle divergenze
politiche e delle rivalità presenti nel gruppo. Affronta il tema del
conflitto sempre più marcato tra Basaglia e Jervis, ma anche quello dei
frequenti disaccordi sulle strategie da seguire con gli amministratori
locali o sul grado di responsabilità da concedere ai pazienti. Proprio
nel momento in cui Gorizia acquistava un rilievo nazionale e diventava,
insieme a un altro luogo sperduto, Barbiana nel Mugello, uno dei simboli
del movimento, la squadra dei "goriziani" si sfaldò. Da un lato i
difficili rapporti con l'amministrazione provinciale, che impediva di
proseguire nello smantellamento del l'ospedale, e dall'altro la sempre
più debole coesione del gruppo, condussero alla frantumazione e alla
dispersione. Il 28 gennaio 1968 Basaglia scriveva allo psichiatra
Maxwell Jones, che stava sperimentando una comunità terapeutica a
Dingleton, in Scozia, la sua intenzione di andarsene: «Anch'io sono in
crisi, (...) sento che il mio lavoro risulta sempre più funzionale
all'attuale sistema politico ed economico che non condivido, e devo
trovare qualche cosa di diverso, altrimenti non vedrò significato nel
farlo». L'anno seguente i coniugi Basaglia lasciano Gorizia per
trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste. Negli stessi mesi se ne
vanno Slavich, Schittar, Jervis e Letizia Comba. Nel frattempo
esperimenti di riforma sono realizzati a Perugia, Varese, Venezia,
Napoli, Nocera Superiore, Parma, Bologna, Reggio Emilia, Padova,
Pistoia. Poi, nel 1971, sarà la volta di Agostino Pirella ad abbandonare
Gorizia per dirigere l'Ospedale psichiatrico di Arezzo – sul colle del
Pionta, attuale Dipartimento di scienze della formazione dell'Università
di Siena – e continuare così l'attività anti-istituzionale appresa a
fianco del maestro.
È stata l'unica vera rivoluzione del '68. E questo libro – oggi, che in
suo nome nessuno più combatte delle battaglie politiche – ha il merito
di farci capire il valore e i limiti di quella rivoluzione. «È il tempo
della tregua storica», per usare le parole dell'autore, che consente di
guardare con occhi disincantati quel pezzo importante di storia
italiana. Un buon viatico da prendere come esempio e da proseguire, per
"aprire" la storia del '68 ad altri e originali punti di vista.
John Foot, La "Repubblica dei matti". Franco Basaglia e la psichiatria
radicale in Italia, 1961-1978, traduzione di Enrico Basaglia,
Feltrinelli, Milano, pagg. 376, € 22,00
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