Il gran ritorno del soldato Švejk
il manifesto, 1 marzo 2015
Pochi scrittori sembrano avere sperimentato una identificazione altrettanto totale con i personaggi che li hanno resi universalmente noti quanto il praghese Jaroslav Hašek, padre di quel «bravo soldato Svejk» elevato nell’immaginario collettivo a incarnazione del fantaccino beffardo e imboscato. Dotato di una vitalità impressionante, che gli ha permesso di essere eletto a presunto simbolo dello spirito nazionale ceco, nonché di troneggiare in tempi recenti dalle insegne di una catena di ristoranti, Svejk ha finito per oscurare il suo stesso autore (tipo peraltro quanto mai eccentrico), fagocitando nella percezione dei lettori tutti gli altri scritti pubblicati prima della sua apparizione.
È sul versante di questa alterità che si posiziona il Meridiano a lui dedicato (Opere, a cura di Annalisa Cosentino, pp. 1568, euro 65,00) che, proponendo il capolavoro di Hašek in una traduzione integrale (cinque anni fa era già uscita quella pregevolissima di Giuseppe Dierna nei Millenni Einaudi) estendendo la prospettiva anche in direzione di quei testi poetici, giornalistici, drammaturgici e narrativi in parte inediti in italiano che rappresentano il variopinto retroterra delle Avventure del bravo soldato Svejk nella Grande guerra. Pagine che non rivoluzioneranno certo il giudizio critico sullo scrittore, ma che hanno il merito di inquadrarne l’opus maius sullo sfondo di una pervicace irrisione del mito dell’Austria Felix, e richiamando alla mente, quanto a radicalismo, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus.
La catastrofe della Grande Guerra, annunciata dalla domestica di Svejk nell’incipit fulminante: «Insomma, hanno ammazzato il nostro Ferdinando», non sarà infatti che il colpo di grazia per «la fatiscente monarchia asburgica» alla quale – in modo più o meno esplicito – Hasek rivolgeva i suoi strali almeno già dal 1910. Tanto da fondare, nella primavera del 1911, un immaginario «Partito del progresso moderato nei limiti della legge», per parodiare nei suoi «comizi» di sedicente candidato al parlamento di Vienna la retorica dei politicanti della Kakania. Già in queste improvvisazioni satiriche, in genere concepite in questa o quella birreria di fronte agli occasionali compagni di bevute, in una sorta di cabaret dada ante litteram, emerge la predilezione di Hašek per la dimensione orale, così come il culto della ciarla, della fanfaronata, dell’aneddoto inverosimile che da lì a qualche decennio saranno elevati a vero e proprio genere letterario da Bohumil Hrabal. Ma anche in precedenza, nei cosiddetti «bozzetti galiziani» e nei reportage di viaggio pubblicati a diciott’anni sul principale quotidiano ceco, «Narodny listy», affiorava la tendenza di Hašek all’affabulazione, nonché quel tono singolarmente ambiguo che caratterizzerà tutte le sue opere, sospese tra situazioni di un realismo quasi desolante e la loro immancabile deformazione grottesca. Basti leggere L’assassino di fronte al tribunale, dove la requisitoria di un pubblico ministero viene inframmezzata in una sorta di flusso di coscienza a quelle che sono le reali preoccupazioni dell’oratore in quel momento, ossia lo spezzatino scadente appena divorato. Oppure La ribellione del detenuto Sejba, in cui la messa celebrata all’interno di un carcere si trasforma in una spassosa prova di nervi tra il chierichetto intenzionato a dimostrare tutto il suo zelo per ricevere una razione in più e il direttore della prigione, che vorrebbe farla finita il prima possibile per andarsene all’osteria.
D’altronde, la capacità virtuosistica di alternare registri stilistici, nonché di indugiare con evidente soddisfazione sulla soglia tra verosimiglianza e parodia, non metterà al riparo Hašek dai tagli della censura imperial-regia, allorché le sue frecciate contro lo Stato, la Chiesa cattolica e l’esercito si faranno troppo evidenti. Incarcerato più volte per la sua vicinanza agli ambienti anarchici, nonché per aver turbato l’ordine pubblico da sobrio e da ubriaco, Hašek sarà richiamato come riservista nel gennaio 1915 e, dopo essersi fatto espellere dalla scuola ufficiali a Ceske Budejovice, finirà prigioniero dei russi nel settembre di quello stesso anno, non prima di essersi consegnato volontariamente al nemico, secondo una prassi non infrequente nelle file dell’esercito asburgico.
Tutte vicende che, seppur trasfigurate, ritroviamo puntualmente nelle Avventure del bravo soldato Svejk, la cui stesura fu interrotta dalla morte dell’autore nel 1923 proprio nel punto in cui Svejk si apprestava a cadere ignominiosamente in mano al nemico.
Non si sa se, qualora avesse avuto la possibilità di continuare, Hašek avrebbe reso il suo eroe partecipe anche degli episodi più picareschi della sua biografia personale, quelli che all’indomani della rivoluzione d’Ottobre lo vedranno schierarsi a favore dei bolscevichi e diventare addirittura aiutante del comandante del soviet militare della sperduta città tatara di Bogul’ma. Di certo, è difficile immaginarsi Svejk in veste di redattore di riviste filo-bolsceviche o responsabile della propaganda – mansioni queste che il suo creatore svolgerà prima a Kiev, poi a Ufa e Irkutsk durante la guerra civile. Tuttavia, la notevole dose di autobiografismo che permea il capolavoro di Hašek non deve far dimenticare che il personaggio di Svejk ha una genesi complessa che risale al periodo prebellico e finanche al 1907, quando lo scrittore, celandosi dietro il nome della sua fidanzata, aveva già pubblicato un racconto (qui tradotto per la prima volta in italiano) centrato sulla figura di un improbabile «bravo soldato svedese» persuaso del fatto che «la più grande delizia dev’essere morire per il proprio sovrano».
Il volume permette di confrontare le varie ipostasi assunte da Svejk nel tempo, dai cinque racconti del ciclo datato 1911 in cui compare già con il suo nome (Il bravo soldato Svejk. Gli interessanti casi di un milite onesto) al romanzo-pamphlet del 1917 titolato Il bravo soldato prigioniero, dove spuntano vari elementi autobiografici e la descrizione del cupio dissolvi che si è impadronito dell’impero asburgico («L’Austria non desiderava altro che diventare inutile») si fa sempre più sferzante.
D’altro canto la proliferazione degli Svejk – ossia la generazione di innumerevoli cloni accomunati da quella «idiozia congenita» che consente loro di mettere a nudo l’assurdità nascosta dietro la retorica patriottarda – non si arresterà neppure dopo la prematura scomparsa di Hašek. Quasi a smentire l’interpretazione «nazionale» che vuole Svejk espressione di un panciafichismo tipicamente ceco, l’anti-soldato di Hašek sarà riletto in chiave pacifista e universale nel 1928 da Erwin Piscator e Bertold Brecht, che lo porteranno in scena a Berlino «mobilitando» nel vero senso della parola le marionette disegnate da Georg Grosz grazie a un tapis roulant.
Ma l’avventura più angosciante vissuta dal «buon soldato» è certamente quella che gli riserverà lo stesso Brecht, quando nel 1943 lo resusciterà nella pièce teatrale Svejk nella seconda guerra mondiale, portandolo fino a Stalingrado camuffato da nazista.
Invariabilmente spiazzante e inafferrabile nel suo candore, Svejk resta ancor oggi dopo più di cent’anni un «classico» della resistenza passiva al male, forse l’incarnazione più riuscita di quel dissenso mimetico che finge di avallare la logica aberrante del potere per meglio demistificarlo. Un aspetto che è stato colto con acutezza da Milan Kundera: «Svejk aderisce così poco agli scopi della guerra che non li contesta neppure. La guerra è spaventosa ma lui non la prende sul serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso».
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