Luis Sepúlveda
Quando sognavamo paradisi socialisti
la Repubblica, 4 marzo 2015
ALL’UNIVERSITÀ dell’Amicizia tra i
Popoli Patrice Lumumba, noi latinoamericani arrivavamo per due motivi: una
borsa di studio vinta nel paese d’origine come militanti delle Juventudes
Comunistas o una borsa di studio ottenuta dai genitori tramite amicizie comuniste
il cui scopo principale era distogliere i figli dall’irresistibile richiamo
rivoluzionario lanciato da Cuba e dalle lotte guerrigliere nelle selve e nelle
città latinoamericane. La maggior parte dei giovani che andavano a Mosca per
studiare in una delle due università, la Lumumba e la Lomonosov, erano figli di
piccolo-borghesi, progressisti o meno e, paradossale o meno, la patria del
socialismo istruiva e proteggeva i piccolo-borghesi di domani.
In ogni modo, i latinoamericani
arrivavano decisi ad approfittare della generosa offerta della patria
sovietica, con il morale comunista altissimo e lo spirito di emulazione ben
radicato nei cuori. Tutti avevano letto il Poema pedagogico di Makarenko ed erano
decisi a raggiungere l’obiettivo d’imparare per servire il popolo.
Quando dico tutti mi riferisco ai
latinoamericani dall’equatore in giù, perché quelli dall’equatore in su,
ragazzi di paesi dal clima caldo, dotati di un’andatura flessuosa e di una grazia
che quelli del Sud finivano per invidiare, la pensavano diversamente. Le
compagne sovietiche erano molto più attratte dalla prospettiva di imparare a
ballare la cumbia, la salsa e il merengue che dai recital di poesia sociale dei
gruppi del Sud. Le compagne sovietiche erano impermeabili alle nostalgiche note
della quena suonata da uno studente boliviano, alla ricchezza sentimentale di
un vals cantato da un peruviano, alle canzoni di Leonardo Favio intonate dagli
argentini, alle milonghe innaffiate di mate che passavano di mano in mano nei
dormitori degli uruguaiani e alle schitarrate lente e malinconiche di qualche
cileno capace di strappare sospiri alle corde. Ma bastava che un dominicano, un
cubano, un colombiano della costa, un venezuelano di Maracay prendesse due
cucchiai e cominciasse a battere il ritmo gridando sabor! perché le sovietiche
ardessero di frenesia tropicale. E che dire dei brasiliani, capaci di creare
musiche insinuanti e seducenti perfino con le sopracciglia se necessario.
Niente di tutto questo sfuggì a
Ramiro, un peruviano purosangue che quando entrò nel parco di ulitsa
Miklukho-Maklaya in cerca del Krest, l’edificio a forma di croce dove gli
studenti si iscrivevano appena arrivati a Mosca ricevendo i primi novanta rubli
in contanti e l’orario delle lezioni accademiche, si propose subito di evitare
quelli dall’equatore in giù, di nascondere il suo talento di virtuoso della
quena, del flauto e altri strumenti andini, e di frequentare i briosi ragazzi
dei Caraibi.
La prima settimana da lumumbero la
dedicò a immatricolarsi al corso intensivo di russo e a girare la città per
conoscere una Mosca quasi autunnale in compagnia di un cubano e di un haitiano
che suscitava stupore e ammirazione per il colore della sua pelle.
«Bisogna trovare il caffè Puskin e
cercare quella Nathalie. Se è andata bene a Gilbert Bécaud, perché non dovrebbe
andare bene a noi...» li incoraggiava Ramiro.
Non entrarono mai nel caffè Puskin,
perché una semplice tazza di tè costava un decimo della borsa di studio, così
si arrangiarono e trovarono un fornitore di vodka casalinga [...].
«Non ci resta altra scelta che
andare a Praga» spiegò Ramiro.
Fra i suoi pochi averi c’era una
cartina dell’Europa e Ramiro aveva tracciato una linea retta da Mosca a Praga.
Non gli interessava Parigi come meta di svago e sollazzo, e non lo seduceva
nemmeno l’idea di appurare se davvero a Parigi pioveva ogni giovedì, come
sosteneva César Vallejo in una poesia. Voleva andare a Praga, perché nella
biblioteca della Universidad San Marcos, a Lima, aveva avuto modo di sentire la
registrazione di un colloquio informale tenutosi agli inizi degli anni Sessanta
fra due grandissimi poeti e un gruppo di studenti: il salvadoregno Roque Dalton
e il peruviano Javier Heraud. Dal nastro che girava, le loro voci
elettrizzavano gli studenti parlando di Praga, il paradiso socialista, il cielo
proletario, il giardino dell’Eden dei rivoluzionari, perché la Costituzione
della Repubblica Socialista della Cecoslovacchia diceva che il peccato non
esisteva e le ragazze di Praga seguivano quel principio assolutamente alla
lettera.
«Fosse anche l’ultima cosa che fate
nella vostra vita, compagni, andate a Praga!» consigliavano i due poeti alla
fine della registrazione.
Il viaggio a Praga era d’obbligo e
Ramiro se l’era ben studiato. La cosa più difficile era procurarsi i permessi
per uscire dall’Unione Sovietica e i visti di Polonia, Repubblica Democratica
Tedesca e Cecoslovacchia. Ma niente è impossibile per un peruviano che si
propone di andare a Praga. Una volta ottenuti i permessi e i visti, si partiva
in treno da Mosca, si cambiava a Minsk, in Bielorussia, si proseguiva fino a
Bialystok, in Polonia, dove si cambiava di nuovo treno e si continuava fino a
Varsavia, da là si raggiungeva Dresda, nella Germania Est, per poi salire
finalmente sull’espresso per Praga. Circa duemila chilometri che si coprivano
in quattro o cinque giorni di viaggio. E cosa sono duemila chilometri per un
sudamericano!
Mentre facevano piani per andare a
Praga bevendo vodka direttamente dalla bottiglia furono interrotti da due
studentesse russe, due angeli biondi con occhi di lapislazzulo che
distribuivano inviti a una festa.
«Non mancate, ci sarà buona musica
perché viene il cileno» disse una.
«Sì, il cileno!» ripeté l’altra.
Una festa e un cileno come anima
della festa. Come si combina una cosa con l’altra? Dov’è il rapporto
dialettico? pensò Ramiro.
«Questa vodka è pericolosa, fa
sentire cose strane» commentò il cubano.
Ma una festa è una festa, così
Ramiro ci andò e conobbe il cileno, un tizio della nomenklatura, non uno della
Lumumba, un vip. [...] Ramiro e il cileno simpatizzarono: mentre bevevano
qualcosa insieme il cileno raccontò che alcune settimane prima della sua
partenza da Santiago uno zio gli aveva lasciato i propri risparmi, in modo che prima
di arrivare a Mosca girasse l’Europa. Quello zio generoso gli aveva spiegato
che era una stupidaggine non visitare Parigi, Roma, Amsterdam, e aveva posto
come unica condizione che non mettesse piede nella Spagna di Franco. A
Francoforte il cileno aveva comprato il giradischi e i dischi. Ad accrescere
l’ammirazione di Ramiro, il suo itinerario pre-moscovita aveva toccato anche
Praga.
«Oh, le ragazze ceche! Non ci sono
parole per descriverle. Non conoscono il peccato, sono sempre innocenti. Ah, le
ragazze ceche!» sospirava il cileno, mentre in Ramiro cresceva la
determinazione di andare a Praga.
© Luis Sepúlveda 2015 By arrangement with
Literarische Agentur Mertin Inh Nicole Wittek Frankfurt Am Main, Germany
©
2015 Ugo Guanda Editore Traduzione di Ilide Carmignani
Giorgio Bocca
Il provinciale. Settant'anni di vita italiana
Feltrinelli, Milano 2007 [1992]
p. 93 Tre giorni dopo le invito di nuovo, andiamo in un altro ristorante della belle époque e, dopo, la contessa mi prega di accompagnarla all'ambasciata dove dormirà perché c'è un pranzo di gala e deve alzarsi prestissimo. La porto all'ambasciata e poi riaccompagno a casa la figlia. La ragazza di burro mi fa entrare nella sua stanza e poi non indugia in alcuna schermaglia, non allude, prepara solo tranquillamente il letto, mette un cuscino di traverso a metà letto, come usa dalle parti mitteleuropee, per rialzare il sedere ed esporre meglio il sesso. E' sola, è triste, non sa cosa l'attende, io sono uno che passa, che non crea problemi. Che altro? Dopo si mette a piangere dolcemente, va nuda con il suo corpo bianco, burroso alla finestra, scosta le tendine, si vede la piazza deserta, il selciato che luccica, il mondo ostile in cui vive, come in una caverna lunare. Non la rivedrò più, in queste cose sono un vile, o cedo all'istinto della conservazione e allora taglio.
Giorgio Bocca
Il provinciale. Settant'anni di vita italiana
Feltrinelli, Milano 2007 [1992]
p. 93 Tre giorni dopo le invito di nuovo, andiamo in un altro ristorante della belle époque e, dopo, la contessa mi prega di accompagnarla all'ambasciata dove dormirà perché c'è un pranzo di gala e deve alzarsi prestissimo. La porto all'ambasciata e poi riaccompagno a casa la figlia. La ragazza di burro mi fa entrare nella sua stanza e poi non indugia in alcuna schermaglia, non allude, prepara solo tranquillamente il letto, mette un cuscino di traverso a metà letto, come usa dalle parti mitteleuropee, per rialzare il sedere ed esporre meglio il sesso. E' sola, è triste, non sa cosa l'attende, io sono uno che passa, che non crea problemi. Che altro? Dopo si mette a piangere dolcemente, va nuda con il suo corpo bianco, burroso alla finestra, scosta le tendine, si vede la piazza deserta, il selciato che luccica, il mondo ostile in cui vive, come in una caverna lunare. Non la rivedrò più, in queste cose sono un vile, o cedo all'istinto della conservazione e allora taglio.
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