Simonetta Fiori
Giovanni De Luna ricostruisce una vicenda ambientata in un castello piemontese per ricordare cosa fu la lotta partigiana
La Resistenza “riabilitata” dal diario di Leletta
la Repubblica, 24 marzo 2015
LA RESISTENZA arrivò nel castello insieme a “Barbato”, il comandante
partigiano che aveva l’abitudine di tracciare per terra una linea.
Pensaci bene prima di superarla, diceva ai più giovani, perché poi non
si torna indietro. Il passo autorevole e i baffi imperiosi gli
procurarono la stanza più bella del Palas, quella con il letto a
baldacchino. I baroni Oreglia d’Isola — un’antica casata di fede
cattolica — erano sideralmente lontani dal mondo comunista, ma non
potevano negare l’accoglienza al più coraggioso dei resistenti, l’uomo
che venti mesi più tardi avrebbe liberato Torino dalle brigate nere.
Un
castello, dunque. Una grande tenuta di boschi, vigne e mulini a mezza
strada tra Saluzzo e Pinerolo, a Villar, all’ombra del Montoso. E una
sontuosa casa patrizia, ricca di libri antichi e di addobbi, pareti
affrescate e ceramiche di pregio. Singolare cornice per l’epica
resistenziale, quasi da sospettare che si tratti di una felice
invenzione per celebrare il settantesimo della Liberazione. E invece è
tutto vero. Sono vere la contessa Caterina e sua sorella Barbara che
soccorrono i partigiani feriti nascondendoli nelle soffitte del maniero,
e talvolta salgono su in montagna per recuperarne i corpi senza vita.
Sono veri i combattenti delle brigate Garibaldi che alternano azioni di
guerra con momenti di conversazione colta nei saloni del Palas. È vero
il repubblichino Novena, con il suo carico di risentimento e inganno
anche dentro le mura del castello. Ma soprattutto è vera la protagonista
Leletta, la diciassettenne figlia della “Barona” e voce narrante della
storia: è attraverso il suo sguardo che vediamo scorrere «la gloriosa
epopea », venti mesi di guerra civile che significarono tragedia e
sangue ma anche una «scuola di vita » per distinguere tra coraggio e
viltà, amicizia e opportunismo, slancio ideale e grettezza.
L’antifascismo
fu una reazione esistenziale prima ancora che una decisione politica
matura. E il diario di Leletta restituisce con semplicità il significato
di una scelta che accomunò aristocratici e comunisti, preti e
mangiapreti, signori e contadini, monarchici e repubblicani. Anche per
questo Giovanni De Luna ha voluto intitolare il suo bel libro La
Resistenza perfetta: il Palas diventa simbolo di una storia che in tutti
i modi si è cercato di delegittimare, ottenendo il risultato di
sporcarne il senso comune soprattutto tra i più giovani.
La
Resistenza come un pranzo di gala, impreziosito dagli argenti di casa
Oreglia? No di certo. Anche dal castello si assiste alle efferatezze
nelle file partigiane, Lucia e Caterina derubate e poi ammazzate su
ordine del “Moretta” solo per un vago sospetto di collaborazionismo. Ma i
dialoghi annotati da Leletta, e i numerosi diari consultati da De Luna,
registrano un rapporto con la violenza che è subìto più che golosamente
ricercato. Il mestiere delle armi, quando esercitato con esuberanza,
suscita sperdimento, non fierezza. Le gesta di “Zama”, io partigiano che
fece in quelle valli la prima vittima fascista, sono accolte con
“orrore reverenziale”. E “Gagno”, audace comandante gappista, resta “di
stucco” quando lo vede uccidere la prima volta. Anche il compagno
“Balestrieri” confessa di provare «una sensazione di pena per me stesso»
mentre mira alla testa del maggiore tedesco: preme il grilletto ma ne è
travolto.
Altro spirito aleggia nelle file avversarie, un surplus di
ferocia che cresce insieme al sentimento di sconfitta, riuscendo a
penetrare tra le mura del castello. È dentro il cortile del Palas che
nel febbraio del 1945 viene selvaggiamente picchiato il garibaldino
“Lampo” per mano del camerata Novena. «Oh signor Novena come sta?», era
stata la disinvolta accoglienza di Leletta quasi all’alba. Erano
arrivati per perquisire la villa, sospettata di complicità con la
Resistenza. E con loro s’erano portati “Lampo”, appena catturato in
montagna. Volevano indurlo a confessare le relazioni pericolose con il
barone e la sua famiglia. «Non sono mai venuto nel castello», si ostina
a negare lui. Pochi giorni dopo viene ammazzato, colpito al volto con
un pugno di ferro, gli occhi estratti dalle orbite. A Novena sono stati
attribuiti 195 omicidi, chissà se li ha commessi tutti. Una volta si
divertì ad armare la mano del figlio tredicenne, «vai, dilettati anche
tu».
Nulla sfugge a Leletta, che riferisce meticolosamente sul suo
diario. Nel 1944 ha la freschezza dei 18 anni, curiosa degli uomini più
delle ideologie. È affascinata da “Barbato”, nome di battaglia di Pompeo
Colajanni, ma più per l’impegno generoso profuso nella battaglia che
per le teorie arruffate. Coglie la differenza tra il suo «quartetto» di
cavalieri rossi e quegli «imboscatucci» degli amici aristocratici, che
invece di combattere cercano riparo nella zona franca dell’Ordine di
Malta. Impara a sparare anche lei, insie- me al fratello Aimaro,
«incauti e contenti». Perché le armi sono una necessità, e non se ne può
fare a meno, ricorda lo storico in polemica con quella sorta di
«interdetto culturale» che oggi incombe sulla lotta armata contro i
tedeschi e i fascisti (i partigiani ingiustamente assimilati ai
terroristi)). Non diventa mai comunista Leletta, né può diventarlo. Però
conserva la stella rossa del suo comandante perché intuisce l’energia
vitale che scorre in quelle fila. «Ah, dottoressa Aurelia, se avessi
vent’anni di meno », scherza il partigiano con galanteria. In realtà ha
solo 38 anni, troppi per quell’epoca.
L’aristocratica e il comunista.
Nel dopoguerra assisteranno al lento disfarsi di quella rete di affetti
e solidarietà intessuta dentro il castello. Ciascuno riprende il suo
posto in un mondo che non ha tagliato completamente i ponti con il
passato. I fascisti tornano in libertà grazie a Togliatti, con
motivazioni spesso raccapriccianti: giocare a calci con la testa del
partigiano appeso viene considerato un “incidente”, non una sevizia
efferata. Anche per Novena solo dieci anni di galera, poi una vita da
benzinaio a Velletri. Colajanni assume importanti incarichi politici
nelle file del Pci, come qualche altro suo compagno di brigata. E
Leletta? Segue la sua vocazione religiosa. Nel 1947 entra in convento
come suor Consolata, poi diventa terziaria domenicana. Per il resto
della sua vita non farà che ascoltare gli altri, come in fondo aveva
fatto dentro il Palas. Muore nel 1993, sei anni dopo “Barbato”. Nel 2012
si è aperta la causa per la sua beatificazione. La beata Leletta che
sapeva usare il parabellum.
IL LIBRO La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna (Feltrinelli, pagg. 256 euro 18)
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