Antonio Gnoli
Dacia Maraini
"Ho vissuto di amori e di successi ora fuggo dal vortice delle passioni"
... Otto anni a Palermo. Alla fine decisi di raggiungere mio padre a Roma, dove viveva in un misero appartamento di piazza Bologna.
Ma suo padre non insegnava?
No, faceva ricerca, scriveva. Ma la cattedra l'avrebbe avuta solo anni dopo, a Firenze. Insomma non ce la passammo bene. I primi soldi cominciai a guadagnarli come segretaria. Poi divenni hostess della Pan Am. Stava cambiando il vento. Il boom economico allontanò definitivamente lo spettro della povertà. Mi sposai con un pittore, Lucio Pozzi. Un matrimonio durato quattro anni. Ero incinta quando Lucio decise di andarsene. E io persi il figlio. Al settimo mese. Crollò il mondo.
Cosa si prova in quelle circostanze?
Si crea un grande vuoto. Pensavo di non avere più scopo nella vita. Mi sentivo inutile. Mi svegliavo la mattina nella spernza che fosse già notte. Fu dura rimettermi. Cominciai a vivere da sola e a scrivere. Scrissi il mio primo romanzo di esordio e lo portai all'editore Lerici. Mi disse: bimba mia, se vuoi che te lo pubblichi, devi procurarti la prefazione di un grande scrittore. Un giorno, in un bar, mi presentarono Alberto Moravia. Gli chiesi timidamente se voleva leggere il mio manoscritto. Gli piacque. Da lì cominciò la nostra lunga storia di tenerezza e amore.
Quanto durò?
All'incirca quindici anni. Quando ci mettemmo insieme era già separato da Elsa Morante che in quel momento viveva una passione travolgente per Luchino Visconti. Era attratta dall'ambiguità sessuale. Nonostante ciò, non volle mai divorziare da Moravia.
Non era una donna semplice.
No, non lo era. La mia conoscenza di lei cincise in parte con il dramma della morte di Bill Morrow. Un artista che Elsa conobbe alla fine degli anni Cinquanta e di cui si innamorò disperatamente. Bill si gettò da un grattacielo di New York. Forse era drogato. Non si seppe mai se volle suicidarsi o se pensava di poter volare. Era il 1962. Appresi della sua fine una sera. Insieme ad Alberto c'era Pier Paolo.
Intende Pasolini?
Sì, con Alberto erano molto amici. Ci vedevamo spessissimo. Cene, discussioni, viaggi.
C'erano differenze importanti tra Moravia e Pasolini?
Alberto era cartesiano, mentre Pier Paolo era a suo modo un sensitivo, credeva nell'intuito. Aveva spesso un tono profetico. In comune c'era uno sguardo profetico sulla società italiana. Tra l'altro, le cose che Pasolini avrebbe sostenuto - la mercificazione e l'omologazione dell'individuo - Moravia le aveva scritte molto prima nel saggio L'uomo come fine che uscì nel 1946.
... Moravia cosa pensava di sé scrittore?
Non aveva nessuna sicurezza e non si mai sentito superiore agli altri. Era come se ogni volta ricominciasse da capo.
In che senso?
Odiava ripetere certe formule narrative. Per uno che aveva fatto un esordio folgorante con Gli indifferenti poteva apparire come comodo ripeterne gli schemi e le tematiche. Lui non l'ha fatto. Ha sempre camminato su un campo minato.
... Era curioso di tutto e di tutti. Disponibile alla vita. Meno alla letteratura.
La giudicava un territorio privatissimo?
Forse. Ricordo che quando a Parigi incontravamo Calvino, Sciascia, Ripellino erano cene bellissime. Si chiacchierava di tutto. Ma i romanzi restavano quasi sempre fuori dalla porta di casa. Alberto parlava un francese perfetto. Certe sere vedevamo Michel Butor e Marguerite Duras. E tutta l'attenzione della conversazione era per il mondo e le cose che vi accadevano.
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