martedì 29 dicembre 2015

Lo Zar sono io

 « Le Tsar, c’est moi. L’imposture permanente », de Claudio Ingerflom

Vladimir Poutine a-t-il pris la relève des « faux tsars » qui ont peuplé l’histoire russe des derniers siècles ? Dans ce livre époustouflant, Claudio Ingerflom s’intéresse au phénomène dit « de l’autonomination » : entre le XVIIe et le XXe siècle, des nobles, des moines ou même de simples villageois ont proclamé qu’ils étaient le véritable tsar, fustigeant donc « l’imposteur » qui régnait à leur place. Ces « faux » tsars ont parfois entraîné derrière eux de vastes mouvements populaires. De même, après la révolution de 1917, la Russie vit proliférer les faux « Lénine » ou les faux « Trotski »… Or, comme le montre l’auteur, on aurait tort de prendre ce phénomène à la légère. En l’étudiant de près, on comprend qu’il touche à quelque chose de très profond dans le fonctionnement et la nature du pouvoir, non seulement en Russie, mais bien au-delà. Pierre Karila-Cohen

Le Tsar, c’est moi. L’imposture permanente, d’Ivan le terrible à Vladimir Poutine, de Claudio Sergio Ingerflom, PUF, 520 p., 29 €.

Per saperne di più http://www.lemonde.fr/livres/article/2015/12/17/un-thriller-de-jo-nesbo-de-faux-tsars-la-jeunesse-du-roi-soleil-trois-livres-avant-noel_4833457_3260.html#567KfZCtuMOzLdXc.99

Le citazioni false



Claudio Magris
Il rischio della citazione
Corriere della Sera, 17 dicembre 2015














I Balcani, ha detto Churchill, producono più storia di quanta ne possano digerire. Un bell’inizio per un articolo. Poche cose come una citazione aiutano a cominciare uno scritto o comunque a rafforzarlo. La citazione è una specie di chiave musicale, dà un’intonazione al discorso e conferisce autorità a quanto si scrive e alle tesi che si sostengono. Inoltre è una sintesi che semplifica ed esprime con chiarezza le idee che vengono espresse. È anche rischiosa, perché spesso viene tirata in ballo senza controllarla, risuona nella mente e nella memoria con una sicurezza che esime dallo scrupolo di verificarne l’esattezza; nessuno va a rileggersi Giulio Cesare per accertarsi che egli abbia detto esattamente «veni, vidi, vici». I giornali e ancor più i dibattiti pubblici, con la fretta che impongono all’espressione delle opinioni, accentuano il ricorso alla citazione incisiva. Quando si discute, non si può consultare l’enciclopedia. Sotto questo profilo, la citazione è l’opposto del plagio: si cita senza talora copiare alla lettera, mentre nel plagio si copia senza citare l’autore del testo rubato e anzi attribuendosi la paternità di quest’ultimo.
Ma la citazione si presta all’inconsapevole falsificazione. La paternità di molte delle più famose fra esse è data per scontata, ma spesso è falsa. Voltaire non ha mai detto «non condivido quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo». Questa frase è certo fedele al pensiero di Voltaire, ma a dirla o meglio a scriverla è stata Evelyn Beatrice Hall, scrittrice britannica e autrice di una biografia del filosofo del 1906 intitolata Gli Amici di Voltaire. Non è stato Goebbels a dire «quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia Browning», bensì, in un suo testo teatrale, Hanns Johst, drammaturgo tedesco nazista. Maria Antonietta non ha mai detto «se non hanno pane mangino brioche». La frase è sicuramente precedente perché già nota ai tempi di Jean Jacques Rousseau, epoca in cui l’arciduchessa austriaca non era ancora nata. L’aneddoto da cui è tratta la frase è contenuto nel libro VI delle sue Confessioni, pubblicate peraltro postume. Machiavelli non ha mai detto esplicitamente «Il fine giustifica i mezzi», parole che certo riflettono il suo pensiero ma da lui mai proferite.
Gli esempi potrebbero continuare. A elencarmeli, non senza qualche rimprovero per alcuni miei cedimenti in questo campo, è Adriano Ausilio, accanito cacciatore di bufale d’ogni genere e implacabile soprattutto con le attribuzioni inesatte di frasi celebri. Di formazione giuridica, Ausilio è un appassionato lettore e studioso di filosofia, in particolare del pensiero di Augusto Del Noce, il geniale filosofo cattolico di cui ho avuto la fortuna di essere amico, grande critico dell’ateismo e della società opulenta, avversario inesorabile e affascinato del marxismo. Perché, gli chiedo, tale ostinata caccia proprio a questo tipo di errore? «Perché — risponde — con l’avvento di Internet e dei media sociali si è diffusa una nuova tendenza. L’uso incontrollato della citazione. Si prendono per buoni passi o frasi famose solo perché li si è letti da qualche parte o per sentito dire, senza preoccuparsi di controllare se provengano effettivamente da una fonte veritiera. La Rete è piena di siti che contengono sillogi di citazioni storiche e letterarie. Ed è lì che si annida l’errore, perché le citazioni non provengono più da una conoscenza diretta dei testi, bensì da raccolte compilatorie non molto affidabili. Del resto già Hegel diceva che “il noto in genere, proprio perché noto, non è conosciuto”. A Lei è mai capitato di incorrere in errori del genere?». Non ricordo, gli dico, crederei di no; ho fatto altri, per fortuna piccoli ma errori veri e propri e dunque più gravi, come quando ho citato un verso di Shelley attribuendolo a Tennyson o quando ho confuso, penso anche causa la grafia del nome, una cittadina russa con un’altra, dov’erano accaduti rilevanti fatti storici.
Intelligente, generoso e amabile, Ausilio rischia di contagiare, grazie alla simpatia e al suo modo di essere e di parlare, il suo interlocutore e di lanciarlo come un cane da caccia sulle piste degli errori e delle imprecisioni. Non si rischia tuttavia, gli chiedo, di cadere in una mania della precisione, in un gusto di cogliere tutti in fallo, sia pure minimale? Anche la verità può diventare un fanatismo, scadere in un formalismo che perde di vista la sostanza, dato che quelle citazioni sbagliate non falsificano il pensiero dell’autore citato bensì ne ribadiscono l’essenziale? (Voltaire era un campione della tolleranza, la pistola di Johst messa in mano a Goebbels corrisponde all’atteggiamento nazista verso la cultura). Inoltre c’è il peso, l’autorità della storia che ha fatto entrare magari da secoli nella testa delle persone l’identificazione di una frase famosa con un autore sia pure sbagliato. Naturalmente se si trattasse di uno sbaglio che adultera un’opera o un autore, ad esempio una falsa citazione dei Vangeli che attribuisse a Cristo un’espressione malvagia, sarebbe doveroso smascherarla anche dopo millenni, cosa non necessaria se la bufala non altera la sostanza. Il peso della storia è così forte, che si continua ad attribuire una frase a chi non l’ha detta anche quando il presunto autore lo ha dichiarato lui stesso: la famosa, grande espressione «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà», non è di Gramsci, come tutti ripetiamo, bensì di Romain Rolland ed è stato Gramsci stesso a precisarlo. Ma ormai è entrata nel mondo come frase di Gramsci e tutti lo ripetono, anche chi sa — grazie a Gramsci — che è di Rolland...
«Concordo con Lei — replica Ausilio — che ogni eccesso debba essere evitato. Se, per esempio, dopo una partita a carte, qualcuno dicesse “l’importante non è vincere ma partecipare” per consolare i perdenti, mi sembrerebbe inopportuno chiedergli chi ne sia l’autore per poi correggerlo. Ma, al contrario, riterrei doveroso intervenire nel caso di un uso strumentale della citazione. Chi non ricorda la celebre frase “eppur si muove”, attribuita a Galileo Galilei che volle così rispondere, ci viene detto, alla condanna dei giudici dell’Inquisizione per le sue scoperte scientifiche? Quella frase mai pronunciata da Galileo fu inventata, come ormai è risaputo, dallo scrittore italiano Giuseppe Baretti nel 1757, con lo scopo di creare il mito di una Chiesa oscurantista e incapace di aprirsi alle nuove scoperte scientifiche».
A proposito, gli dico alla fine della nostra chiacchierata, ho appreso di recente da Pierre Assouline, autorevole scrittore e biografo francese, che Flaubert non ha mai detto «madame Bovary c’est moi, madame Bovary sono io». Spero che sia stato veramente Churchill a dire quelle parole sui Balcani...

domenica 27 dicembre 2015

La ricerca del senso

Romano Màdera
La filosofia come stile di vita
Bruno Mondadori, Milano 2003
















La filosofia è sempre stata un modo di vivere, quel modo di vivere che riceveva la sua impronta dall'amore per la sapienza.
Eppure, se oggi chiedessimo alla maggior parte dei filosofi in che cosa consista il loro particolare stile di vita, ci accorgeremmo che esso tende a coincidere con quello dei professori: la filosofia, come modo di vivere, è diventata il modo di vivere dei professori che si occupano di filosofia. Se questa è la pratica filosofica essa si riduce all'esercizio dello studio, della scrittura e dell'insegnamento dei risultati di tale studio. Nella maggior parte dei casi non viene neppure percepito il problema della riducibilità, o dell'irriducibilità, della figura del filosofo a quella di un mestiere. Tuttavia, amare la sapienza non può essere un mestiere particolare: questa vocazione può toccare tutti, indipendentemente dal lavoro svolto e dal ruolo ricoperto nella società. Anche i personaggi dei libri di storia della filosofia sono stati insegnanti di filosofia solo in epoche determinate, soprattutto nella modernità, e pur sempre con vistose eccezioni. Questa semplice verità, provata da numerosissimi esempi, leggendari e biografici (da Talete a Socrate, Diogene, Epicuro, Marco Aurelio, Avicenna, Bruno, Spinoza, Kierkegaard, Marx, Wittgenstein), è stata oscurata per decenni dall'identificazione tra filosofia e insegnante di filosofia. Benché libera, la vocazione filosofica è stata, nella maggior parte dei casi, vincolata per secoli alle modalità previste dalle legislazioni degli stati per insegnare qualsiasi altra "materia scolastica".
Oggi l'insegnamento della filosofia nelle scuole è una possibilità occupazionale assai ridotta, e questa incertezza sugli "sbocchi professionali" può diventare un'occasione per riproporre una domanda cruciale per ogni epoca; quali possono essere le forme della filosofia in quanto pratica della filosofia? Una pratica unita a un discorso filosofico, ma non riducibile a esso?
Studiare, insegnare e scrivere devono certamente continuare a riguardare la filosofia come arte dell'inesauribile domandare ragione di ogni conoscenza in ogni campo della conoscenza. Amare la sapienza significa prima di tutto sentirsi spinti a oltrepassare ogni risposta che trova acquietamento in una sua bastante funzionalità. La sapienza chiede a volte l'inutile, il sapere per il sapere, per la bellezza e il tormento della sua stessa impresa. Ma la sapienza non è senza mondo: il suo desiderio nasce nelle passioni, nei comportamenti, nelle tecniche, nelle scienze e nelle arti del mondo. La storia della filosofia non può quindi autoriferirsi alla storia della sola filosofia senza esaurire l'humus dal quale nasce. Ogni volta essa riprende vigore dalle domande del mondo, dalle circostanze della storia di una particolare comunità umana, dalla vita quotidiana di singoli individui. Credo che nel nostro mondo la filosofia si debba rinnovare ma che, per rinnovarsi, debba uscire dalle limitazioni di una pratica solo professorale e reimmergersi nella sua più ampia vocazione di ricerca della via alla sapienza. Pretesa apparentemente risibile, sommersi come siamo da ingestibili quantità di informazioni e infinite offerte di formazione. Ancor peggio, pretesa anacronistica per rilevanti settori di specialisti che ritengono ormai proponibile solo una filosofia nei limiti della storia della filosofia, e assurda per una diversa e significativa parte della comunità filosofica, potremmo dire di derivazione quiniana, che assegna alla filosofia il compito di essere scienza fra le scienze, dedita ai problemi di tipo generalistico che attraversano diversi campi scientifici. Dunque la filosofia come viene concepita e proposta in questo scritto rappresenta un diverso modo di praticarla, che intende rinnovarla ritornando alla sua vocazione originaria, per aprire un sentiero di saggezza che accolga le domande di senso della nostra epoca.
Secondo questa scelta, praticare la filosofia significa mettersi alla scuola della domanda sul senso e del senso del tutto. Sentendo questa domanda come un intenso desiderio. Niente di meno, e niente di più lontano dalla mentalità maggioritaria di un'epoca prostrata dalle delusioni dei miti del moderno che, a loro volta, avevano relegato nei musei dello spirito i miti religiosi. Ma è esattamente la combinazione fra il debito con ciò che il tempo pare aver abbandonato e il profluvio di offerte per rimediare a un'angosciosa domanda di senso che chiede una svolta. Non possiamo sottrarci, anche se il compito appare disperato, perché la domanda di senso sembra, già nel suo porsi, sapersi destinata all'elusione: infinite e reciprocamente relativizzabili le risposte, e presumibilmente ininfluenti. 

http://www.platon.it/Consulenza/elaborati/Filosofia%20come%20stile%20di%20vita.pdf

sabato 26 dicembre 2015

Decalogo natalizio



 Hamilton Santià
PRANZO DI NATALE, ISTRUZIONI PER L’USO

(1) Informazione preliminare. L’intestino umano è lungo 7 metri. Quindi fate i vostri calcoli.
(2) Trovatevi una scusa intelligente per giustificare il fatto di aver dormito 2 ore questa notte. No, dire che aspettavate Babbo Natale non è più credibile da almeno venticinque anni.
(3) Non abbuffatevi agli antipasti. Se siete piemontesi ormai dovreste aver capito come funziona.
(4) Le prove di forza tra voi e la vostra famiglia non si traducono nei bicchieri di vino ingollati. Inoltre, tendenzialmente, siete sbronzi già da un paio di giorni. Ricordatevi che per vostra nonna siete ancora una persona rispettabile.
(5) No, quello non è il ‘sorbetto per far andare giù’ le prime portate. È il Vov. Tutti hanno uno zio burlone.
(6) No, a nessuno interessa parlare degli ultimi romanzi che avete letto e dell’ultimo film di Woody Allen. In compenso, vi chiederanno se avete già visto ‘Star Wars’. Voi limitatevi a dire: «Figo» e andrà tutto bene. Soprattutto per voi.
(7) Quello che adesso vi sembra un maglione di cattivo gusto, fra cinque anni sarà un maglione da hipster. Ringraziate e sorridete tantissimo pensando ai like su Facebook.
(8) When in trouble, buttatela sul calcio (suggerimento: Jose Mourinho è stato appena licenziato).
(9) La tombola e rubamazzo non sono dei surrogati palliativi per risolvere i conflitti irrisolti tra i vostri genitori, i vostri zii, i vostri nonni e i vostri cugini. Tuttavia, il ruolo di ‘ragionevole ambasciatore’ vi procurerebbe solo più danni che altro: fingetevi morti.
(10) Il più importante: NON INTRODURRE IL DISCORSO POLITICA. Per NESSUNA ragione al mondo.

Buon Natale e che la Forza sia con voi.

venerdì 25 dicembre 2015

Sartre alle prese con il Natale


Jean-Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti

Racconto scritto e rappresentato da Sartre nel Natale del 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri. La storia ruota intorno alla figura di Bariona, capo di un villaggio vicino a Betlemme, ed è ambientata nell'epoca in cui la Giudea era oppressa dai Romani e vessata da continue richieste di tributi. Il testo si offre al lettore come l'immagine di un'esperienza religiosa che raggiunge il suo apice nella descrizione del rapporto di intimità che lega la Madonna al Bambino, e nel contempo come esperienza politica che, nella chiara allusione alla Francia occupata dai nazisti, vuole creare aggregazione e solidarietà tra i prigionieri, credenti e non credenti, e sollecitarli alla resistenza contro gli invasori. 



Massimo Borghesi
Sartre e il Natale di Gesù
30Giorni,  12, 2003


... Nell’opera compare però la figura del re magio Baldassarre, impersonata sulla scena proprio da Sartre, improvvisatosi attore. Baldassarre rappresenta il momento nuovo che interviene nella visione sartriana, il momento della speranza: «è vero siamo molto vecchi e molto sapienti e conosciamo tutto il male della terra. Pertanto quando abbiamo visto questa stella nel cielo, i nostri cuori hanno gioito come quelli dei bambini e siamo diventati bambini e ci siamo messi in cammino, poiché volevamo compiere il nostro dovere di uomini che sperano. Chi perde la speranza, Bariona, sarà cacciato dal suo villaggio […]. Ma a chi spera, tutto gli sorride e il mondo è dato come un regalo».
La speranza di Baldassarre è la speranza di Sara. Anch’ella vuole andare a Betlemme: «Laggiù c’è una donna felice e soddisfatta, una madre che ha partorito per tutte le madri, ed è come un permesso che mi ha donato: il permesso di mettere al mondo il mio bambino. Voglio vederla, vederla, questa madre felice e sacra».
Il proposito della moglie non fa recedere Bariona. Saputo da una specie di veggente il destino di morte del Messia crocifisso, matura in lui il proposito di uccidere il bambino per il bene del suo popolo, per «conservare in essi la fiamma pura della rivolta». Giunto a Betlemme, davanti alla stalla, Bariona sorprende Maria di spalle, non vede Gesù in braccio alla madre, vede solo Giuseppe. «Ma vedo l’uomo. È vero: come lo guarda! Con quali occhi! Che cosa può avere dietro quei due occhi chiari, chiari come due limpide profondità in questo viso dolce e segnato? Quale speranza? […] Per trovare il coraggio di spegnere questa giovane vita tra le mie dita, non avrei dovuto scorgerlo dapprima in fondo agli occhi di suo padre. Andiamo, sono vinto». Lo sguardo di Giuseppe posato su Gesù ferma la mano omicida di Bariona il quale non può impedirsi di invidiare la felicità stupita della folla accorsa ad adorare il bambino. Una felicità illusoria, dal suo punto di vista, e tuttavia evidente: «Hanno unito le mani e pensano: qualcosa è incominciato. E si sbagliano, s’intende, e sono caduti in una trappola e pagheranno ciò caro più tardi; ma cionondimeno, avranno avuto questo minuto; hanno fortuna di poter credere a un inizio. Che cosa c’è di più commovente per un cuore d’uomo che l’inizio di un mondo e la giovinezza dai tratti ambigui e l’inizio di un amore, quando tutto è ancora possibile, quando il sole è presente nell’aria e sui visi […]. E io sono nella grande notte terrestre, nella notte tropicale dell’odio e della disgrazia. Ma – potenza ingannevole della fede – per i miei uomini, migliaia d’anni dopo la creazione, si alza in questa stanza, al chiarore di una candela, il primo mattino del mondo».

mercoledì 23 dicembre 2015

Cartier-Bresson, Donne

Marie-Claude Vaillant-Couturier superstite di Auschwitz, la processione di San Innocenzo a Grassano, la naturalezza invidiabile di una giovane in minigonna, due giovani dame in conversazione a Mosca, le sbarre superate dalle braccia di una compagna a Lahore

Marie-Claude Vaillant-Couturier (1945)
 
Processione di San Innocenzo a Grassano (1973)
1c827-108fix4
Mosca 1955

Lahore 1948



martedì 22 dicembre 2015

Podemos e i 5 Stelle



Angela Azzaro 
Podemos in Italia si chiama 5 Stelle


Podemos non è Syriza, ma soprattutto non è la Sinistra italiana. Podemos in Italia c'è già e si chiama Movimento cinque stelle. Podemos è il M5s non tanto nei contenuti quanto nell'elemento dirimente e vincente: essere l'anti casta, l'anti sistema. Sinistra italiana nasce, con tutte le buone intenzioni, dentro il sistema. Più che Podemos è Izquierda Unida che ha preso due seggi. Mi chiedo allora se abbia senso, stando così le cose, tentare di costruire in Italia un quarto polo con queste caratteristiche. Non lo dico con cattiveria ma come domanda vera che mi pongo e anche con una certa preoccupazione.

Simone Lorenzati 
L'apparenza inganna


Su Sinistra Italiana concordo con te. Sulla somiglianza tra Podemos e 5 stelle meno. Hanno in comune la polemica anti-casta e l'utilizzo della rete ma le similitudini si fermano qui. La dirigenza di Podemos è fatta da insegnanti universitari di scienze politiche e dintorni, non certo il dilettantismo e l'ignoranza che più di una volta i pentastellati hanno dimostrato. Podemos arriva dal movimento degli indignados, non si definisce di sinistra ma lo è palesemente. E una politica sull'immigrazione come quella che vorrebbero i grillini è lontana anni luce da quella di Iglesias e i suoi. Ciò detto Italia e Spagna sono molto differenti. E vedremo come proseguirà il tutto.

Jacopo Iacoboni
La Sinistra italiana e il sogno (impossibile) di un Podemos
Il risultato di Podemos suscita entusiasmi nella Sinistra italiana, ma i due casi sono abissalmente lontani
Il Movimento non c’è. E il campo è parzialmente occupato dal M5S


La Stampa 22 dicembre 2015

... Il terzo punto, sostanziale, è che Podemos «nasce da un movimento sociale, generazionale, che affonda le radici nel fenomeno degli indignati. Lì c’è un movimento. In Italia, semplicemente, questo movimento non c’è», constata non senza amarezza Airaudo, che pure vorrebbe provare a costruire qualcosa di analogo partendo da Torino. Forse, si potrebbe aggiungere, l’ultima cosa assimilabile a un movimento, nella sinistra italiana, è stata l’esperienza milanese della primavera arancione di Pisapia: che però non ha prodotto una rete nazionale e un’esperienza generativa a sinistra, e probabilmente, almeno in parte - nel 2013 ha finito per avere zone di tangenza col successo elettorale del Movimento cinque stelle. M5S che però è diversissimo, rispetto a Podemos (i due soggetti hanno anche reciprocamente preso le distanze), almeno perché ha due forti elementi di verticismo: l’azienda che comanda (la Casaleggio) e il leader che ne determina il successo iniziale (Grillo).
Sostiene Enrico Rossi che l’insegnamento di Podemos (anche al Pd) è che bisogna stare «alla larga dalle grandi intese e dal partito della nazione, e invece guardare di più a sinistra, ai ceti deboli della società». Ma cosa vuol dire «guardare più a sinistra?». Podemos non partirebbe mai da cotesta genericità, intanto perché ha una notevole componente anche interclassista, pur declinandola a sinistra, e poi perché nasce in maniera concreta, dalle pratiche, non da un proclama. È il quarto elemento: la pratica principale originaria è stata il movimento di lotta per la difesa della casa dalle banche. Podemos nasce dai movimenti che proteggono gli affittuari (ma anche i proprietari di case) non più in grado di pagare affitti o mutui bancari. In questo senso è una prassi, quasi ignota oggi alla sinistra italiana, che è, e resta, un’operazione per lo più politicista, o una fuoruscita dal Pd. Con eccezioni, per esempio la Fiom. Maurizio Landini ha scritto la prefazione italiana al libro di Iglesias, e è ormai convinto che «bisogna andare oltre molti schemi tradizionali, cosa che Podemos fa. Iglesias si dice socialdemocratico, il problema è che ormai in Europa appare estremista anche essere socialdemocratici». In più, per Landini, «in Italia c’è il problema che una fetta di campo è ormai occupata dal M5S, che prima non c’era; e dobbiamo trovare il modo di farci i conti». 

lunedì 21 dicembre 2015

Fedra, l'amore per Ippolito

Jean Racine
Phèdre I, 3 (1677)
Sarah Bernhardt nel ruolo di Fedra (1874)

      
Mon mal vient de plus loin. À peine au fils d'Égée,
Sous les lois de l'Hymen je m'étais engagée,
Mon repos, mon bonheur semblait être affermi,
Athènes me montra mon superbe Ennemi.
Je le vis, je rougis, je pâlis à sa vue.
Un trouble s'éleva dans mon âme éperdue.
Mes yeux ne voyaient plus, je ne pouvais parler,
Je sentis tout mon corps, et transir et brûler.
Je reconnus Vénus et ses feux redoutables,
D'un sang qu'elle poursuit tourments inévitables.
Par des vœux assidus je crus les détourner,
Je lui bâtis un Temple, et pris soin de l'orner.
De victimes moi-même à toute heure entourée,
Je cherchais dans leurs flancs ma raison égarée.
D'un incurable amour remèdes impuissants !
En vain sur les Autels ma main brûlait l'encens,
Quand ma bouche implorait le nom de la Déesse,
J'adorais Hippolyte, et le voyant sans cesse,
Même au pied des Autels que je faisais fumer,
J'offrais tout à ce Dieu, que je n'osais nommer.
Je l'évitais partout. Ô comble de misère !
Mes yeux le retrouvaient dans les traits de son Père.
Contre moi-même enfin j'osai me révolter.
J'excitai mon courage à le persécuter.
Pour bannir l'Ennemi dont j'étais idolâtre,
J'affectai les chagrins d'une injuste marâtre.
Je pressai son exil, et mes cris éternels
L'arrachèrent du sein, et des bras paternels.
Je respirais, Œnone. Et depuis son absence
Mes jours moins agités coulaient dans l'innocence.
Soumise à mon Époux, et cachant mes ennuis,
De son fatal hymen je cultivais les fruits.
Vaines précautions ! Cruelle destinée !
Par mon époux lui-même à Trézène amenée
J'ai revu l'Ennemi que j'avais éloigné.
Ma blessure trop vive aussitôt a saigné.
Ce n'est plus une ardeur dans mes veines cachée,
C'est Vénus toute entière à sa proie attachée.
J'ai conçu pour mon crime une juste terreur.
J'ai pris la vie en haine, et ma flamme en horreur.
Je voulais en mourant prendre soin de ma gloire,
Et dérober au jour une flamme si noire.
Je n'ai pu soutenir tes larmes, tes combats.
Je t'ai tout avoué, je ne m'en repens pas,
Pourvu que de ma mort respectant les approches
Tu ne m'affliges plus par d'injustes reproches,
Et que tes vains secours cessent de rappeler
Un reste de chaleur, tout prêt à s'exhaler.

°°°
            Ancor più remoto è il mio male. Appena al figlio di Egeo
            avevo donato la fede sotto la legge di imene:
            la mia pace sembrava ormai felice e sicura,
            ed ecco Atene mostrarmi il mio superbo nemico.
            Lo vidi, mi feci di fiamma, fui tutta pallore al vederlo,
            tutto insania divenne l’animo mio smarrito:
            mi cadde un velo sugli occhi, non potevo parlare,
            sentivo il mio corpo a un tempo rabbrividire e bruciare:
            era Venere quella, coi suoi terribili fuochi,
            inevitabile pena di un sangue su cui si accanisce.
            Cercai di stornarli da me porgendo voti su voti,
            eressi un tempio alla dea, e con zelo l’ornai;
            e circondata io stessa di vittime, in ogni momento,
            cercavo nel loro fianco la mia ragione smarrita.
            Tutti vani rimedi di una passione incurabile!
            Invano sugli altari facevo bruciare gli incensi:
            quando il mio labbro implorando chiamava per nome la dea,
            Ippolito solo adoravo; sempre mi era dinanzi,
            e, pur prostrata al piede degli altari fumanti,
            tutto offrivo a quel dio che non osavo nomare,
            cercavo ognora evitarlo. Oh, miserabile sorte!
            Trovavo ancora il suo volto nei lineamenti del padre.
            Contro me stessa, infine, osai esser ribelle:
            volsi a perseguitarlo tutto il mio coraggio.
            Per bandire il nemico che ormai idolatravo,
            volli ostentare i rancori di un’ingiusta matrigna;
            volli a ogni costo il suo esilio, ed i miei eterni lamenti
            lo strapparono al seno e alle braccia del padre.
            Potevo ormai respirare, Enone. Lungi da lui,
            trassi nell’innocenza giorni meno agitati.
            Sommessa al mio sposo, e celando il mio segreto tormento,
            in me maturavo il frutto di quelle nozze fatali.
            Tutte inutili astuzie contro il destino crudele!
            Dallo stesso mio sposo ero condotta a Trezene,
            e là rivedevo il nemico che avevo distolto da me.
            La mia ferita, ancor troppo viva, versò nuovo sangue;
            ormai non è più un ardore celato nelle mie vene:
            Venere tutta intera si attacca alla sua preda!
            Allora il mio delitto mi colmò di spavento;
            presi in odio la vita, ebbi in orrore il mio fuoco.
            Volevo almeno, morendo, serbare alto il mio nome,
            celare alla luce del giorno questa mia nera fiamma:
            non ho saputo respingere le tue preghiere e il tuo pianto,
            ti ho confessato tutto; ed ora non me ne pento,
            solo che tu rispetti la morte che a me si avvicina,
            e, senza più turbarmi con questi ingiusti rimproveri,
            rinunzi a tentare, con vani soccorsi, di dar nuovo ardore
            a un pallido fuoco già presso a dare l’ultimo guizzo.

traduzione di Ugo Dettore 

... Racine ha inscritto in Fedra la capitolazione di un essere di fronte ai desideri proibiti dalla sua coscienza con una profondità rimasta ineguale, che fa sì che anche lo spettatore al quale è devoluto l’orrore per il vizio qui dipinto con «colori che ne fanno conoscere e odiare la difformità» non ceda infine alla partecipazione con il carattere di Fedra le cui qualità sono tali da «eccitare compassione e terrore». (Letteratura europea Utet)

venerdì 18 dicembre 2015

Il destino di Lorenzo Perrone



Carissima signorina Bianca, o visto ieri primo sta bene, lavora e forse le scriverà è un po’ dimagrito e attende di rivederla o almeno le tue notizie. Qui ce niente di nuvo molti ringraziamenti da parte sua e tanti saluti. Lo Pe ce sono il suo amico Perrone Lorenzo spero di ricevere un suo scritto addio
  Perrone Lorenzo (lettera del 26 giugno 1944 a Bianca Guidetti Serra)

Simone Lorenzati
Una storia poco conosciuta

 Esiste una storia che non si trova sui libri scolastici. O, quando la si trova, è circoscritta in parentesi più o meno lunghe. Tuttavia è spesso la storia di personaggi apparentemente minori a far sì che quella da manuale possa procedere. Ne è un esempio Lorenzo Perrone, un nome che ai più dirà davvero poco. Muratore fossanese, nato nel comune cuneese nel 1904 e deceduto nello stesso nel 1952. Potrebbe essere la storia di un qualunque anonimo lavoratore edile. Tuttavia la vita porta Perrone ad incrociare sul suo cammino Primo Levi, chimico ebreo e futuro scrittore, deportato ad Auschwitz all’inizio del 1944. Un giorno di quell'estate lo stesso Levi sta lavorando duramente per costruire un muro, quando sente parlare qualcuno in dialetto piemontese. Scopre che si tratta di lavoratori civili italiani mandati a Monowitz dalla ditta Boetti per realizzare lavori di muratura che allarghino l'orrore. Levi riesce ad avvicinare uno di loro, proprio Lorenzo Perrone, e a metterlo al corrente della terribile condizione dei deportati. Da quel momento, e per ben sei mesi, il muratore ruberà del cibo dalla cucina per sfamarlo, gli procurerà una maglia per riscaldarsi e terrà la corrispondenza con la sua famiglia. Tutto questo senza chiedere nulla in cambio, per puro altruismo, anzi rischiando di pagarne terribili conseguenze in prima persona. Tramite Perrone, addirittura, la madre Anna Maria e la sorella Ester, che vivono nascoste, riescono a recapitare a Primo Levi dall’Italia un pacco contenente cioccolato, biscotti, latte in polvere e abiti. 
Questo l'omaggio a Lorenzo Perrone ne I sommersi e i salvati
“Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura (…) per cui tuttavia metteva conto di conservarsi (…). La sua umanità era pura e incontaminata (…). Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. 
Dopo la fine della guerra, tornato a Torino, Primo Levi prenderà contatto con Perrone andandolo a trovare a Fossano. In seguito provvederà al suo ricovero per curare la tubercolosi che gli sarà fatale e darà il nome Renzo e Lisa Lorenza ai propri figli in suo onore. Lorenzo Perrone il 7 giugno 1988 fu inserito tra i Giusti fra le nazioni (dossier 3712), presso il museo Yad Washem di Gerusalemme.

°°°
Nicola Caracciolo
Gli ebrei e l'Italia durante la guerra 1940-1945
Bonacci Editore, Roma 1986 


N.C.
E lei è stato salvato da un italiano a Auschwitz: ce lo può raccontare?

P.L.
Se sono vivo è per molti motivi, ma il principale è questo, che lavoravo appunto in una fabbrica di prodotti chimici e ho lavorato quasi per un anno e dieci mesi come manovale. Ora per mia fortuna mi hanno mandato un certo giorno d'estate, era nel giugno del '44, a fare il manovale a una squadra di muratori, a tirare su un muro. Ora non era tanto facile fare il manovale, perché bisognava portare su il bugliolo con la calce che è molto pesante, bisognava portarlo su una spalla, e io ho fatto un disastro, cioè ho sparpagliato tutta la calce il primo viaggio che facevo, è il muro era già alto e dovevo portarlo su per la scala, e mi sono accorto con sorpresa e con felicità che i due in cima parlavano italiano fra loro, e si son detti una frase, anzi uno parlava con l'accento piemontese, ha detto a l'altro “Ah's capis, cun gent' parei” -eh, si capisce, con gente come questa cosa vuoi che facciano. E allora gli ho detto “ma tu sei italiano”... e lui m'ha detto “s'capis” “si capisce” era di Fossano.
Bene, quest'uomo che era un uomo molto strano e parlava pochissimo, sembrava muto addirittura, mi ha adottato. Non mi ha detto niente o quasi niente, ma da quel giorno fino a quando ha potuto mi ha portato ogni giorno una gavetta di zuppa, ed era una zuppa strana dentro la quale ho trovato un po', di tutto: una volta un'ala di passerotto con tutte le penne, un'altra volta ho trovato un ritaglio della Stampa cotto, e un'altra volta ancora dei noccioli di prugne.
Insomma evidentemente, l'ho saputo poi dopo, lui faceva una specie di colletta nel suo campo tra gli italiani e raccoglieva tutti gli avanzi e me li portava - si rendeva conto benissimo che era meglio che niente - e questo per me ha fatto da complemento per le calorie che mancavano, perché il vitto del campo era insufficiente non è che fosse nullo, erano circa 1500-1600 calorie che notoriamente non bastano.
Per un uomo che fa un lavoro pesante ce ne vogliono almeno 2400-2600. E lui mi ha portato questa gavetta con suo rischio perché lui sapeva benissimo che rischiava, che era proibito avere contatti extra-lavoro con noi. Ma lui se ne infischiava. Alzava le spalle e dice: “cosa me ne frega”. Io glielo dicevo: “guarda che è pericoloso, ti metto nei guai”. Avevamo combinato che invece di darmi in mano la gavetta la nascondeva in un certo posto e io l'andavo poi a prelevare: c'era una certa precauzione da parte sua.

N.C.
Lei l'ha rivisto poi dopo la guerra?

P.L.
Dopo la guerra l'ho rivisto: lui era arrivato in Italia molto prima di me. Io appena tornato l'ho cercato, l'ho trovato, ho cercato di aiutarlo, gli ho fatto avere quattrini, abiti, ho cercato di sdebitarmi, ma l'ho trovato ridotto malissimo, lui era stato talmente traumatizzato dalle cose che aveva visto là ad Auschwitz, che si era messo a bere. Era un uomo estremamente sensibile anche se non parlava quasi mai, e le cose che aveva visto ad Auschwitz, a Suiss come diceva lui, lo avevano colpito, l'avevano, come dire, ferito profondamente e non voleva più vivere, diceva “in un mondo come questo non val la pena di vivere”. E lui che era muratore, che era un bravo muratore, aveva smesso di fare il muratore, faceva il ferrivecchi, comprava e vendeva ferro, e tutti i quattrini che guadagnava se li beveva: e io che andavo a trovarlo ogni tanto a Fossano gli ho detto “ma perché vivi in questo modo?”, e lui molto freddamente mi diceva... “non val la pena di vivere, io bevo perché preferisco stare ubriaco che sobrio”. Tanto che dormiva, s'ubriacava e dormiva all'aperto - s'è preso una polmonite - io l'ho fatto ricoverare a Savigliano all'ospedale, ma non gli davano il vino, e lui è scappato, e l'han poi trovato moribondo in un canale, dove dormiva ubriaco. Insomma lui che non era un reduce da Auschwitz è morto della malattia dei reduci.

giovedì 17 dicembre 2015

Il dono



Marino Niola 
Cent’anni fa l’antropologo Malinowski scoprì una società aborigena fondata sulla generosità
Quando il dono diventò la base dell’economia


la Repubblica, 17 dicembre 2015 

Chi fa regali alla fine ci guadagna sempre. E non solo in gratitudine. Perché il dono è un investimento sul futuro. Un contratto a lungo termine. E a insegnarcelo non è stato nessun guru dell’economia ma gli aborigeni delle isole Trobriand, che del dare a piene mani hanno fatto un’arte della convivenza, nonché la base della loro dottrina politica. Anticipando, e di fatto ispirando, le teorie contemporanee del convivialismo e dell’antiutilitarismo. A scoprire i segreti di questa economia della generosità è stato, giusto un secolo fa, Bronislaw Malinowski, il celebre antropologo polacco, professore alla London School of Economics. Che, per uno scherzo del destino, si trovava in Australia per studiare gli aborigeni, quando scoppiò la prima guerra mondiale. Come suddito dell’impero austroungarico, e quindi cittadino di un paese nemico, gli sarebbe toccato l’internamento in un campo. Ma il giovane Bronislaw riuscì a convincere le autorità australiane a confinarlo nell’arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina, dal quale non c’era pericolo che fuggisse. Ma in compenso avrebbe potuto continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di questi atolli corallini che si trovano nel Pacifico occidentale, tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.
Il 1915 fu un annus horribilis per l’Europa, ma per l’antropologia fu un anno fortunato. Perché appena mise piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski fu subito colpito da un’usanza che ai suoi occhi di occidentale nutrito di economia politica, sembrava priva di qualsiasi logica. Gli indigeni affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli a bordo delle loro piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile e un coraggio ai limiti dell’incoscienza, visto che a viaggiare su quelle acque tempestose e infestate di squali era una bigiotteria senza valore. Collane e braccialetti di conchiglia. Cose futili e non beni necessari. E, come se non bastasse, questi monili da poveri venivano regolarmente rigirati da coloro che li avevano ricevuti agli abitanti dell’isola più vicina. Che a loro volta li indossavano un po’ di tempo per farsi belli e poi prendevano il mare per andare a farne omaggio agli abitanti di altre terre. Creando così un circuito di scambi che chiamavano kula. Apparentemente un circolo vizioso per cui il cadeau, prima o poi, finiva per tornare nelle mani del primo proprietario. Un po’ come certi regali, riciclati di Natale in Natale, che alla fine tornano al mittente come un boomerang. Ma per i Trobriandesi questa sorta di sbolognamento sistematico era un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano in mano caricava il dono di prestigio. Per dirla con parole nostre, ne impreziosiva il pedigree. Che stava in buona parte in un plusvalore relazionale. Come certi diamanti leggendari di cui si sciorina sistematicamente la cronologia di coloro che li hanno posseduti.
Il caso trobriandese, raccontato da Malinowski nel suo capolavoro Gli argonauti del Pacifico occidentale, divenne subito un rompicapo per gli economisti che non riuscivano a trovare senso in un comportamento tanto irrazionale. Così alla fine molti esponenti di questa scienza che noi moderni ci ostiniamo a ritenere esatta – e che i Greci, con maggior prudenza, definivano semplicemente “governo della casa” (da oikos abitazione e nomia regola) – conclusero che si trattava di un’assurdità.  Un comportamento da tribù primitiva, economicamente immatura che, incapace di calcolare costi e benefici, sprecava il tempo a fare regali, per di più senza guadagnarci nulla. Ma l’imperturbabile polacco non fece una piega e restituì colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la soluzione del rebus, l’algoritmo segreto che governava quella strana giostra di regali e regalini. In realtà la ragione di quella fatica, apparentemente inutile, non stava nel valore d’uso degli oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fondava soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito di reciprocità. Il dono insomma funzionava come un contratto sociale, facendo di tante popolazioni straniere, lontane e potenzialmente nemiche, un vero e proprio sistema. Ordinato e coordinato. Una federazione che metteva in moto una rete di relazioni sovralocale. Dalla quale non si usciva mai. Infatti i Trobriandesi dicevano con orgoglio che «l’appartenenza al kula è per sempre».
Questa sorta di mercato globale primitivo era insomma capace di connettere genti e paesi separati da migliaia chilometri di mare, a dispetto dei loro fragili mezzi. Basti pensare che nelle capanne dei cacciatori di teste della Nuova Guinea indonesiana e delle isole Molucche sono state trovate preziose porcellane cinesi d’epoca Ming. Insomma lo scambio di doni era una pensata geniale per fare uscire quelle isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago.
Il che in fondo vale anche per noi, utilitaristi disincantati, quelli che “nessuno ti regala niente per niente”. E si vede chiaramente in momenti come il Natale. Con la sua girandola di doni e controdoni, che non a caso gli americani chiamano big swap, il grande scambio. Un circuito cerimoniale che tiene in equilibrio reciprocità e gratuità, generosità e socialità, obbligo e piacere. Col risultato di riaffermare il principio dell’utile, ma proiettandolo su un piano più generale, e soprattutto meno egocentrico. Perché quel che regaliamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli interessi. E non necessariamente da chi ha ricevuto. Come dire che il dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario, incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura scambio protezione, solidarietà. E di conseguenza anche guadagno. Non è un caso che le religioni nascano tutte da un dono fatto al dio. E che il dio ricambia. Ecco perché, perfino il nostro Natale consumistico, continua ad essere animato da quell’energia collettiva messa in moto dallo spirito del dono. Che anche se per pochi giorni all’anno, fa di quelle isole che noi siamo un solo arcipelago.

https://palomarblog.wordpress.com/2015/08/04/famiglia-e-mercato-che-cosa-vuol-dire-naturale/

mercoledì 16 dicembre 2015

Mucha, i fiori e le ragazze




Fu il più grande creatore di manifesti di tutta Europa e fu soprattutto il cartellonista ufficiale di Sarah Bernardt, la Divina del teatro francese. Fu lui ad alimentarne il mito elaborando poster carichi di charme e fine voluttà per le sue storiche Medea e Gismonda alla fine dell'Ottocento. E per lei disegnò gioielli e progettò scenografie come mai s'erano viste sui palcoscenici della belle époque. Ed è da questa liaison che Alphonse Mucha, pittore ceco formatosi tra Vienna e Monaco e maturato a Parigi, esteta filosofo, ha codificato l'essenza del suo "stile" segnando la nascita dell'Art Nouveau. La sua grazia grafica instradò l'epopea del nuovo linguaggio decorativo, forgiando un'estetica seducente, carica di erotismo e aura glamour che faceva leva con estro visionario sui temi floreali abbinati a suggestioni di natura slavo-orientale. (Laura Larcan)

Il ritorno di Mucha
(Alfons Mucha, Ivančice, 24 luglio 1860 – Praga, 14 luglio 1939) 

La sinuosa bellezza di splendide ragazze in fiore con lui invade il quotidiano e si fa segno inconfondibile di un’intera epoca, la Belle Epoque, che credeva nel progresso prima di precipitare nel gorgo della prima guerra mondiale. Quelle atmosfere dalle linee di serpente, che in Italia declinarono in Liberty e in Francia e Belgio come Art Nouveau e in Germania Jugendstil e il Modern Style inglese trovarono un interprete unico nel ceco Alfons Mucha.
I suoi manifesti dedicati alla più celebre artista del momento Sarah Bernardt, la Berma di proustiana memoria, creeranno la cifra di un nuovo linguaggio che da allora in poi sarà simbolo di eleganze supreme.
Le sue ragazze dall’eterna primavera invasero il mondo delle arti sorridendo dai vasi di ceramica alle vetrate e invadendo perfino il mobilio e le facciate per giungere fino a noi nel loro fascino ancora intatto.
Con oltre 220 opere la raffinata mostra “Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau” è al Palazzo Reale di Milano fino al 20 marzo 2016. (Stefano Biolchini)



Salammbô 




Salomè


primavera

















estate
















 

lunedì 14 dicembre 2015

Recalcati, il desiderio dell'Altro

"Dovrebbe leggere L’ideologia tedesca" gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia. Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L’ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai proprio bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un’organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
Muriel Barbery, L'eleganza del riccio



Il desiderio dell'Altro

Il desiderio come desiderio dell'Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall'Altro e si dirige verso l'Altro. Non esiste desiderio senza l'Altro. Il circuito del desiderio passa necessariamente dall'Altro perché il desiderio non può bastare a se stesso. Per questa ragione il desiderio di essere genitori di se stessi è un'illusione narcisistica onnipotente che sfida l'originaria dipendenza dell'uomo dall'Altro e la sua insufficienza strutturale. La partenogenesi di se stessi è un mito del nostro tempo: negare il vincolo, il debito, l'alterità della propria provenienza. Diversamente, il desiderio come desiderio dell'Altro non è mai autotrofico, non si soddisfa di se stesso, ma ci obbliga ad assumere come un dato incontrovertibile la dipendenza dell'essere umano dall'Altro. Il desiderio non può portare con sé il suo oggetto, in quanto il suo oggetto è situato nell'Altro, nel desiderio dell'Altro, in quanto, più precisamente, il suo oggetto s'identifica al desiderio dell'Altro in quanto tale, è il desiderio dell'Altro. Ma allora cosa può essere davvero soddisfacente, che cosa può soddisfare il desiderio umano? In questo secondo ritratto il desiderio umano non si soddisfa con l'appropriazione violenta dell'oggetto del desiderio dell'Altro, non si soddisfa nella lotta a morte per l'oggetto del desiderio. Questo desiderio non è più il desiderio in preda all'invidia. La soddisfazione simbolica del desiderio spezza l'altalena immaginaria del desiderio e mostra che la soddisfazione dell'uomo non può essere ridotta alla soddisfazione dei bisogni cosiddetti primari. Diversamente da una pianta, l'essere umano non necessita solo di caldo, di acqua e di luce per crescere bene. È necessario un altro alimento. "Non di solo pane vive l'uomo", recita la parola di Gesù. Il desiderio, insiste Lacan, non può essere confuso con il bisogno. Se il bisogno si dirige verso un oggetto capace di soddisfarne l'urgenza (l'acqua annulla la sete), il desiderio non si nutre di oggetti ma di segni. Si nutre del segno del riconoscimento, della parola che viene dall'Altro. 
Un vecchio studio di René Spitz sugli orfanotrofi di Londra dopo la seconda guerra mondiale aveva evidenziato a suo modo questa eccentricità del campo del desiderio rispetto a quello dei bisogni. Bambini accuditi con solerzia da infermiere particolarmente efficienti si lasciavano inspiegabilmente morire d'inedia o di anoressia, sviluppando gravi sintomi depressivi. Sindrome di "deprivazione primaria" l'aveva battezzata Spitz. Che cosa gettava nel marasma e nella derelizione questi bambini? Di cosa mancavano se le cure dei loro bisogni primari venivano ampiamente soddisfatte? Mancava loro la presenza dell'Altro dell'amore, l'ossigeno del desiderio dell'Altro, il dono della presenza dell'Altro come dono che trascende la dimensione anonima e protocollare delle cure, mancava loro il segno d'amore.

Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012.




venerdì 11 dicembre 2015

Giotto e Francesco d'Assisi

Tomaso Montanari 
Così Giotto tradì la missione di San Francesco
In un saggio di Chiara Frugoni la vicenda del Poverello d’Assisi. E come la sua figura fu poi manipolata dalla Curia

la Repubblica, 11 dicembre 2012



... la domanda centrale del libro parla invece a tutti: ed è difficile staccarsi dal filo della narrazione, dalla malìa di strepitose fotografie di dettaglio che permettono di vedere il ciclo di Giotto come forse non lo si è mai visto prima. E quella domanda è: se Francesco (morto nel 1226) avesse potuto guardarsi nello specchio di Giotto (1288-92 circa), si sarebbe riconosciuto? La risposta della Frugoni è no: ed è un no profondamente convincente.
Emblematico è il caso del presepe di Greccio: un grande evento popolare, in cui Francesco fece celebrare la messa natalizia della notte alla presenza di un bue e di un asino in carne ed ossa, viene invece raffigurato come una specie di rappresentazione simbolica, con gli animali ridotti a piccole statue di terracotta, con i poveri fuori della porta, con lo stesso Francesco rivestito da una improbabile dalmatica diaconale dorata. Un Francesco prigioniero del suo stesso ordine, insomma: e Francesco prigioniero sarebbe un perfetto sottotitolo per il libro. Specie pensando ancora al Testamento, dove il santo si fa povero fino a spogliarsi della sua stessa volontà, e con essa del radicalismo del suo progetto: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani».


Uno dei tradimenti contro il vero Francesco riguarda da vicino i nostri giorni. Nella quarta campata della parete nord, i committenti chiedono a Giotto di dipingere un Francesco pronto a gettarsi nel fuoco per sbugiardare e umiliare il Sultano, e i musulmani in genere. Ma la Frugoni ricorda che il fondatore aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra i non cristiani «senza liti, senza dispute », «non con l’abituale criterio della contesa dottrinale contro Ebrei od eretici, ritenendosi soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, dunque anche ai musulmani ... Solo se si fosse creato un clima di reciproco rispetto, se fosse piaciuto a Dio, i frati avrebbero potuto parlare di Cristo e della loro fede». Ma – continua la Frugoni – «quando la ritroviamo negli affreschi di Assisi, da una predica per convertire siamo passati a una sfida per vincere ».



Mai come oggi, capire quale Francesco significa decidere quale futuro.
Negli affreschi della Basilica superiore viene celebrato fra cavalieri, cardinali e pontefici

IL LIBRO Quale Francesco? di Chiara Frugoni (Einaudi, pagg. 608, euro 80)

mercoledì 9 dicembre 2015

Il sogno del labirinto

Gaston Bachelard
La terra e il riposo
Un viaggio tra le immagini dell'intimità
Red, Milano 2007 [ed. or. francese 1948]
Traduttrici Mariella Citterio, Anna Chiara Peduzzi



... Ci rendiamo conto innanzi tutto che il sogno del labirinto, vissuto in un sonno talmente particolare che potrebbe essere chiamato sinteticamente 'sonno labirintico', è un'associazione costante di sensazioni profonde. Esso può fornire un buon esempio degli archetipi evocati da C.G. Jung. Robert Desoille ha precisato questa nozione di archetipo affermando che, se si riduce l'archetipo a un'unica immagine, non lo si può comprendere appieno, poiché un archetipo è piuttosto una serie di immagini «che riassumono l'esperienza ancestrale dell'uomo di fronte a una situazione tipica, cioè in circostanze in cui può venirsi a trovare non un solo individuo, ma chiunque...» Camminare nel bosco oscuro o nella grotta tenebrosa, perdersi, smarrirsi, ecco delle situazioni tipiche che forniscono innumerevoli immagini e metafore all'attività più conscia dello spirito, sebbene nella vita moderna le esperienze reali a questo riguardo siano, tutto sommato, molto rare. Pur amando molto le foreste, non ricordo di essermi mai smarrito in esse. Temiamo di perderci senza esserci mai persi.
Quale strana concrezione del linguaggio ci induce a usare la stessa parola per due esperienze tanto differenti: smarrire un oggetto, smarrire noi stessi! Come possiamo meglio renderci conto che alcune parole sono cariche di associazioni? Chi ci spiegherà le possibilità dell' essere smarrito? L'anello, forse, o la felicità o la moralità? E che consistenza psichica quando sono sia l'anello sia la felicità sia la moralità! Allo stesso modo, l'essere nel labirinto è contemporaneamente soggetto e oggetto conglomerati nell' esserre smarrito. Nel sogno labirintico riviviamo questa situazione tipica dell' essere smarrito. Smarrirsi, con tutte le emozioni che questo fatto implica, è dunque una situazione palesemente arcaica. Alla minima complicazione, concreta o astratta che sia, l'essere umano può ritrovarsi in questa situazione. «Quando cammino in un luogo oscuro e uniforme,» racconta George Sand, «mi interrogo e mi rimprovero...» Invece certe persone pretendono di possedere il senso dell'orientamento e ne fanno l'oggetto di una vanità che forse maschera un'ambivalenza.
Insomma, nei nostri sogni notturni riprendiamo inconsciamente la vita dei nostri avi viaggiatori. Si è detto che nell'uomo «tutto è cammino»; riferendosi agli archetipi più remoti, bisogna aggiungere: nell'uomo tutto è cammino smarrito. Associare sistematicamente la sensazione di essere smarrito a ogni avanzare inconscio vuol dire ritrovare l'archetipo del labirinto. Camminare a fatica in sogno significa essersi smarriti e vivere quindi la sofferenza dell'essere smarrito. Questo semplice elemento del cammino difficile diventa la sintesi delle sofferenze. Facendo un'analisi accurata, sentiremo che ci smarriamo alla minima svolta, che ci facciamo prendere dall'angoscia alla più piccola strettoia. Nelle cantine del sonno ci stiriamo sempre: pigramente o dolorosamente.
Si possono comprendere meglio alcune sintesi dinamiche considerando le immagini consce. Così, nella vita da svegli, seguire una lunga gola o trovarsi all'incrocio di diverse strade suscita due angosce in qualche modo complementari. Ci si può addirittura liberare di una tramite l'altra. Iniziamo questo angusto cammino, così non esiteremo più; ritorniamo all'incrocio, così non saremo più trascinati. L'incubo del labirinto, però, somma queste due angosce e il sognatore vive una strana esitazione: esita nel mezzo di un unico cammino e diviene materia esitante, una materia che dura esitando. Sembra che la sintesi data dal sogno labirintico riunisca l'angoscia di un passato di sofferenza e l'ansietà per un avvenire di infelicità. L'essere è preso fra un passato bloccato e un avvenire ostruito, è imprigionato lungo il proprio cammino. Infine, strano fatalismo del sogno del labirinto, si ritorna talvolta allo stesso punto, ma non si ritorna mai sui propri passi. 


domenica 6 dicembre 2015

Marine e Marion


Leonardo Martinelli
Marine la laica, Marion la cattolica
I due volti della stessa medaglia
Così zia e nipote stanno guidando il Front National che spera nel trionfo


La Stampa, 6 dicembre 2015

Se oggi vittoria sarà per il Front National (e sembra proprio di sì), al primo turno delle regionali francesi, i militanti dovranno ringraziare il duetto formato da Marine e Marion, emanazioni del patriarca, Jean-Marie Le Pen.
Ma anche un’accoppiata improbabile: ruspante Marine Le Pen, con quel vocione che sembra il padre e le foto che la ritraggono mentre aspira un sigaro o svuota un bicchierone di birra; eterea Marion Maréchal le Pen, con la voce delicata e un fisico da mannequin («ma sotto un’apparenza dolce nasconde un carattere e una determinazione d’acciaio», dixit la zia e ha perfettamente ragione). Le differenze sono pure di sostanza: laica e «moderna» Marine, cattolicissima e tradizionalista Marion.
La prima è la candidata a presidente nella regione del Nord (Nord-Pas-de-Calais e Picardia). La seconda nel Sud, nella Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Sono date come superfavorite e da settimane stanno facendo da traino al partito. Entrambe sono passate dalla magione di Jean-Marie, il palazzotto antico sulle alture di Saint-Cloud (che lui ereditò da un imprenditore strambo, in condizioni ancora oggi oscure). Vi hanno trascorso molta della loro infanzia e adolescenza e anche oltre, in epoche diverse: Marine ha 47 anni, Marion quasi 26.
L’ascesa della zia
La prima ha vissuto lì gli alti e bassi dei genitori, compresa la fuga della mamma con l’amante e le foto della signora su Playboy per tirare su qualche soldo. Con la sua corazza psicologica, ha resistito tutto sommato bene. Più tardi, studentessa universitaria, in seguito avvocato e poi dirigente del Front National, la chiamavano «la night-clubbeuse», perché, appena poteva, scappava in discoteca, spesso con la sorella Yann. Lei partorisce Marion nel 1989 e manco si sa chi sia il padre. Poi Yann si sposerà con Samuel Maréchal, che la riconoscerà. Solo a tredici anni la ragazzina scoprirà le vere generalità del padre, che ha frequentato regolarmente (è morto nel frattempo). Da piccola Marion si ritrovava soprattutto da sola con il nonno nella magione, ad ascoltare in silenzio i suoi sproloqui. Con lui non ha mai rotto i ponti, neanche dopo la mediatica litigata di Jean-Marie con Marine.
Il gioco delle parti
Oggi le due donne sono il prodotto dei loro due distinti passati. La «night-clubbeuse» dice di essere cattolica ma non praticante. Prende sempre posizione a favore della laicità ed è una repubblicana convinta. Nel 2013 mai mise piede nelle manifestazioni contro il matrimonio gay. Anzi, il suo direttore di campagna attuale è Sébastien Chenu, omosessuale dichiarato, nel passato anche attivista per i diritti dei gay. Un altro dei suoi consiglieri, Julien Odoul, fece nudo nel 2009 la copertina della rivista gay Tetu, eletto migliore fisico dai lettori. Marine Le Pen è priva di qualsiasi remora cattolica che le impedisca di dire che «il sistema penale senza la pena di morte non tiene». Marion, invece, alle manifestazioni del 2013 si fece vedere, eccome. Lì si avvicinò ai cattolici più reazionari. Anche per quello è contraria alla pena di morte. Ha promesso, se sarà eletta, di eliminare i sussidi regionali ai centri di pianificazione familiare «perché banalizzano l’aborto» (la zia l’ha subito criticata). Marine si è presa un colpo anche quando Marion ha iniziato a esprimere simpatie monarchiche. E quando ha puntato il dito contro un progetto consolidato «per sostituire i francesi di origine con quelli musulmani in certi quartieri»: affermazioni liquidate da Marine come complottiste.
C’è chi dice che sia tutta una montatura. Più probabile, invece che la furba Marine sfrutti la bella Marion per captare un elettorato cattolico che di lei non si fida per niente. Speriamo per loro che i nodi non vengano mai al pettine.

sabato 5 dicembre 2015

Un popolo di navigatori (a vista)

Marco Revelli
Limbo italiano
Siamo un popolo di navigatori (a vista) 
il manifesto, 5 dicembre 2015 









È «la società del resto». Una buona formula per fotografare l’Italia di oggi. «È come quando – scrive De Rita -, girando per il Paese, tu chiedi a qualcuno come va: lui ti dice che va tutto male, il lavoro, la macchina, la moglie. E allora tu chiedi: e il resto? E la risposta è sempre: il resto va bene».
Una risposta non propriamente rassicurante, perché «il resto» è ciò che sta fuori dall’asse centrale delle priorità assorbenti, dei pensieri dominanti, nella quotidianità privata come nella vita pubblica. In effetti, da questo ultimo Rapporto Censis, non escono propriamente squilli di fanfara per il governo, né conferme alla sua narrazione sull’«Italia che riparte». Emerge piuttosto l’immagine in bianco e nero di un Paese in difficoltà – «in letargo esistenziale collettivo», come consegnato in «un limbo».
Un Paese che cerca di difendersi come può, mettendo in campo strategie individuali o di piccolo gruppo, frammentate e locali, in assenza di un “progetto generale di sviluppo” che non si aspetta più da nessuno, men che meno da chi gli racconta di averlo e di pazientare perché presto si vedrà. Un Paese che comunque stenta a immaginare un futuro, subendo il proprio arretramento. O giocando mosse prevalentemente difensive (l’esatto opposto di ciò che si proporrebbero le terapie psicologiche dopanti somministrate dall’alto).
Lo dicono quei 3,1 milioni di famiglie che negli ultimi 12 mesi hanno dovuto intaccare i propri risparmi pregressi “per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili”. Ma anche, paradossalmente, gli altri 10 milioni e mezzo (un po’ meno della metà delle famiglie italiane, che sono in tutto 24 milioni e 512 mila), che sono riuscite, anche negli anni della crisi, nonostante tutto, a mettere un po’ di fieno in cascina e a risparmiare qualcosa, ma lo tengono lì, disponibile – “a scopo cautelativo”, dice il Censis, “per finanziare la formazione dei figli, per i bisogni della vecchiaia, per paura di perdere il posto di lavoro” -, stoccato in contanti e depositi (che infatti sono saliti di più di sette punti tra il 2007 e il 2014, dal 23,6% al 30,9).O tutt’al più in assicurazioni e in fondi pensione (passati dal 14,8% al 20,9), anziché, “rischiarli”, come ai bei tempi della finanza creativa, in azioni e obbligazioni (crollate infatti di più di otto punti percentuali, dal 31,8% al 23,7).
Un popolo di navigatori a vista, dunque, preoccupati e ricondotti alla sobrietà e a una sacrosanta prudenza da un orizzonte percepito indubbiamente come incerto e non rassicurante. In primo luogo sul terreno – costitutivo di ogni progetto di vita – del lavoro, dal momento che l’unico, reale aumento dell’occupazione (un milione netto) si è registrato tra i “lavoratori anziani”, a cavallo dei sessant’anni, trattenuti “per decreto” nel recinto della “popolazione attiva” dall’innalzamento dell’età pensionabile.
Mentre per gli altri, soprattutto per i giovani, il quadro resta nerissimo, con quasi due milioni e mezzo di “scoraggiati”, e tre milioni e mezzo di sottoccupati e di part-time involontari. E con un welfare in costante restringimento (quasi otto milioni gli italiani si sono “indebitati o hanno chiesto un aiuto economico per far fronte a spese sanitarie private”, e un 68% di famiglie a basso reddito ha al suo interno almeno un membro che ha dovuto rinunciare alle cure per mancanza di mezzi).
Non stupisce che in un contesto strutturale così spaventosamente liquido e deprivato, l’azione collettiva scivoli fuori dall’orizzonte esistenziale. Che il “collettivo” stesso appaia come categoria obsoleta, d’altro secolo, d’altro universo sociale, e in primo piano domini, in un mondo di solitudini, l’istinto di sopravvivenza nella sua forma più elementare del “serba te ipsum”: ciò che don Milani, in un altro tempo, chiamava l’”avarizia” in contrapposizione con la “politica (uscire dai guai “tutti insieme” anziché “da soli”).
E’ questo, forse, l’elemento più inquietante del Rapporto Censis di quest’anno: quest’appassimento della fiducia nell’azione comune, che rende tutto più opaco e dimidiato: una società non più “di mezzo”, ricca di corpi intermedi, aggregazioni e gruppi coesi, com’era nell’idea deritiana di struttura virtuosa, ma una società “dimezzata” o, come scrive citando Turati, a “mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone”… In cui la gente continua la propria vita quotidiana, fuori da un’emergenza conclamata: ha ripreso a consumare, a stipulare mutui, a pensare di comprar casa o cambiare l’auto. Ma a basso regime, lungo le infinite sfumature di grigio, nel segno di un piccolo cabotaggio. Cosicché si può dire che questa nuova lettura del Censis non è più da “tempo di crisi”. Sta già nel post: dice che questo tono basso sarà la normalità futura, perché la crisi non è stata una “parentesi” – dopo la quale si riparte alla grande, o come prima -, ma una metamorfosi il cui risultato è questo, qui fotografato.
E il “resto”, di cui si parlava all’inizio? Dove sta il resto, che evidentemente non è solo l’irrilevante. O il marginale inerte. De Rita conclude quella frase in questo modo: “Ecco, l’Italia è così: il resto ha dentro di sé un’energia misteriosa…”. E l’energia misteriosa è l’”ibridazione”: la rete lenticolare di saperi e di mestieri che le (finte) politiche di governo, o le atroci “leggi obiettivo”, o i famigerati “sblocca Italia” non vedono nemmeno, ma che lavora sotto traccia nell’iniziativa di una molteplicità di atomi laboriosi che coniugano “qualità, saper fare artigiano, estetica, brand”. O nel rianimarsi di quello “scheletro contadino” che sembra rinverdire nelle pratiche di “ritorno” e di “resilienza” di territori fino a ieri considerati “ai margini”. I segni, appena deboli tracce, di un possibile “collettivo” del futuro.