mercoledì 11 giugno 2025

Mancanza di leadership

Boris Johnson, lo smarrimento

Chiaramente la sinistra o, se si preferisce, lo schieramento progressista si trova di fronte a un crocevia. Non può limitarsi ad aspettare tempi migliori senza darsi una fisionomia meglio definita. Ha tre possibilità davanti a sé: modificare pragmaticamente la sua offerta politica; restare fedele alle sue convinzioni storiche; adottare posizioni ancora più radicali, attribuendo i suoi fallimenti o le sue difficoltà alla debolezza manifestata nel perseguimento della linea tradizionale. Questo scrive oggi Giovanni Orsina sul Giornale. Il Partito democratico sotto la direzione di Elly Schlein oscilla tra la seconda e la terza ipotesi; una sua corrente interna, minoritaria, è invece favorevole alla prima. Una forza politica che voglia allargare la sua sfera di influenza deve dotarsi di una immagine ben riconoscibile e di un messaggio univoco se non su tutte le questioni in campo, almeno su alcune tra le più significative.  Una scelta sarebbe opportuna e perfino necessaria. Sul quotidiano Domani Gianfranco Pasquino si pronuncia in tal senso, quando pone il problema della leadership:

Costruire una coalizione politica potenzialmente maggioritaria richiede l’individuazione dei settori sociali ai quali mandare una pluralità di messaggi che spieghino in cosa quella coalizione non soltanto differisce, ma è preferibile al governo in carica. Esige visibile coesione di intenti e non prese di distanza furbesche e frequenti.

Per lo più gli elettorati democratici preferiscono la stabilità a qualsiasi prospettiva di ricambio che si presenti all’insegna dell’incertezza e del conflitto.

Max Weber ricorderebbe a tutti quanto importante, mediaticamente e politica, è la leadership. Senza controproducenti ipocrisie è tempo di riconoscere che Giorgia Meloni ha saputo esaltare il suo profilo di leader, di partito e di governo, anche nella sceneggiata minore della visita al suo seggio elettorale.

I contenuti, ovvero, le priorità programmatiche, continueranno a contare, ma senza una leadership alternativa, credibile, emersa/scelta tempestivamente, per tempo, le opposizioni italiane non andranno da nessuna parte. Non riusciranno a ottenere il voto di quel 10 per cento circa che fa sempre la differenza in tutte le elezioni democratiche. Non perché gli elettori non le hanno capite, ma proprio perché, come e più che nel referendum, ne vedono le contraddizioni e le carenze. 

Nota bene. Pasquino non dice che bisogna sostituire questo o quel dirigente. Non fa nomi. Afferma la necessità di voltare pagina. Auspica con questo la caduta di Elly Schlein? Non è sicuro. Se fosse giunto a una tale conclusione, lo avrebbe detto.   

Giuliano Ferrara sul Foglio non si fa tanti scrupoli e scrive: "Siamo dalla parte dei lavoratori, ci agganciamo alla Cgil, contro gli altri sindacati, seguiamo il percorso dell’identità sana e buona con Giuseppi e Camomilla e Tesla, un’alternativa che più perdente non è possibile concepire. Per battere eventualmente Meloni occorre uno Starmer, non dico un Blair, o un Macron del 2017, quello dei sogni realistici e riformisti-liberali, non una signora rispettabilissima che ha scambiato Berlinguer, già trafitto dal realismo della storia, con Elio Germano, e ambisce giustamente a fare la regista di cinema".

Qui l'avviso di sfratto è formulato in piena regola. Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera invoca un'autocritica da parte degli sconfitti al referendum. Per ora siamo invece al misero tentativo di contrattaccare intestandosi tutti i numeri della partecipazione al voto. Peggio il taccon del buco, come dicono in Veneto. 

Mettetela come volete, il conto alla rovescia è cominciato. Per chi suona la campana. Se nessuno davvero vuole riflettere sull'errore commesso e tutto rimane come prima, il campo progressista va verso la sconfitta al prossimo, decisivo, appuntamento delle elezioni politiche.

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