Michele Marchi
L'eclisse del macronismo, 9 giugno 2025, Il Mulino
A un anno esatto dal 9 giugno 2024, quando il presidente Macron, in perfetta solitudine, optò per lo scioglimento dell’Assemblée nationale dopo la débâcle delle elezioni europee, la Francia non sembra essere uscita dal cono d’ombra nel quale l’esito del voto anticipato l’ha lasciata. Pur senza tornare su quella decisione, è possibile osservare come sta evolvendo un quadro politico in bilico tra instabilità e immobilismo, con lo sguardo dei principali protagonisti già proiettato alle presidenziali del 2027. Le prime considerazioni riguardano il presidente Macron e il primo ministro Bayrou.
Partendo da Macron, oltre a segnalare il cronico livello di sfiducia che lo accompagna (soltanto circa tre francesi su dieci lo ritengono un buon presidente), va detto che nell’ultimo anno, più che il “dopo Macron”, a essere in questione è il “macronismo” in quanto tale, cioè l’idea di avanzare una proposta politica “né di destra, né di sinistra” o, in altra versione, “al di là della destra e della sinistra”. L’attivismo nello spazio di quella “minoranza relativa” che sostiene il “suo governo” è caratterizzato da leadership – si pensi a Édouard Philippe, o a Bruno Retailleau, o anche allo stesso ex delfino Gabriel Attal – che fanno dell’archiviazione del macronismo il primo punto delle loro ambizioni presidenziali.
In realtà Macron aveva già sprecato gli anni dal 2022 al 2024 non portando a casa alcuna riforma, se non quella contestata e nemmeno così incisiva del sistema pensionistico. Una volta poi attuata la scelta azzardata dello scioglimento, con relativo esito del voto, non è apparso in grado di reagire alla situazione. La storia della V Repubblica non manca di errori commessi dai suoi presidenti, che hanno però poi saputo volgerli a loro favore. Mitterrand seppe reagire alla débâcle delle legislative del 1986 dettando le regole della prima coabitazione e andando a vincere le presidenziali del 1988. Chirac, dopo lo sciagurato scioglimento anticipato del 1997, fu in grado di irretire il suo primo ministro di coabitazione Jospin e di rivincere le presidenziali del 2002. Macron invece ha perso tutto il suo volontarismo e si è adattato a un panorama politico confuso, nel quale nessuna forza politica domina e nessuna coalizione sembrano realmente funzionare. La sua unica opzione è stata quella di esercitare il suo attivismo negli ambiti esclusivi della presidenza della Repubblica, cioè la politica estera e quella di difesa, complice anche la complicata congiuntura internazionale. L’emblema di questo ultimo anno è stato ben riassunto nella lunga intervista televisiva di metà maggio. Macron è apparso al solito colto e reattivo sui principali dossier di politica internazionale, ma inadeguato nel fornire un senso complessivo agli ultimi venti mesi di mandato. Come ha sarcasticamente commentato un deputato della sinistra radicale, “tutti hanno potuto constatare che il posto di Giove è nell’Olimpo”.
Dunque, Macron sulla scena internazionale e Bayrou nella gestione della politica interna? In realtà il primo ministro centrista ha, se possibile, livelli ancora più bassi di gradimento e il suo governo appare con ancora minori prospettive rispetto al fine mandato dell’inquilino dell’Eliseo. Da un lato, Bayrou è senza dubbio stato abile nel garantirsi il sostegno delle forze del cosiddetto “socle commun” (centristi, macroniani e LR) e contemporaneamente non turbando le componenti in grado di votargli contro una mozione di censura, cioè la sinistra democratica, da una parte, e il RN, dall’altra. Il tutto però è stato pagato con un sostanziale immobilismo che tra poche settimane giungerà a un punto di non ritorno, dal momento che partirà l’accidentato percorso della nuova Legge di bilancio. Lo stesso primo ministro ha parlato di un vero e proprio “Himalaya da scalare”, con la doppia spada di Damocle della possibilità tecnica di un nuovo scioglimento (a partire da metà luglio) e l’orizzonte delle elezioni municipali del marzo 2026. In questo quadro instabile, Bayrou pare voler aggiungere un altro tassello potenzialmente esplosivo, cioè la riforma del sistema elettorale con l’introduzione del proporzionale. Su questo punto la situazione è paradossale, dato che sembrano sostenerlo soltanto le forze politiche contrarie alla sopravvivenza del suo governo, cioè LFi, RN ed ecologisti.
Se le prossime settimane ci diranno molto sulla sopravvivenza dell’esecutivo Bayrou, le ultime hanno fornito alcune interessanti indicazioni sul tentativo di ristrutturazione del quadro partitico in vista del voto presidenziale del 2027. Prima di tutto Les Républicains, ossia la destra repubblicana, hanno un nuovo presidente. Si tratta del senatore e unico vero uomo forte del governo Bayrou, il ministro dell’Interno Retailleau. Con una campagna congressuale piuttosto effervescente, che ha portato gli iscritti a superare le 120 mila unità e un doppio voto online che ne ha visti circa 100 mila esprimere la propria preferenza, Retailleau ha nettamente battuto il capogruppo della destra repubblicana all’Assemblée nationale e già giovane ministro in epoca di presidenza Sarkozy, Laurent Wauquiez. Retailleau si presenta come liberale in economia (sui temi della detassazione del lavoro e della necessità di procedere all’innalzamento dell’età pensionabile) e conservatore sui temi sociali, soprattutto sul dossier immigrazione e su quello sicurezza. Il suo successo e il suo attivismo nel rilanciare le possibilità dei post-gollisti sono letti come l’occasione per chiudere una lunga parentesi di fallimenti, subito dopo la sconfitta di Sarkozy nel ballottaggio presidenziale con Hollande nel 2012. La destra repubblicana ha più volte toccato il fondo, a partire dalla vera e propria faida Copé-Fillon dopo la citata débâcle elettorale, la serie di vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’ex presidente Sarkozy, sino alla doppia eliminazione dal ballottaggio presidenziale del 2017 e del 2022, in quest’ultimo caso con la candidata Pécresse sotto al 5% al primo turno.
La posizione del nuovo uomo forte della destra repubblicana è però tutta da costruire. Innanzitutto Les Républicains, anche in vista delle prossime municipali, dovranno lavorare per trovare uno spazio di agibilità politica al centro e a destra, laddove il Rassemblement National in questi anni ha sottratto quote crescenti di elettorato alla destra post-gollista. Allo stesso tempo occorrerà capire che rapporto Retailleau e questi rinati Les Républicains penseranno di impostare con quello che a oggi è accreditato come il candidato più gradito dall’opinione pubblica francese, cioè l’ex primo ministro di Macron (tra il 2017 e il 2020), ex membro de Les Républicains – espulso proprio per aver scelto il macronismo – e oggi sindaco di Le Havre in piena campagna presidenziale, cioè Édouard Philippe. Con il suo ultimo pamphlet (Le prix de nos mensonges, JC Lattès, 2025) e una serie di interviste nelle quali – con una postura simile a quella di un Mendès-France e di un centrista di ispirazione gollista tipo Barre – insiste sulla necessità e sul coraggio di dire la verità ai francesi, in particolare sui conti pubblici e i sacrifici da non procrastinare, Philippe rilancia una candidatura che nei suoi intenti dovrebbe essere in grado di federare dai delusi di Macron sino ai margini del Rassemblement National, fagocitando naturalmente Les Républicains. In definitiva uno dei due architravi della V Repubblica nella sua versione precedente alla strana tripolarizzazione imposta dalla triade Mélenchon-Macron-Le Pen, quello della destra post-gollista, è in indubbia effervescenza. Cosa dire dell’altro, quello della sinistra democratica e socialista?
Anche qui c’è stato un voto per eleggere il nuovo primo segretario del Ps ma, a differenza del fronte post-gollista, la mobilitazione è stata fallimentare. La riconferma del segretario uscente Olivier Faure è giunta dopo il voto di circa 25 mila aderenti (su un totale di circa 40 mila). Il Ps ha perso dal 2018 circa 50 mila iscritti e ha oltre 40 federazioni con meno di 100 iscritti. Ma soprattutto il dibattito che ha opposto il segretario uscente al catalizzatore di tutte le opposizioni interne, il sindaco di Rouen Nicolas Mayer-Rossignol, e al capogruppo dei socialisti a Palais Bourbon Boris Vallaud (alla fine ago della bilancia con il suo 15% raccolto al primo turno) ha eluso due punti fondamentali. Da un lato la strategia delle alleanze, in vista delle municipali, innanzitutto, non è apparsa chiara. Faure esclude accordi generalizzati con LFi, ma poi in privato è pronto a negoziare caso per caso. Dall’altro, nessun discorso è stato affrontato sull’identità e sulla proposta politica socialista. Il Ps appare oggi senza alcuna leadership nazionale credibile e senza alcuna proposta politica forte. E questo nel momento in cui La France insoumise sembra sempre più chiusa nel suo radicalismo e il macronismo nelle mani di un al momento piuttosto confuso Gabriel Attal. Eppure, tra la sinistra radicale e il centro, almeno teoricamente, non dovrebbero mancare gli spazi di conquista elettorale.
La speranza resta quella di Raphaël Glucksmann, il quale perlomeno sembra avere due punti fermi: niente elezioni primarie per una gauche da Mélenchon a Cazeneuve, cioè dalla sinistra radicale alla sinistra di governo, e un secco no a candidature comuni sia presidenziali, sia legislative con la La France insoumise. Nel suo caso, però, a stridere è la scarsa presa del suo movimento Place publique a livello nazionale. In definitiva un segretario politico, Faure, indebolito e un candidato potenziale, Glucksmann, senza un profilo saldo.
Molto altro si potrebbe aggiungere, ad esempio a proposito di un Rassemblement National che sta vivendo in una strana condizione. Primo partito di Francia secondo tutti i sondaggi, da dopo la sentenza di condanna a Marine Le Pen è sospeso tra l’attesa dell’appello e il lancio definitivo della leadership sostitutiva di Jordan Bardella. Se si vuole trovare un filo conduttore complessivo alla lunga crisi che caratterizza il quadro transalpino nell’ultimo anno, l’immagine più consona è quella di una complessiva crisi del politico e, al suo interno, del significato e della portata dell’azione politica. Dopo le legislative della scorsa estate l’interrogativo sembra davvero riguardare l’utilità stessa dell’agire politico. Il grande vulnus consiste nel trascinarsi inesorabile di una incapacità sistemica nel riformare lo Stato e nel fare accettare nuove regole di vita comune. L’opinione pubblica guarda con estraneità il sistema politico: la situazione è senza precedenti e la classe dirigente appare non in grado di uscirne (cfr. Le vote sans issues. Chroniques électorales 2024, a cura di B. Cautrès e A. Muxel, Presses Universitaires de Grenoble, 2025).
Il 29 maggio scorso ricorrevano anche i venti anni dal “no” francese al Trattato costituzionale europeo. Da quel momento è stato evidente come Mélenchon da un lato e Le Pen dall’altro abbiano assunto il monopolio della contrapposizione popolo versus élite. Sono senza dubbio cresciuti molto: l’ex FN, poi RN, è addirittura diventato il primo partito del Paese. Ma non sono riusciti completamente a scardinare l’asse destra/sinistra e soprattutto il “blocco popolare” che ciascuno incarna non è risultato maggioritario a un ballottaggio presidenziale (almeno per ora). Macron si è inserito in questa evoluzione, tentando di giocare la carta dell’“oltre la destra e la sinistra” e soprattutto proponendo una sorta di nuovo rassemblement dei cosiddetti progressisti (universalisti e integrazionisti) da contrapporre a quello dei conservatori (nazionalisti ed escludenti). Nonostante un certo successo in politica estera, facendosi portatore del tema dell’autonomia strategica dell’Europa, pertinente in particolare dopo l’attacco russo all’Ucraina e il ritorno di Trump alla Casa Bianca, i risultati non si sono visti sul fronte della politica interna, in particolare per ragioni di natura economica (conti pubblici fuori controllo e potere d’acquisto stagnante). Il caos successivo al doppio voto, europeo e legislativo, dell’estate scorsa ha sentenziato l’eclissarsi del macronismo senza delineare all’orizzonte, al momento, alcuna soluzione di rimpiazzo. Macron ha imboccato il viale del tramonto, ma il Paese è ben lungi dall’essere uscito dal guado.

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