Oggi si vota, ma soprattutto si decide se vogliamo ancora prenderci sul serio come Paese. Mentre qualcuno consiglia il barbecue e lo sberleffo come risposta all’impegno civile, c’è chi ha scelto di non rinunciare alla politica, alla partecipazione, al diritto — e dovere — di incidere sulle regole comuni.
L’ironia facile su chi promuove un referendum, il sarcasmo su chi si mobilita per la pace o per i diritti del lavoro, non sono nuove nella retorica di una certa destra mediatica. È la solita scorciatoia: ridicolizzare l’avversario per non entrare mai nel merito. Chi vuole umiliare l'avversario, lo capiamo, preferisce fare il tifo per l’ombrellone.
Ma facciamo chiarezza. I referendum sul lavoro sono una occasione per rimettere sul tappeto i problemi aperti della precarietà ricorrente, dei contratti-trappola, delle false partite IVA e dei ricatti ai quali sono sottoposti gli occupati poveri in particolare. Parlare di “occupazione record” senza mai chiedersi in quali condizioni si lavori è come festeggiare una maratona senza sapere quanti tra i partecipanti erano davvero in grado di competere alla pari.
Sul diritto di cittadinanza, l'accusa di voler “hackerare” l’elettorato è ancora più rivelatrice: chi teme che anche i figli degli immigrati, nati e cresciuti in Italia, possano votare, in fondo sa benissimo che sono cittadini già nei fatti. Solo che non li vuole riconoscere. Non per principio, ma in omaggio a un pregiudizio largamente condiviso.
E poi Gaza. Chi ha parlato dal palco l’ha fatto per denunciare l’ipocrisia di chi chiude gli occhi di fronte a crimini documentati, a una crisi umanitaria che coinvolge migliaia di innocenti. Trasformare tutto questo in una caricatura anti-israeliana è un trucco retorico vecchio, tanto abusato quanto infame. Non una sola bandiera è stata bruciata nella manifestazione romana. Tra i convenuti molti erano sinceri amici di Israele. Giorgio La Malfa, tanto per fare un nome.
Se c’è una cosa che dovremmo difendere oggi, è proprio la possibilità di dissentire, di proporre alternative, di votare su questioni vere — anche se divisive. Di esprimersi nelle piazze e nelle urne senza essere zittiti con battute da cabaret politico. Se chi prova a cambiare qualcosa viene definito “kamikaze” o “compagnia di giro”, allora non siamo solo in crisi politica. Siamo in crisi culturale.
Chi oggi invita a “lasciar perdere la compagnia di giro dei compagni” in fondo ci chiede di rinunciare all’idea stessa di alternativa. Ma se la politica si riduce a una grigliata contro il quorum, se il dissenso si liquida con un meme, allora forse siamo di fronte al tentativo di voltare le spalle a una tradizione di natura repubblicana, a un costume di sicura ispirazione democratica.
Si dice che l'opposizione non è seria. Come se fosse seria una maggioranza di governo che non riesce nell'emergenza tragica del momento a condannare uno Stato il cui governo pratica lo sterminio come tattica di guerra non contro una armata nemica ma contro un intero popolo. Si dice che i radicali (i radicali!) con la loro proposta di referendum hanno perso il contatto con la realtà. Come se la demografia non parlasse da sola un altro linguaggio. Come se l'evidenza dell'integrazione prevalente tra i giovani non permettesse di smentire le peggiori paure. La destra continua a presentarsi come detentrice di una maggioranza che invece è tutta da verificare. La ragione e la serena considerazione dei dati permettono di assumere un atteggiamento ben diverso, fatto di responsabilità e lungimiranza.
Civis Romanus

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