giovedì 12 giugno 2025

La sconfitta: parola di Bertinotti


Bertinotti: “Sconfitta referendum, un errore negare. La sinistra non parla più alla società”
L’ex presidente della Camera: «C’è nelle opposizioni un deficit di analisi del mondo in cui viviamo»

FRANCESCA SCHIANCHI
La Stampa, 12 Giugno 2025

ROMA. «Penso si debba parlare esplicitamente di sconfitta». Per cominciare a ragionare di referendum e delle sue conseguenze, l’ex sindacalista, ex leader di Rifondazione comunista e già presidente della Camera Fausto Bertinotti parte dall’assunto di base: «Le parole sono pietre, diceva lo scrittore, ed è bene che lo possano essere, quando non prendono di mira l’umanità. Ma le parole vanno scolpite: la rimozione del termine sconfitta, specie per forze di opposizione, è prima di tutto un errore. Perché non consente di affrontare le ragioni per cui non si riesce a costruire un’alternativa». 

La famosa analisi della sconfitta? 

«È un patrimonio necessario per uscire da una sconfitta che non riguarda solo il referendum, ma un’intera fase politica». 

Perché le forze di opposizione non riescono a parlarne? 

«C’è un elemento di autoconservazione, ma c’è anche qualcosa di più impegnativo: un deficit di analisi della società in cui viviamo e delle dinamiche delle forze sociali». 

Qual è la sua analisi? 

«Vedo una linea di demarcazione nella società tra alto e basso: alto è ciò che regola la società, le istituzioni, la politica, la comunicazione; mentre basso è la società civile». 

Il centrosinistra fa parte dell’alto e non riesce a intercettare il basso? 

«Esattamente. E infatti non affronta il problema della crisi della democrazia partecipata. Quando alle elezioni va a votare il 50 per cento dei cittadini, significa che ci si è persi per strada un pezzo di Paese». 

Al referendum altro che 50, ha votato il 30 per cento. 

«Vede, ora ricorre la domanda: ma perché buttarsi nel referendum se sapevi già che avresti perso? Perché in politica esiste il tempo della semina e quello del raccolto: e nel tempo della semina provi a costruire cose che non ci sono. In tempi di crisi della democrazia partecipata, si è provato ad aggirare l’ostacolo ridando la parola ai cittadini». 

Ma non ha funzionato…

«Riconoscere la sconfitta e posizionarla nel tempo della semina aiuta a individuare le ragioni di fondo: la perdita di un rapporto con la società civile. Di fronte a questo, si è provata la scorciatoia del referendum, che però ha rivelato la sua impotenza. Una volta che si è consumato il tentativo, è più importante il dopo del prima: devi affrontare il problema capitale della crisi della sinistra nella crisi della democrazia». 

Un vasto programma. Si affronta ripartendo da quei 14 milioni di votanti, come hanno detto dall’opposizione, o è una visione consolatoria? 

«È un abbaglio. Dove li trova quei 14 milioni di persone? Dove sono ora, e dov’erano prima del voto? Questi 14 milioni vanno rivestiti dell’abito con cui stanno nella società, vanno riportati alle condizioni sociali, non si sfugge. Sa cosa mi colpisce moltissimo? ». 

No, dica. 

«Che la sinistra non faccia una inchiesta, non cerchi di capire cosa sia successo alla sua base sociale, cosa pensino i suoi. Sono stato al Salone del libro di Torino, pieno di giovani. Possibile che nessuno sia andato da questi ragazzi e ragazze per capire chi sono? ». 

Ma perché secondo lei una partecipazione così bassa a referendum sul lavoro, che in teoria interessano tutti? 

«E che smentiscono una critica frequente della destra alla sinistra: si occupa solo dei diritti civili. Le due tipologie di diritti, civili e sociali, sono inscindibili: si è vinto sul divorzio quando si era dentro un ciclo di grandi lotte operaie e studentesche». 

Stavolta ha votato meno di un italiano su tre: perché? 

«Gli americani a volte aiutano perché sono dei semplificatori: c’è un bel libro di Bernie Sanders (ex candidato alle primarie democratiche Usa, esponente dell’ala più a sinistra del partito, ndr) in cui ripete un concetto, “i democratici hanno abbandonato i lavoratori e i lavoratori hanno abbandonato i democratici”. Il lavoratore in sé non è un portatore di emancipazione: sono i lavoratori come insieme a essere portatori di istanze; è il lavoratore come classe che fa la differenza, altrimenti resta un individuo come tutti, sottoposto al vento di destra». 

E perché, anche nell’alveo del centrosinistra, ci sono tanti contrari a concedere più velocemente la cittadinanza? 

«Per la stessa ragione: il problema è la costruzione di una cultura, non la registrazione di un’opinione. Ho l’età per ricordare quando, a Torino, c’erano i cartelli: “Non si affitta ai meridionali”. L’idea della migrazione dal Sud come una minaccia venne superata grazie al lavoro del movimento operaio, con l’aiuto della Chiesa, invadendo la città di esperienze e associazioni. È un lavoro enorme da fare. Ma se si passa dal conflitto di classe al censimento delle opinioni, allora in quella frontiera vince sempre la destra». 

Conflitto di classe? Oggi la politica è quella dei social e del leaderismo esasperato...

«Questi discorsi nella politica di superficie di oggi sembrano inerti. Ma occorre smarcarsi e agire in profondità». 

Dato lo stato della sinistra, ha ragione Meloni quando fa filtrare «vogliono inchiodarmi qui per dieci anni»? 

«Anche Giorgia Meloni farebbe bene a non guardare il mondo solo dall’angolo in cui si sente più tranquilla, ma ad allargare lo sguardo. Non è prevedibile quanto starà al governo, ma ricordi che il nostro Paese è in una crisi mondiale, e non sarà facile governare i processi». —


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