Marco Belpoliti
Fortuna e storia di un titolo
Doppiozero, 2 luglio 2014
Quando alla fine del 1963 Umberto Eco porta a Valentino Bompiani, suo editore, il dattiloscritto di quello poi che sarà
Apocalittici e integrati,
non sa ancora di aver coniato uno dei titoli più fortunati del secondo
dopoguerra, una vera e propria formula, che dominerà in tutte le
discussioni a seguire sui mass media: fumetti, televisione, computer,
web. Un’endiadi che funziona ancora oggi per descrivere il campo dei
pessimisti e degli ottimisti, dei critici e degli entusiasti.
In verità, quel titolo non è proprio opera del giovane studioso di
estetica; se ne stava annidato in una piccola sezione finale. Eco vuole
intitolare il libro
Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa. Bompiani, che di editoria se ne intende, lo guarda e gli dice: “Ma lei è matto”. Eco prova a correggere: “Diciamo allora,
Il problema della cultura di massa”.
Bompiani sfoglia il dattiloscritto e trova quel titoletto finale.
“Eccolo!”. Eco replica. “Ma non c’entra nulla con il resto del libro”.
“C’entra, c’entra”, risponde l’editore. Così l’autore è costretto a
scrivere un’ampia introduzione per giustificare il titolo.
Sono passati cinquant’anni e questo è ancora uno dei libri più famosi
del semiologo, ma forse uno dei meno amati da lui. Nel corso degli anni
si è ben guardato dal rimetterci mano, come ha invece fatto con
Opera aperta e
altre opere successive. Il successo fu immediato, anche grazie alle
recensioni critiche. Pietro Citati, nel suo pezzo su “il Giorno”,
apparso nell’ottobre del 1964 e titolato “La Pavone e Superman a
braccetto con Kant”, si mostra molto preoccupato. Eugenio Montale non si
lascia sfuggire l’occasione per un pezzo su “il Corriere della sera”,
articolo semi-apocalittico e di stampo pessimistico.
L’accoglienza della stampa comunista è invece un po’ più favorevole,
anche se con qualche punta critica, quella di Vittorio Spinazzola su
“Vie nuove”, settimanale del PCI. Se ne occupa persino il “Times
Literary Supplement” con un articolo abbinato a un fumetto ricopiato da
Lichtenstein: un cane che fa “Sniff sniff sniff”. Forse ancora più che
con
Opera aperta, il libro della nascente neoavanguardia, apparso poco prima, è con
Apocalittici e integrati che Eco diventa un intellettuale di rilievo nella cultura italiana, e non solo lì.
In Sudamerica è ancora oggi, ha detto di recente a un convegno
dedicato al libro, una delle sue opere più note e citate. Ma di cosa
parla questo libro? Del Kitsch, per esempio, prima che esca la celebre
antologia di Gillo Dorfles del 1968. Dei fumetti, con una serrata
analisi di Steve Canyon, Superman, e Charlie Brown, con un saggio
davvero innovativo, ben presto tradotto in inglese. Poi di canzonette,
della produzione meccanica della musica e della televisione (è uno dei
primi studi, dieci anni dopo la nascita di questo mezzo). Il bersaglio
polemico del libro è un intellettuale allora di moda, pubblicato dal
medesimo editore, Elémire Zolla, campione degli apocalittici.
Come Eco è arrivato a occuparsi di questi temi ritenuti di cultura
“bassa”? Grazie alla sua passione per i fumetti, per la letteratura
popolare, in genere, per il rapporto tra parola e immagine, come ha
rivelato molti anni dopo nelle pagine del romanzo semiautobiografico
La misteriosa fiamma della regina Loana.
Nel 1961-62 il giovane studioso era stato invitato a un convegno su
“Demitizzazione e immagine” da Enrico Castelli, intellettuale e studioso
oggi dimenticato. Vi devono partecipare Kerényi, Ricoeur e vari
teologi. Eco pensa di parlare del mito nei fumetti.
Ha un armadio con decine e decine di copie di albi con le storie a
colori di Superman. Sono un mito del nostro tempo, pensa. Così si porta
dietro gli album e va a Roma. Posa la pila dei fumetti sul tavolo dei
relatori e comincia a parlare. L’effetto è un interesse immediato, tanto
che dal ripiano, racconta, spariscono alcuni album. Nel 1977,
ricapitolando la storia della nascita del libro in una riedizione
tascabile del volume, Eco spiega come sono nati i vari saggi del libro, e
anche altri che non sono stati non inclusi, e come la vera ragione
della pubblicazione fosse un concorso universitario per una cattedra di
“Pedagogia e psicologia delle comunicazioni di massa”, che poi non
vince.
La domanda che i lettori si fanno a partire dal momento della
pubblicazione è: Eco è un apocalittico o integrato? Walter Pedullà su
“l’Avanti” risponde che è un terzaforzista tra apocalittici e integrati:
“un realista che accetta il dialogo e fa concessioni per non perdere
tutto. E il suo libro è una sorta di splendido memoriale di Yalta sulla
cultura di massa”. Forse in questo dilemma, rovesciato sulla cultura
italiana, ma anche di riflesso su se stesso, sta la ragione del successo
dell’opera. A distanza di tempo l’autore si chiederà perché non fu
capito: perché ambiguo, problematico o dialettico? Forse i suoi critici e
lettori avevano bisogno allora di una risposta a tutto tondo, bianca o
nera, un sì oppure un no, giusto o sbagliato: “come se fossero stati
inquinati dalla cultura di massa”.
L’osservazione di Eco è interessante, perché questa è ancora la
situazione attuale che vige nella società italiana di fronte ai prodotti
della cultura di massa: respingerli o assumerli? Web come peste, e
prima la televisione, oppure indispensabile strumento di comunicazione?
Social network sì o no? La schiera degli apocalittici è ancora folta; un
esempio recente è il Premio Nobel Vargas Llosa che scaglia contro la
cultura di massa; e tra gli integrati Carlo Freccero, guru televisivo,
con il suo
Televisione (Bollati Boringhieri). Leggendo la
prefazione estorta da Bompiani, si capisce come Eco usi gli apocalittici
contro gli integrati e viceversa, come trovi ragioni negli uni come
negli altri, ma senza essere un terzaforzista, come sosteneva Walter
Pedullà cinquanta anni fa.
Né apocalittici né integrati, questo sembra l’atteggiamento buono
anche per il presente, che Eco, a quel tempo gran appassionato di
cultura di massa, mostra in azione attraverso le sue intelligenti
analisi (l’uso del personaggio come tema innovativo). Gli esempi sono
numerosi. Prendiamo il Kitsch, questione che ha occupato molti autori,
tra cui Milan Kundera e Italo Calvino, diventando un tormentone per la
cultura contemporanea. Eco mostrava nel 1964 come le avanguardie
artistiche avessero utilizzato il Kitsch, così come il Kitsch aveva
fatto con l’alta cultura (nella definizione, anno 1939, del critico
americano Greenberg, il Kitsch è ciò che usa gli effetti dell’arte). Un
atteggiamento che Eco ha poi rinnovato con la nozione di “guerriglia
semiologica”, altra formula entrata nel circuito della discussione
culturale nel decennio successivo.
Eco è senza dubbio uno straordinario creatore di temi e formule – e
anche di feticci culturali – che gli permettono, tra l’altro, di non
farsi mai trovare là dove ci si aspetti: scarta sempre di un po’. La
polemica tra apocalittici e integrati continua anche ora con risultati
alterni, dato che nessuno riesce a sopravanzare gli avversari. Nella
prefazione del 1964 l’autore fa notare come esistono proprio quei
“concetti feticcio”, come “industria culturale”, allora di gran moda
grazie ad Edgar Morin, di cui lui stesso ha fatto, più o meno
volontariamente, uso. Scrivendo che l’industria culturale nasce con
Gutenberg, Eco spiazza il dibattito, e allarga la prospettiva temporale.
La vera lezione, quella che resta attuale, è lo studio concreto dei
prodotti culturali e dei modi in cui vengono consumati – aspetto
importante –, indispensabile per capire il mondo che ci circonda. Sapere
prima che giudicare. Gli apocalittici non lo fanno quasi mai, ma
neppure gli integrati, entusiasti senza perché, non pare si cimentino
frequentemente. Dopo cinquant’anni, nonostante il suo naturale
invecchiamento – ma si legge ancora con piacere –, il libro resta una
lezione di metodo pratico. Per fortuna sua, e nostra, non si è
intitolato
Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa,
ma se questo fosse stato il titolo, c’è da chiedersi se avrebbe avuto
il medesimo effetto sui lettori. Colpo di genio o sfacciata fortuna? La
dea bendata, si sa, aiuta quasi sempre gli audaci.