lunedì 29 febbraio 2016

Il carisma, quando c'è





Carlo Ginzburg
Cesare Garboli e il suo antagonista segreto
sta in Cesare Garboli, Tartufo, Adelphi, Milano 2014


Nel settembre 1980 si tenne a Firenze un convegno su Roberto Longhi, morto dieci anni prima. La seduta del giorno 27 cominciò con una relazione di Gianfranco Contini, che parlò delle varianti del libro di Longhi su Caravaggio. Finiti gli applausi il presidente o presidentessa (non ricordo chi fosse) diede la parola a Cesare Garboli. Garboli rimase immobile, con gli occhi fissi nel vuoto. L'invito venne ripetuto. Passò forse un minuto, interminabile. A questo punto Garboli si riscosse e parlò con voce bassissima: "Ero tutto preso dalla stupenda relazione di Contini". Nella sala era calato un gran silenzio. Pensai: Cesare sta recitando. Accanto a me Enrico Castelnuovo guardava Garboli, che non aveva mai visto prima, letteralmente a bocca aperta. (Qualche tempo dopo Castelnuovo mi raccontò di aver provato a cominciare una conferenza rifacendo la gag di Cesare, ma tutto gli era andato storto: il pubblico aveva cominciato a dire "voce, voce", ecc.). 

https://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2014/03/09/matteo-marchesini-lastrologo-delle-parole-che-leggeva-i-destini-nella-poesia-cesare-garboli/
 
carisma s. m. [dal lat. eccles. charisma, gr. χάρισμα, der. di χάρις «grazia»] (pl. –i, ant. carìsmati). – 1. Nel linguaggio religioso, la grazia come dono elargito da Dio. In partic., nel linguaggio teologico cristiano il termine indica o la semplice grazia santificante infusa a tutti i credenti col battesimo (talora usato anche come sinon. di sacramento in genere) o, in senso stretto, un dono soprannaturale straordinario concesso a una persona a vantaggio della comunità (per es., il dono dell’infallibilità, la virtù profetica, la possibilità di operare guarigioni miracolose): possedere, esercitare un carisma. 2. Nelle scienze sociali, il termine, introdotto nel 1922 da M. Weber, e poi largamente diffusosi, indica il complesso delle facoltà e dei poteri straordinarî che una persona possiede e che le vengono riconosciuti all’interno di un gruppo religioso, culturale o economico, o nella società, consentendole l’assunzione di un ruolo direttivo. 3. estens. Capacità di esercitare, grazie a doti intellettuali o fascino personale, un forte ascendente sugli altri e di assumere la funzione di guida, di capo: il c. di un uomo politico; un attore dotato di grande c.; avere, non avere carisma.

domenica 28 febbraio 2016

Scalfari si schiera con Renzi


altri tempi

Eugenio Scalfari
Se Renzi impugna la bandiera europea di Spinelli
Il premier prenda ora l'iniziativa di un'intesa dei Paesi che condividono l'obiettivo e consolidi l'identità di vedute con Mario Draghi
la Repubblica, 28 febbraio 2016


IL DIBATTITO tuttora vivacemente in corso dopo l'approvazione in Senato della legge Cirinnà sulle unioni civili, era prevedibile: in Parlamento sono presenti numerose posizioni politiche e non più, come accadeva nel Novecento repubblicano, un centro democristiano con una spolverata di piccoli partitini laici, una destra fascistoide molto minoritaria e una sinistra comunista. Ora le posizioni sono molte, la politica è estremamente frazionata non solo in Italia ma in tutta Europa, come ha analizzato con meticolosa completezza Ezio Mauro su queste pagine venerdì scorso.

Non so fino a che punto questo dibattito interessi l'opinione pubblica italiana. Direi che interessa poco, eravamo in vergognoso ritardo rispetto a tutti gli altri Paesi d'Europa e d'America e il risultato ottenuto dal Pd di Renzi rimette finalmente a posto una situazione ormai insostenibile riconoscendole diritti finora ingiustamente ignorati. Renzi ha scelto, dopo qualche tentennamento, la via giusta per vincere con una larga maggioranza di voti: lo stralcio delle adozioni per far passare finalmente la legalizzazione delle coppie di fatto e unioni civili etero e omosessuali. Non poteva far meglio.

La discussione sulla fedeltà è ridicola. È evidente che non toglie assolutamente nulla alle coppie di fatto: la fedeltà c'è o non c'è e non esiste norma di legge che tenga se viene interrotta. Spesso l'interruzione è ignorata dall'altro coniuge o convivente che la subisce e il rapporto di coppia continua inalterato. Oppure è nota e il rapporto s'interrompe. Le coppie di fatto non possono ricorrere al divorzio ma questo è un regalo, si limitano ad informare l'autorità amministrativa che il loro rapporto ha cessato di esistere con le conseguenze amministrative che la cessazione comporta.

L'altro tema di discussione - che impegna soprattutto la sinistra del Pd - è il contributo di Verdini e del suo gruppo alla vittoria renziana. Ma anche questa critica mi sembra priva di fondamento. Se la sinistra ha accettato che Alfano facesse parte della maggioranza di governo, non si vede perché non possa accettare Verdini che è perfino più ragionevole di Alfano. Una nuova destra non populista e non berlusconiana è un tentativo ancora in una fase iniziale che sarebbe da incoraggiare, così come la Dc di Aldo Moro si alleò con i socialisti di Pietro Nenni e poi alcuni anni dopo addirittura con il Pci di Berlinguer, non solo per affrontare in forze tempi assai oscuri (quelli attuali non sono oscuri ma neri come l'inchiostro) ma anche per aiutare la nascita d'una destra moderna alla quale in un futuro auspicabilmente prossimo si fosse contrapposta una sinistra riformatrice. La separazione di Alfano da Forza Italia fu incoraggiata da Monti e da Enrico Letta, la cui tempra democratica di sinistra non è mai stata in discussione.

Dunque il preteso scandalo Verdini, a mio avviso, è inesistente e la discussione è oziosa. Il problema semmai è un altro: è di sinistra il Pd guidato da Renzi? E che cos'è la sinistra del ventunesimo secolo? Nell'Europa e nell'Italia di oggi? Questo dunque dovrebbe essere il tema da discutere. In questo chiassoso e confuso dibattito il termine più ricorrente è stato "famiglia", soprattutto da chi, dichiarandosi cattolico, avversava ogni riforma che in qualche modo intaccasse la solidità e l'unicità di quella tradizionale istituzione. È certamente vero che tutti noi usiamo il termine famiglia per designare la coppia di uomo e donna che ha celebrato il matrimonio e i figli che ne sono nati, ma quella parola non è appropriata né storicamente né religiosamente.

Storicamente il termine famiglia ha sempre designato non una ma molte più numerose comunità. Nella Roma classica la famiglia si identificava col nome del capo e comprendeva non soltanto i parenti anche lontani ma i "clientes", le persone che stabilmente lavoravano, i beni materiali che ne componevano il patrimonio, i servitori e gli schiavi. Quella famiglia aveva anche il nome, la gens Claudia o Giulia o Flavia o Marcia; insomma un'infinità di famiglie che costituivano la casta senatrice degli Ottimati. Ma ci sono anche le famiglie mafiose, anche quelle sono una casta che prende il nome del boss. Religione: Gesù odiava la famiglia e lo diceva pubblicamente fin dall'inizio della sua predicazione come raccontano almeno due dei vangeli sinottici. Infine anche un'unione di fatto, etero o omosessuale, può usare il termine di famiglia, lessicalmente è corretto, è una comunità di due persone ed i loro eventuali figli, naturali o adottivi.

Oltre ad avere ben meritato con la legislazione delle coppie di fatto e delle unioni civili, Renzi ha modificato in modo sorprendente la sua visione del futuro dell'Europa. Non posso nascondere che questo cambiamento mi fa molto piacere ed è venuto in modo assai repentino. Ancora l'11 febbraio scorso, in una lettera a me diretta e pubblicata su Repubblica, rispondendo alla proposta da me più volte sostenuta sulla necessità di istituire un ministro del Tesoro unico che gestisse le finanze dell'Eurozona, con un bilancio autonomo, un debito sovrano, il potere di emettere eurobond per finanziare investimenti pubblici e incentivare quelli privati, la lettera di Renzi dice: "La risposta ad una politica di rigore che fa soltanto danni, non è un superministro delle Finanze, ma la direzione della politica economica". Sono passati pochi giorni e Renzi ha presentato alle autorità europee un documento di nove pagine diviso in tre punti e una conclusione.

Il primo punto è intitolato: "A Fragile Recovery: Challenges and Opportunities " (è redatto in inglese). Il secondo punto è intitolato: "A Comprehensive Policy Mix". Dove si descrive un complesso di misure che realizzino una politica espansiva al posto di quella di austerità e rigore fin qui imposta dalla Commissione (e dalla Germania). Bisogna aumentare le capacità di crescita, sostenere la politica monetaria della Bce, varare una politica fiscale europea che tenda a riequilibrare le politiche nazionali aiutando la loro flessibilità in modo da ristabilire tra loro un equilibrio attualmente molto alterato. Completare l'Unione Bancaria ed estendere le garanzie in favore dei depositi bancari dei singoli Paesi. Fare intervenire l'Europa anche nelle politiche sociali e sindacali dei singoli Paesi, sempre al fine di rafforzare l'integrazione europea ed una politica di crescita e di equità. Rafforzare i confini europei verso il resto del mondo e smantellare al più presto possibile i confini interni ripristinati in molti Paesi violando il patto di Schengen. Dunque una politica comune dell'immigrazione più volte chiesta dall'Italia ma finora inesistente.

Infine il punto tre del documento che rappresenta, con un titolo altamente significativo, lo sbocco istituzionale della politica europeista delineata nelle pagine precedenti: "From the Short-term to the Long-term View" e così prosegue: "Una più forte comune politica monetaria ha bisogno di istituzioni comuni. Abbiamo bisogno d'una comune casa europea adottando un sistema comune. Queste funzioni debbono essere gestite da un ministro delle Finanze dell'Eurozona che persegua una comune politica fiscale. A questo scopo abbiamo bisogno d'un bilancio dell'Eurozona dotato delle risorse necessarie. Naturalmente questo ministro deve essere politicamente dotato di poteri per svolgere questo ruolo. Un ministro del genere deve far parte della Commissione europea e deve avere forti legami con il Parlamento di Bruxelles". Debbo dire: mi sono stropicciato gli occhi a leggere queste nove pagine del documento, la loro conclusione e il titolo che è tutto un programma. Bisogna passare da una politica a breve termine ad una visione a lungo termine: una frase nella quale c'è qualcosa che somiglia molto agli Stati Uniti d'Europa.

Sembrava che Renzi fosse andato inutilmente a Ventotene e invece il messaggio contenuto nel Manifesto firmato da Spinelli, Rossi e Colorni è stato, almeno così sembra, fatto proprio da Renzi che non si limita a invocare una politica di crescita e flessibilità economica, ma sceglie anche una bandiera che guidi l'opinione pubblica europeista e i governi che decidano di rappresentarla verso un radicale mutamento delle istituzioni: la visione di lungo termine, che però non può essere attesa senza darle subito un avvio. Bisognerà accendere una serie di motori e quello iniziale che dia inizio al percorso. Così accadde negli anni del dopoguerra con Adenauer, De Gasperi, Monnet, Schuman. Allora nacque la Comunità del carbone e dell'acciaio e furono firmati nel 1957 i Trattati di Roma. Assumere come guida politica quella bandiera dà all'Italia uno status politico completamente diverso da quello avuto finora. Non più un monello che chiede concessioni alla spicciolata, un miliardo per un progetto, un altro miliardo per un'iniziativa, alternando sorrisi e insulti alla maniera d'un questuante, ma rivendicando il progetto che fu fatto proprio dai fondatori dell'Europa ma che aspetta ancora d'essere attuato.

Se Renzi ha scelto sul serio questa strada, che non sarà certo di rapida attuazione, il suo compito è di prendere l'iniziativa di un'intesa dei Paesi che condividono l'obiettivo, consolidare l'identità di vedute con Mario Draghi affinché il motore politico si sposi a quello economico e monetario e ponga alla Germania il dilemma che quel Paese leader non può eludere. Aggiungo ancora che questo è anche il vero modo di rappresentare la sinistra. La domanda che prima ci siamo posti sulla vera natura della sinistra del ventunesimo secolo ha qui la sua risposta: la sinistra ha il compito di porsi l'obiettivo di costruire l'Europa federata che riformisti e moderati debbono far nascere insieme, come richiede una società globale governata da Stati di dimensioni continentali.

La sinistra italiana ed europea deve porsi alla testa di questo ideale e farne una concreta realtà dove le diseguaglianze siano rimosse e la produttività economica sia tutt'una con l'equità sociale, la comunione dei valori, il riconoscimento dei diritti e dei connessi doveri, la separazione dei poteri che  gioia e la bandiera stellata europea, come ha proposto Laura Boldrini, divengano i simboli della Nazione Europa. Da questo punto di vista ben venga il Partito democratico se lotterà affinché la Nazione Europa diventi una realtà.


http://formiche.net/2016/01/17/scalfari-strapazza-lettianamente-renzi-sulleuropa/


 

giovedì 25 febbraio 2016

Quer pasticciaccio brutto

Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana / Carlo Emilio Gadda


Incipit: 
 
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo detto "latino", benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne ...



Un romanzo che richiede una seconda lettura per superare alcuni ostacoli, ma la fatica è ben ripagata. Ci sono dei passi entusiasmanti e delle acrobazie linguistiche che fanno scattare l'applauso, almeno il mio.
Perché leggerlo? Perché è un classico della letteratura italiana ed i classici bisogna leggerli: sono libri più densi degli altri, arricchiti da anni e anni di letture e di interpretazioni, di analisi critiche. Il tempo è poco per cui bisogna scegliere ciò che vale di più e cogliere i fiori più profumati.
La storia e coinvolgente ed i personaggi sono vivi. La lettura mi ha messo davanti una Roma poco trafficata, non rumorosa, un po' polverosa, con tanta campagna intorno ancora vergine. Una Roma plebea, popolare e impiegatizia. Ma anche piena di colori nei mercati e nella folla. Quando un libro ti porta a vivere in un mondo diverso, insieme con i suoi personaggi, ha raggiunto un grande risultato.
E poi c'è il linguaggio, spesso difficile, talvolta incomprensibile, ma che rappresenta pur tuttavia una sfida da superare per entrare in una dimensione nuova. Ci sono descrizioni e brani che suscitano sorpresa, meraviglia, stupore anche per la grande capacità di Gadda di presentarci con ironia situazioni e personaggi. Questo romanzo è una festa di fuochi artificiali.



I personaggi:


Gli inquilini di Via Merulana 219

- Liliana Valdarena Balducci, la vittima, moglie di
- Remo Balducci
- la signora Menecacci (Menegazzi), vittima del furto dei gioielli
- Commendator Angeloni, funzionario coinvolto nelle indagini sul furto alla Menegazzi
- Lulù, la cagnina pechinese che sparisce dopo il delitto
- Manuela Petacchioni, la pettoruta portiera di Via Merulana

Le forze dell'ordine
- Francesco Ingravallo, detto Don Ciccio
- il dottor Fumi, capo napoletano di Don Ciccio
- Gaudenzio Deviti, detto "er Biondone", agente in borghese
- Pompeo Porchettini, detto "lo Sgranfia", agente in borghese
Carabinieri di Marino
- Fabrizio Santarella, maresciallo
- Pestalozzi, brigadiere
- Cucullo, carabiniere
Nipoti e domestiche dei Balducci

- Gina, una delle innumerevoli "nipoti" di Liliana, come
- Assunta (Tina) Crocchiapani e come
- Virginia Troddu e come
- Ines Cionini, arrestata peri prostituzione
I sospetti

- Giuliano Valdarena, il bel cugino di Liliana, sospettato dell'assassinio
- Enea Metalli, detto Iginio, l'autore delle rapina alla Menegazzi
- Diomede Lanciani, ex fidanzato di Ines Cionini
- Ascanio Lanciani, fratello di Diomede, ha fatto il palo durante il furto
- Camilla Mattonari, nasconde nel pitale la refurtiva di Enea Metalli, cugina di
- Lavinia Mattonari
- Ines Cionini
Altri personaggi
- Don Lorenzo Corpi, il confessore di Liliana
- Zamira Pacori, gestisce la bettola lavanderia ai Due Santi,


La filosofia di Ingravallo

Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo"

Il romanzo in sé è proprio uno "gnommero", un gomitolo nel quale si avvolgono, spesso in modo confuso, le storie e le azioni dei tanti personaggi. Non a caso, nel passo sopra riportato sembra che ci sia una opposizione tra "le causali" (nel senso di una ricerca razionale, causa-effetto) e il concetto di gomitolo, cioè un'idea di confuso groviglio, inestricabile e irrisolvibile, come sarà in fondo l'inchiesta di Ingravallo e, più in generale, come appare la vita e la realtà.


Interessante la nota critica di Pasolini (1958, da Passione e ideologia)

La drammaticità ... consiste nell'urto violentissimo tra una realtà oggettiva (non si può immaginare nulla di più oggettivo di un romanzo poliziesco d'ambiente, com'è questo nello schema) e 'una realtà soggettiva (il narratore) incompatibili ideologicamente e stilisticamente tra loro.
Tale urto dell'io contro il mondo avviene intanto, concretamente, contro mille dati particolari: dall'esame stilistico della componente dialettale ci risulta infatti come l'Italia, e nella fattispecie Roma, si presentino a Gadda come una Babele, un coacervo di tre strati linguistici, che rappresentano tre culture a diversi livelli: il linguaggio letterario (cultura europea della poesia d'avanguardia), la koinè (cultura della -piccola borghesia prima fascista, poi democristiana), dialetto (cultura delle classi operaie, che qui sono meridionali, e quindi di tipo sottoproletario).
Ma a parte questi urti, diciamo, particolari, c'è un urto totale, assoluto, che risulta, come abbiamo visto, dalla incapacità tecnica di Gadda a fare (se non per «allusione») un racconto diretto, logico e storico. Quindi: in Gadda sussiste la certezza di una realtà oggettiva che può essere mimetizzata e rappresentata (secondo formula, per intenderci, verghiana): ma è una certezza sopravvivente dalla cultura positivistica e laica al cui lembo estremo Gadda (ch'è ingegnere) si è formato: a questa certezza si sovrappone una effettiva incertezza, il senso lirico della vanità e del nulla, di tipo religioso e stoico che appartiene alla cultura in cui Gadda per coazione e per reazione è vissuto e ha operato... Gadda dunque ci si presenta nel Pasticciaccio come esagitato e schiacciato tra due errori: il sopravvivente positivismo naturalistico di un liberale prefascista di destra, ed il coatto lirismo deformante di un antifascista limato e disgregato dall'impari lotta con lo stato.


http://renatofianco.blogspot.it/2009/12/quer-pasticciaccio-brutto-de-via.html

mercoledì 24 febbraio 2016

Ida Magli e il femminismo



Alessandra Pigliaru
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l'iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie

il manifesto, 23 febbraio 2016

... In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».

domenica 21 febbraio 2016

Apocalittici e integrati




Marco Belpoliti
Fortuna e storia di un titolo 
Doppiozero, 2 luglio 2014

Quando alla fine del 1963 Umberto Eco porta a Valentino Bompiani, suo editore, il dattiloscritto di quello poi che sarà Apocalittici e integrati, non sa ancora di aver coniato uno dei titoli più fortunati del secondo dopoguerra, una vera e propria formula, che dominerà in tutte le discussioni a seguire sui mass media: fumetti, televisione, computer, web. Un’endiadi che funziona ancora oggi per descrivere il campo dei pessimisti e degli ottimisti, dei critici e degli entusiasti.

In verità, quel titolo non è proprio opera del giovane studioso di estetica; se ne stava annidato in una piccola sezione finale. Eco vuole intitolare il libro Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa. Bompiani, che di editoria se ne intende, lo guarda e gli dice: “Ma lei è matto”. Eco prova a correggere: “Diciamo allora, Il problema della cultura di massa”. Bompiani sfoglia il dattiloscritto e trova quel titoletto finale. “Eccolo!”. Eco replica. “Ma non c’entra nulla con il resto del libro”. “C’entra, c’entra”, risponde l’editore. Così l’autore è costretto a scrivere un’ampia introduzione per giustificare il titolo.

Sono passati cinquant’anni e questo è ancora uno dei libri più famosi del semiologo, ma forse uno dei meno amati da lui. Nel corso degli anni si è ben guardato dal rimetterci mano, come ha invece fatto con Opera aperta e altre opere successive. Il successo fu immediato, anche grazie alle recensioni critiche. Pietro Citati, nel suo pezzo su “il Giorno”, apparso nell’ottobre del 1964 e titolato “La Pavone e Superman a braccetto con Kant”, si mostra molto preoccupato. Eugenio Montale non si lascia sfuggire l’occasione per un pezzo su “il Corriere della sera”, articolo semi-apocalittico e di stampo pessimistico.

L’accoglienza della stampa comunista è invece un po’ più favorevole, anche se con qualche punta critica, quella di Vittorio Spinazzola su “Vie nuove”, settimanale del PCI. Se ne occupa persino il “Times Literary Supplement” con un articolo abbinato a un fumetto ricopiato da Lichtenstein: un cane che fa “Sniff sniff sniff”. Forse ancora più che con Opera aperta, il libro della nascente neoavanguardia, apparso poco prima, è con Apocalittici e integrati che Eco diventa un intellettuale di rilievo nella cultura italiana, e non solo lì.

In Sudamerica è ancora oggi, ha detto di recente a un convegno dedicato al libro, una delle sue opere più note e citate. Ma di cosa parla questo libro? Del Kitsch, per esempio, prima che esca la celebre antologia di Gillo Dorfles del 1968. Dei fumetti, con una serrata analisi di Steve Canyon, Superman, e Charlie Brown, con un saggio davvero innovativo, ben presto tradotto in inglese. Poi di canzonette, della produzione meccanica della musica e della televisione (è uno dei primi studi, dieci anni dopo la nascita di questo mezzo). Il bersaglio polemico del libro è un intellettuale allora di moda, pubblicato dal medesimo editore, Elémire Zolla, campione degli apocalittici.

Come Eco è arrivato a occuparsi di questi temi ritenuti di cultura “bassa”? Grazie alla sua passione per i fumetti, per la letteratura popolare, in genere, per il rapporto tra parola e immagine, come ha rivelato molti anni dopo nelle pagine del romanzo semiautobiografico La misteriosa fiamma della regina Loana. Nel 1961-62 il giovane studioso era stato invitato a un convegno su “Demitizzazione e immagine” da Enrico Castelli, intellettuale e studioso oggi dimenticato. Vi devono partecipare Kerényi, Ricoeur e vari teologi. Eco pensa di parlare del mito nei fumetti.

Ha un armadio con decine e decine di copie di albi con le storie a colori di Superman. Sono un mito del nostro tempo, pensa. Così si porta dietro gli album e va a Roma. Posa la pila dei fumetti sul tavolo dei relatori e comincia a parlare. L’effetto è un interesse immediato, tanto che dal ripiano, racconta, spariscono alcuni album. Nel 1977, ricapitolando la storia della nascita del libro in una riedizione tascabile del volume, Eco spiega come sono nati i vari saggi del libro, e anche altri che non sono stati non inclusi, e come la vera ragione della pubblicazione fosse un concorso universitario per una cattedra di “Pedagogia e psicologia delle comunicazioni di massa”, che poi non vince.

La domanda che i lettori si fanno a partire dal momento della pubblicazione è: Eco è un apocalittico o integrato? Walter Pedullà su “l’Avanti” risponde che è un terzaforzista tra apocalittici e integrati: “un realista che accetta il dialogo e fa concessioni per non perdere tutto. E il suo libro è una sorta di splendido memoriale di Yalta sulla cultura di massa”. Forse in questo dilemma, rovesciato sulla cultura italiana, ma anche di riflesso su se stesso, sta la ragione del successo dell’opera. A distanza di tempo l’autore si chiederà perché non fu capito: perché ambiguo, problematico o dialettico? Forse i suoi critici e lettori avevano bisogno allora di una risposta a tutto tondo, bianca o nera, un sì oppure un no, giusto o sbagliato: “come se fossero stati inquinati dalla cultura di massa”.

L’osservazione di Eco è interessante, perché questa è ancora la situazione attuale che vige nella società italiana di fronte ai prodotti della cultura di massa: respingerli o assumerli? Web come peste, e prima la televisione, oppure indispensabile strumento di comunicazione? Social network sì o no? La schiera degli apocalittici è ancora folta; un esempio recente è il Premio Nobel Vargas Llosa che scaglia contro la cultura di massa; e tra gli integrati Carlo Freccero, guru televisivo, con il suo Televisione (Bollati Boringhieri). Leggendo la prefazione estorta da Bompiani, si capisce come Eco usi gli apocalittici contro gli integrati e viceversa, come trovi ragioni negli uni come negli altri, ma senza essere un terzaforzista, come sosteneva Walter Pedullà cinquanta anni fa.

Né apocalittici né integrati, questo sembra l’atteggiamento buono anche per il presente, che Eco, a quel tempo gran appassionato di cultura di massa, mostra in azione attraverso le sue intelligenti analisi (l’uso del personaggio come tema innovativo). Gli esempi sono numerosi. Prendiamo il Kitsch, questione che ha occupato molti autori, tra cui Milan Kundera e Italo Calvino, diventando un tormentone per la cultura contemporanea. Eco mostrava nel 1964 come le avanguardie artistiche avessero utilizzato il Kitsch, così come il Kitsch aveva fatto con l’alta cultura (nella definizione, anno 1939, del critico americano Greenberg, il Kitsch è ciò che usa gli effetti dell’arte). Un atteggiamento che Eco ha poi rinnovato con la nozione di “guerriglia semiologica”, altra formula entrata nel circuito della discussione culturale nel decennio successivo.

Eco è senza dubbio uno straordinario creatore di temi e formule – e anche di feticci culturali – che gli permettono, tra l’altro, di non farsi mai trovare là dove ci si aspetti: scarta sempre di un po’. La polemica tra apocalittici e integrati continua anche ora con risultati alterni, dato che nessuno riesce a sopravanzare gli avversari. Nella prefazione del 1964 l’autore fa notare come esistono proprio quei “concetti feticcio”, come “industria culturale”, allora di gran moda grazie ad Edgar Morin, di cui lui stesso ha fatto, più o meno volontariamente, uso. Scrivendo che l’industria culturale nasce con Gutenberg, Eco spiazza il dibattito, e allarga la prospettiva temporale.

La vera lezione, quella che resta attuale, è lo studio concreto dei prodotti culturali e dei modi in cui vengono consumati – aspetto importante –, indispensabile per capire il mondo che ci circonda. Sapere prima che giudicare. Gli apocalittici non lo fanno quasi mai, ma neppure gli integrati, entusiasti senza perché, non pare si cimentino frequentemente. Dopo cinquant’anni, nonostante il suo naturale invecchiamento – ma si legge ancora con piacere –, il libro resta una lezione di metodo pratico. Per fortuna sua, e nostra, non si è intitolato Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa, ma se questo fosse stato il titolo, c’è da chiedersi se avrebbe avuto il medesimo effetto sui lettori. Colpo di genio o sfacciata fortuna? La dea bendata, si sa, aiuta quasi sempre gli audaci.

venerdì 19 febbraio 2016

I treni di Tozeur



Nei villaggi di frontiera guardano passare i treni
le strade deserte di Tozeur
da una casa lontana tua madre mi vede
si ricorda di me delle mie abitudini.
E per un istante ritorna la voglia di vivere
a un'altra velocità
passano ancora lenti i treni per Tozeur.
Nelle chiese abbandonate si preparano rifugi
e nuove astronavi per viaggi interstellari
in una vecchia miniera distese di sale
e un ricordo di me come un incantesimo
E per un istante
ritorna la voglia di vivere
a un'altra velocità 

Passano ancora lenti i treni per Tozeur
Nei villaggi di frontiera guardano passare
i treni per Tozeur. 

°°° 

"I treni di Tozeur" è semplicemente magnifica, metafore, assonanze, musiche a metà strada tra l'illusione e la realtà, un filo di luce si staglia nella Galassia "e per un istante ritorna la voglia di vivere a un'altra velocità".
https://www.debaser.it/franco-battiato/mondi-lontanissimi/recensione













giovedì 18 febbraio 2016

Prévert, Barbara




Ricordati Barbara
Pioveva senza tregua quel giorno su Brest
E tu camminavi sorridente
Raggiante rapita grondante, sotto la pioggia
Ricordati Barbara
Pioveva senza tregua su Brest
E t'ho incontrata in rue de Siam
E tu sorridevi, e sorridevo anche io
Ricordati Barbara
Tu che io non conoscevo
Tu che non mi conoscevi
Ricordati, ricordati comunque di quel giorno
Non dimenticare
Un uomo si riparava sotto un portico
E ha gridato il tuo nome
Barbara
E tu sei corsa incontro a lui sotto la pioggia
Grondante rapita raggiante
Gettandoti tra le sue braccia
Ricordati di questo Barbara
E non volermene se ti do del tu
Io do del tu a tutti quelli che amo
Anche se non li ho visti che una sola volta
Io do del tu a tutti quelli che si amano
Anche se non li conosco
Ricordati Barbara, non dimenticare
Questa pioggia buona e felice
Sul tuo viso felice
Su questa città felice
Questa pioggia sul mare, sull'arsenale
Sul battello d' Ouessant
Oh Barbara, che sciocchezza la guerra
E cosa sei diventata adesso
Sotto questa pioggia di ferro
Di fuoco acciaio e sangue
E lui che ti stringeva fra le braccia
Amorosamente
È forse morto disperso o invece vive ancora
Oh Barbara
Piove senza tregua su Brest
Come pioveva prima
Ma non è più cosi e tutto si è guastato
È una pioggia di morte desolata e crudele
Non è nemmeno più bufera
Di ferro acciaio sangue
Ma solamente nuvole
Che schiattano come cani
Come cani che spariscono
Seguendo la corrente su Brest
E scappano lontano a imputridire
Lontano lontano da Brest
Dove non c'è più niente

°°°

Rappelle-toi Barbara
Il pleuvait sans cesse sur Brest ce jour-là
Et tu marchais souriante
Epanouie ravie ruisselante Sous la pluie
Rappelle-toi Barbara
Il pleuvait sans cesse sur Brest
Et je t'ai croisée rue de Siam
Tu souriais, et moi je souriais de même
Rappelle-toi Barbara
Toi que je ne connaissais pas
Toi qui ne me connaissais pas
Rappelle-toi, Rappelle-toi quand même ce jour-là
N'oublie pas
Un homme sous un porche s'abritait
Et il a crie ton nom
Barbara
Et tu as couru vers lui sous la pluie
Ruisselante ravie épanouie
Et tu t'es jetée dans ses bras
Rappelle-toi cela Barbara
Et ne m'en veux pas si je te tutoie
Je dis tu a tous ceux que j'aime
Même si je ne les ai vus qu'une seule fois
Je dis tu a tous ceux qui s'aiment
Même si je ne les connais pas
Rappelle-toi Barbara, n'oublie pas
Cette pluie sage et heureuse
Sur ton visage heureux
Sur cette ville heureuse
Cette pluie sur la mer, sur l'arsenal
Sur le bateau d'Ouessant
Oh Barbara, quelle connerie la guerre
Qu'es-tu devenue maintenant
Sous cette pluie de fer
De feu d'acier de sang
Et celui qui te serrait dans ses bras
Amoureusement
Est-il mort disparu ou bien encore vivant
Oh Barbara
Il pleut sans cesse sur Brest
Comme il pleuvait avant
Mais ce n'est plus pareil et tout est abîmé
C'est une pluie de deuil terrible et désolée
Ce n'est même plus l'orage
De fer d'acier de sang
Tout simplement des nuages
Qui crèvent comme des chiens
Des chiens qui disparaissent
Au fil de l'eau sur Brest
Et vont pourrir au loin
Au loin très loin de Brest
Dont il ne reste rien.

mercoledì 17 febbraio 2016

Regeni, il clamore mediatico

 



Condivido tutto quanto argomenta Ugo Tramballi. Purtroppo la gran parte dei nostri media ha sparato pseudo notizie on molta sicumera ignorando non solo il dolore dei genitori e degli amici, presentando l' attivita di ricerca come qualcosa di ambiguo se non riprovevole, gettando discredito sui supervisor di Cambridge, accusando il governo italiano di tacere, di voler insabbiare. In tutto questo le persone che si sono comportate con correttezza e umana empatia sono l'ambascuatore italiano al Cairo, la ministra Guidi, i veri amici e colleghi in loco che giustamente parlano solo con gli inquirenti. Il lavoro serio d'indagini ha bisogno di austero silenzio. (Anna Maria Gentili)


Ugo Tramballi
 I pericoli della corsa allo scoop
Il Sole 24ore, 17 febbraio 2016

È essenziale che si continui a parlare di Giulio Regeni, che si tenga alta l’attenzione di un’opinione pubblica naturalmente distratta da troppi problemi, troppe notizie, troppi siti. Al Cairo una parte del potere egiziano conta di prenderci per stanchezza, sperando che prima o poi la nottata passi. Ma occuparci del caso è un conto, trasformarlo in un intrigo internazionale è un altro. Ancora qualche giorno e Giulio Regeni diventerà Lawrence d’Arabia.
Era accorato e doloroso l’appello dei genitori: Giulio non era una spia. A un certo punto della loro vita, noi genitori incominciamo a non sapere quasi più nulla dei nostri figli. Ma quell’appello era una ribellione contro il montare di una pericolosa panna acida mediatica; avrebbe dovuto spingere tutti alla moderazione e all’equilibrio. L’invocazione dei genitori di Giulio è stata ignorata. Come già la settimana scorsa Il Manifesto aveva ignorato il loro primo appello: quello di non pubblicare il reportage che Giulio aveva scritto per quel giornale. Per un presunto primato del diritto d’informazione, i timori di due genitori devastati dalla loro tragedia sono stati scavalcati. Il Manifesto aveva anche trasformato Giulio nel suo eroe: come ammesso ieri dallo stesso giornale, Regeni aveva invece scritto per loro un solo pezzo.
Poi è saltato fuori che Giulio aveva collaborato con Oxford Analitica, una organizzazione che approfondisce gli avvenimenti internazionali e ogni tanto fa intelligence a pagamento. Ce ne sono molte in Occidente. Ma Oxford Analitica è diventata la Spectre. E il ritrovamento del corpo di Giulio proprio quando al Cairo c’era una nostra missione economica, un complotto contro l’Italia.
In questo momento, spaventati dal terrorismo e suggestionati dalla propaganda governativa, gli egiziani diffidano di ogni straniero. Anche l’iscrizione al club di Topolino oggi sarebbe una ragione di sospetto. Per gli studi che conduceva, Giulio era una spia più che potenziale per i numerosi Mukhabarat egiziani, tutti certi di avere una totale impunità rispetto alle loro azioni. Potrebbe esserci anche una risposta più semplice alla concomitanza fra ritrovamento del suo corpo e missione italiana: forse gli egiziani erano convinti che ci saremmo accontentati, che l’ambasciatore Maurizio Massari avrebbe smesso di bussare alle porte, il governo finalmente taciuto e le imprese continuato a fare affari.
Il mestiere del cronista è bellissimo ma molto difficile. Lo si impara passando le nottate nella sala stampa della Questura a leggere brogliacci e giocare a carte con gli agenti di turno. O camminando e camminando per le strade del Cairo, studiando la sua gente: quella in alto e quella in basso. Chi ha avuto la fortuna di passare per questa scuola variegata è un buon cronista, gli altri credono sia solo una questione di scoop. I primi sviluppano un senso essenziale di pietà umana quando cercano la notizia. Gli altri no.

lunedì 15 febbraio 2016

Bosch, Il giardino delle delizie



Matteo Mancini
Il Bosch restaurato
la Repubblica, sd

Restaurato dal Museo del Prado il "Giardino delle delizie" di Bosch. Un'opera singolare, ma composta nell'ambito dell'ortodossia cattolica del '500

Quasi cinquecento anni sono passati da quando, il 30 luglio del 1517, Antonio de Beatis, un italiano che accompagnava il cardinale Luigi di Borbone in un viaggio nelle Fiandre, lasciò la prima stupefatta descrizione del "Giardino delle delizie" di Jeronimus Bosch (1450 ca. - 1516). Infatti, durante il soggiorno presso il Palazzo di Enrico III di Nassau, Antonio ebbe modo di vedere numerosi quadri, ma l'unico per il quale non seppe trovare una definizione precisa fu proprio il trittico del maestro fiammingo, limitandosi alla descrizione delle "sue diverse fantasie che rappresentano mari, cieli, boschi, pascoli e molte altre cose..."

Il problema di questo singolare e colto viaggiatore italiano non era determinato da una sua incapacità, ma dalla complessa struttura iconografica del dipinto, che ancora oggi rimane per molti aspetti uno dei grandi enigmi della storia dell'arte occidentale, oggetto di molteplici interpretazioni e speculazioni. Eppure il dipinto, come hanno dimostrato gli studi più recenti e in un certo senso anche la sua storia materiale, è tutt'altro che il frutto di una mente dissociata o di un fanatico membro di una setta segreta. E il recente restauro presso i laboratori del Museo del Prado di Madrid conferma che Bosch dipinse un quadro difficile da interpretare ma pur sempre nell'ambito dell'ortodossia cattolica, dei suoi precetti, delle sue fobie. Per queste ragioni si tratta di un restauro attraverso il quale non ci si è limitati a restituire alla tavola del maestro fiammingo i suoi colori originari ma si sono voluti riaprire i termini d'indagine e di ricerca sul senso del dipinto e sulla sua storia.

Non sappiamo con certezza quando Bosch diede l'ultima pennellata al "Giardino delle delizie", però possiamo circoscrivere la sua realizzazione in un arco cronologico compreso tra il 1503 e il 1506, quando il pittore stava ricevendo le prime commissioni dall'arciduca Filippo il Bello, e stava riscuotendo un certo successo con il suo stile enigmatico e differente rispetto alla tradizione figurativa fiamminga. Per Filippo il Bello Bosch dipinse la grande tavola del "Giudizio finale con il paradiso e l'inferno", l'unico dipinto che supera per dimensioni "Giardino delle delizie", e che di norma viene datato 1504. Le affinità stilistiche tra le due opere sono evidenti, dimostrando soprattutto di appartenere al momento più maturo del pittore, una fase che la critica è solita situare a partire dal 1500. Inoltre, a parte le considerazioni stilistiche, l'appartenenza del dipinto alla collezione di Enrico di Nassau ha fatto sorgere l'ipotesi di identificarne il committente in questo personaggio, che avrebbe affidato al pittore le sue aspirazioni di emulare l'arciduca. Successivamente, verso il 1568, il dipinto passò a formar parte della collezione di Fernando di Toledo, figlio naturale del duca d'Alba, il terribile governatore spagnolo delle Fiandre. Alla morte di Fernando, nel 1591, lo comprò il re di Spagna, Filippo II, che lo fece mandare al Monastero di San Lorenzo de El Escorial già nel 1593, come era solito fare con i suoi migliori dipinti di tema religioso. Eppure la tavola non venne destinata alle sale dei monaci, ma alle dipendenze del Palazzo, forse per la singolarità del soggetto rappresentato, e ancor più facilmente per le attività dei personaggi che lo popolano; ma non si deve pensare a una censura, tutt'altro. Secondo il padre Siguenza, lo storiografo ufficiale del monastero, i soggetti rappresentati nel dipinto "non sono follie, ma libri di grande prudenza e artificio, e se ci sono follie sono le nostre e non le sue, per dirlo una volta per tutte sono una satira dipinta dei peccati e delle pazzie dell'uomo". Siamo nel 1605 in pieno dibattito sulle immagini e il padre Siguenza è tra i più ortodossi difensori della coerenza tra contenuti e forma in materia artistica.

Indirettamente gli anni successivi confermano che il dipinto di Bosch non si trovava affatto fuori luogo all'Escorial, dove rimase fino al 1939, con l'unica eccezione degli anni della guerra d'indipendenza spagnola. A partire dal 1939 il dipinto venne trasferito in deposito presso il Museo del Prado, attirando immediatamente l'attenzione della critica e del pubblico.

Il "Giardino delle delizie" è un dipinto singolare, uno di quelli che affascinano e coinvolgono lo spettatore e gli fanno perdere il senso dello spazio e del tempo. La moltitudine delle sue figure, la stravaganza delle loro attività e posizioni lo trasformano in un immagine inesauribile, al punto che pochi di coloro che lo hanno visto, anche in più di un'occasione, sono in grado di ricordarne i dettagli, ma nessuno è in grado di dimenticare l'esperienza di averlo contemplato.

Oggi è il caso di ripetere quell'esperienza o di provarla per la prima volta, perché la grande tavola è stata alleggerita dal peso e dalle sofferenze degli anni. Per la prima volta ci possiamo approssimare ai colori e alle immagini che dovettero godere Enrico di Nassau, Antonio de Beatis e Filippo II. Come è facile immaginare il processo di restauro di un dipinto del genere non è mai facile e richiede un'attenzione particolare, bisogna curare tutti gli aspetti, da quelli storico artistici a quelli tecnici, passando per tutto ciò che riguarda la composizione materiale del dipinto.

Il "Giardino delle delizie" è un trittico in legno di rovere che tratta un complesso tema biblico ispirato alla Genesi. La sua lettura e interpretazione devono procedere in maniera contestuale tra l'interno e l'esterno, considerati come parti integranti di un medesimo discorso. Con gli sportelli chiusi ci troviamo di fronte alla rappresentazione del terzo giorno della creazione in presenza del Dio padre, raffigurato nella parte superiore dello sportello di sinistra. La terra, il cielo e le acque vengono dipinte secondo la tradizione precedente alla scoperta del continente americano. Il tutto viene accompagnato dalle parole latine "Ipse dixit et facta sunt, ipse mandavit et creata sunt", unico messaggio lasciato da Bosch, per intendere il significato più profondo del suo dipinto e l'assoluta fiducia nell'onnipotenza della divinità. Rimanendo ancora all'esterno notiamo come la pittura, strumento proprio dell'artista, si trasformi in un potente strumento semantico, destinato a rafforzare il senso complessivo dell'opera. Allora, nel momento della creazione, non c'è bisogno di colore, la terra, il mare il cielo sono dipinti in chiaroscuro, con sottili giochi di luci, ombre e velature, che, tra l'altro, con il restauro hanno ritrovato la loro funzione: esaltare lo spettacolo dei tre pannelli interni.

Il primo dei pannelli interni, quello della sinistra, raffigura la natura in tutto lo splendore e il suo equilibrio nel momento in cui il Dio padre, raffigurato però nelle sembianze del figlio, offre la mano di Eva ad Adamo. Sullo sfondo la fontana della vita e l'albero del male intorno al quale si avvolge sinuoso il serpente del peccato. Il male ancora non si è consumato, ma latente aspetta l'errore umano. La grande tavola centrale mostra con colori sgargianti e figure dinamiche le azioni ambigue e ingannatrici del male sull'uomo. Bosch, e chi gli consigliò i temi da trattare nel dipinto, censurarono in maniera evidente tutti i comportamenti lascivi, dettati dalla sfrenata ricerca del piacere sessuale, come per esempio la sodomia. Le dimensioni delle figure perdono di senso e gli animali, i frutti, gli alberi diventano più grandi dell'uomo e lo sovrastano, riducendo in termini simbolici il suo libero arbitrio e coinvolgendolo in una spirale sfrenata di piacere, in un perverso circolo vizioso. Ben rappresentato sul fondo dalla cavalcata circolare degli uomini intorno alle donne che si stanno sollazzando in un laghetto cristallino, ma nessuno di loro è in grado di liberarsi, di sfuggire o affrancarsi dal dominio dei sensi.

Le figure e le identità dei personaggi sono ben dissimulate, gli uomini sembrano essere dei manichini di cera privi di controllo. Siamo molto distanti dalla tradizione figurativa fiamminga di quegli anni nella quale dominava un naturalismo descrittivo e minuzioso, che esalta le identità individuali dei personaggi dei dipinti. Nel pannello di destra, l'ultimo e più drammatico, viene rappresentato l'Inferno, il luogo destinato a l'espiazione dei peccati commessi in precedenza. Gli uomini vengono sottoposti a una serie di sofferenze e patimenti crudeli. La scena è dominata dal cosiddetto "Uomo albero", alter ego metaforico, ma non troppo, del demonio, che con il suo sorriso ambiguo e infingardo guarda direttamente lo spettatore, senza alcuna mediazione.

L'Uomo albero è una delle poche figure di grandi dimensioni sopravvissute al processo di elaborazione del dipinto da parte di Bosch. Nelle stesure iniziali, come hanno dimostrato gli studi radiologici, ce ne erano molte di più, però la loro presenza rendeva la composizione assai più caotica e confusa, impedendone una lettura lineare. Tali cambiamenti d'impostazione si possono notare soprattutto nella tavola centrale e in quella dell'Inferno. In alcuni casi, per il deperimento della superficie pittorica, è possibile apprezzare il disegno originario delle immagini.

I cambiamenti nell'impostazione di alcune figure sono molto importanti al momento di determinarne l'interpretazione. È il caso del Dio padre del pannello della sinistra, la mano che tiene quella di Eva ha subito un importante correzione, come anche la posizione della testa che nella stesura finale dirige lo sguardo verso lo spettatore e non verso Eva.

Nel loro complesso i pentimenti e le variazioni introdotte da Bosch rivelano un fare pittorico, rapido, deciso e preciso nella stesura e nella correzione, segno di un programma artistico lucido e consapevole che solo doveva fare i conti con la materialità della composizione figurativa e con la coerenza tra il linguaggio e la forma del dipinto.

...


http://www.dailybest.it/pittura/bosch-giardino-delizie-sito/
https://www.youtube.com/watch?v=V8FHGuZZPOc

domenica 14 febbraio 2016

Concezione, le fave e i cardi




Donata Marrazzo
Concezione, che zuppa!
Il Sole 24ore, 27 gennaio 2013

Il mondo offeso di Elio Vittorini vive ai confini della memoria nel suo viaggio verso l'isola arcaica, una «piccola Sicilia ammonticchiata di nespoli e tegole e rumore di torrente». Con la musica delle zampogne che sale nell'aria, «perfettamente nuvola o neve». O «cicale scoppiate al sole». In treno da Milano a Siracusa, il tipografo Silvestro torna alla sua infanzia. Nello scompartimento una galleria di personaggi umili gli scuote la coscienza, «in cerca di doveri più grandi»: parte da qui Conversazione in Sicilia, un capolavoro letterario che è anche opera politica contro il fascismo, surreale, simbolica, a tratti verista.
È ora di pranzo quando Silvestro ritrova la madre in una di quelle «case cantoniere schiacciate a terra dalla solitudine». «Signora Concezione, dissi». E una donna alta con i capelli castani e il mento duro apparve nella stanza. In cucina un'aringa cuoceva sul braciere: profumo d'infanzia, come quello della minestra di fave e cardi o delle lenticchie con cipolla e pomodori secchi. Affiorano a tavola tutti i sapori buoni di un tempo: anche le chiocciole con la cicoria dove «tutto il gusto è a succhiare il guscio…», i mostaccioli di fichidindia, la mostarda. La ricetta della zuppa di fave e cardi prescrive di lessare le fave e passarle al setaccio con l'acqua di cottura. Preparate un soffritto con olio e cipolla, unitevi la purea. Lessate con poco sale i cardi, tagliateli a strisce sottili e mescolateli alle fave, aggiungendo brodo vegetale o di manzo.
Ingredienti
500 gr. di fave,
1 kg. di cardi,
mezzo bicchiere di olio d'oliva,
1 cipolla,
brodo, sale, pepe

sabato 13 febbraio 2016

Wu Ming, addio alla storia


Michele Smargiassi
Noi Wu Ming diciamo addio alla Storia”
Il collettivo di autori si congeda dal genere con “L’invisibile ovunque” sulla Grande guerra
la Repubblica, 27 novembre 2015


BOLOGNA In un chiostro del mistico labirinto delle sette chiese di Santo Stefano, la nebbia di novembre inumidisce l’anagrafe di marmo del grande macello di un secolo fa. Assieme ai Wu Ming, i quattro autori “senza nome” del collettivo di scrittura bolognese che vent’anni fa rivoluzionò il romanzo storico in Italia, passeggiamo in laica meditazione fra le lapidi ai caduti della Prima guerra mondiale. Ossia l’epoca in cui si svolgono i quattro racconti di “L’invisibile ovunque” (Einaudi). Il libro che per loro, Wu Ming, segna l’evasione dalla loro stessa storia, verso terreni nuovi della narrazione.
Neppure voi avete resistito alla tentazione del centenario, quindi?
«Le librerie sono piene di rievocazioni, in montagna si imbellettano i camminamenti e si lucidano i fili spinati per i pacchetti turistici, ma l’occasione l’hanno colta in pochi. L’occasione di riflettere su quanto quella guerra abbia condizionato pesantemente il nostro presente. Si è preferito un anniversario di retorica della conciliazione. La cultura italiana è tornata indietro anche rispetto all’antiretorica pacifista di Uomini contro, si è recuperato perfino l’interventismo democratico. Una volta prestato l’omaggio rituale al cliché della “inutile strage”, si è archiviata la grande guerra come una sorta di catastrofe naturale, deprecabile, inevitabile. Si è come ricucito chirurgicamente un trauma storico e politico. Ma il filo è marcito sulle ferite...».
È un libro-verità, il vostro, allora?
«No. Non è “il grande romanzo dei Wu Ming sulla guerra”, qualcuno forse si aspettava le ottocento pagine epiche, forse è il libro più sottile che abbiamo mai scritto (ma solo in apparenza, perché è denso come un file zippato…). Per noi il modo di chiudere quel percorso ventennale attraverso il romanzo storico che iniziò nel ‘95 con Q e che è finito con L’armata dei sonnambuli ».
Un genere che avete reinventato, il neoromanzo storico italiano, che ha avuto fortuna ed epigoni: rinnegate tutto?
«Niente affatto, né possiamo giurare che non ci torneremo mai. Ma dopo averlo esplorato, deformato, forzato, abbiamo piegato le sbarre della finestra e ce ne siamo andati. Questo libro è un po’ la mappa della nostra evasione da un genere che almeno a noi ha dato tutto ciò che poteva dare».
Verso quale destinazione?
«Qui ci sono quattro racconti, che sono poi quattro spostamenti progressivi della forma narrativa. Il primo è nello stile del romanzo storico classico: un individuo alle prese con la grande storia, un racconto immaginario ispirato a racconti familiari e storie orali. Il secondo è una sorta di docufiction che fonde in una storia virtuale vicende reali tratte da diari e memorie di persone reali. Il terzo è un anti-romanzo di taglio surrealista, del resto il suo protagonista è André Breton. Il quarto è quello che gli anglosassoni hanno chiamato mockumentary, e funziona al contrario del secondo: vicende largamente immaginarie vengono proposte nello stile del saggio storico. Nell’insieme, è un po’ come offrire ai lettori la tastiera più vasta delle cose che ci piace scrivere ora».
Anche la tecnica di scrittura è cambiata?
«Anche quella ha preso una forma più individuale. Per la prima volta, anche se il progetto è stato deciso in comune, anziché editare assieme il testo, ciascuno di noi quattro ha scritto un racconto che è stato semplicemente riletto dagli altri».
Perché la prima guerra mondiale? Si prestava bene all’esperimento?
«Non è in realtà neppure un libro sulla grande guerra: la attraversa, in qualche modo la evade. È precisamente un libro sull’evasione. Per quello che racconta, e per come lo fa».
Cosa intendete per evasione?
«Una strategia umana molecolare di fuga dall’orrore, una forma di resistenza individuale alla stretta del potere, di cui la guerra è solo l’espressione più evidente. Da un punto di vista puramente narrativo, sono quattro storie di uomini che eludono la paura della guerra in modi diversi».
La storia quasi-vera della “brigata camaleonte” è una delle più avvincenti del libro. Ma alla luce della cronaca recente, è anche inquietante. I guerrieri mimetizzati nell’ambiente, che sbucano dal nulla, non sono in fondo i commando stragisti del Daesh nascosti nelle nostre città?
La tuta mimetica nacque per salvare la vita, non per aggredirla meglio. Per rendere il corpo del soldato invisibile al nemico, per proteggerlo. Poi il suo scopo è cambiato, è diventato il mascheramento del cecchino che colpisce senza essere visto. Ma nella teoria della mimetizzazione è rimasta la traccia di una domanda ancora aperta: può esistere un modo per nascondersi completamente agli occhi della guerra? Farsi questa domanda è già un atto di resistenza, anche ai terrori di oggi».
Quelle raccontate nel libro sono fughe individuali. Un po’ sorprendente da parte vostra: affezionati al romanzo corale come scrittori, sostenitori dell’azione collettiva nel vostro impegno politico...
«Qualcuno magari si aspettava da noi il racconto di una diserzione di massa, di una brigata intera che si ribella contro i comandi militari, cose che peraltro non ci furono... Magari le avremmo inventate se fossimo, come qualcuno continua a pensare, scrittori di manuali di istruzioni sovversive in forma di romanzi. Certo, la coralità dei nostri romanzi precedenti era voluta, programmatica, ma non era ideologicamente obbligatoria. Continuiamo a credere che senza l’organizzazione e l’azione comune non si va da nessuna parte, ma non sempre è possibile salvarsi collettivamente, ci sono momenti in cui sei da solo, e sono quei momenti che abbiamo sentito il bisogno di esplorare».
Un elogio della fuga, del si salvi chi può, del ciascuno per sé?
«Intendiamoci, l’evasione non è una diserzione. Disertare è abbandonare una causa comune che potrebbe anche avere un senso. Evadere è sottrarsi con uno scarto geniale al vicolo cieco, per ricostruirsi altrove. George Jackson, uno dei fratelli di Soledad, dice: prima fuggo, poi cerco un’arma. La diserzione è istinto di sopravvivenza, l’evasione è offensiva. Ma non c’è intento morale o pedagogico nelle intenzioni del libro. Il nostro impegno, quando scriviamo, è prima di tutto liberare la narrazione. Questa volta il nostro punto di partenza era: come si possa mentire alla guerra, per
detournarne la logica, per fregarla, per ingannarla. L’esito narrativo dell’individualità non era in programma, è esploso da solo nelle narrazioni, ha stupito un po’ anche noi ma l’abbiamo accettato. È vero però che nessuna delle quattro storie di evasione individuale è vincente, tutte finiscono in tragedia o fallimento. Ma ci sono storie per quando lotti con gli altri, e storie per il momento in cui vacilli da solo sull’orlo di un dirupo. L’invisibile ovunque l’abbiamo scritto per momenti come questo».









giovedì 11 febbraio 2016

Il corpo del nemico ucciso


Giovanni De Luna 
Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea
Einaudi, Torino 2006

Esiste un nesso indissolubile tra la Guerra e la Morte. Perché il fine ultimo della guerra consiste nell'uccidere il nemico. Questo libro parla dunque di guerra, di morte e di corpi. Racconta le guerre del Novecento e di oggi attraverso i corpi dei morti: corpi-documenti, studiati nelle fotografie, decifrati nelle schede dei medici legali, analizzati dagli antropologi, descritti dai grandi narratori della contemporaneità. Il corpo "amico" viene rispettato sempre, onorato spesso; può essere usato per gridare vendetta o implorare la pace. Il corpo "nemico" è talvolta rispettato, quasi sempre profanato. Nel primo caso viene sepolto in una tomba individuale, in un cimitero, nel secondo può essere esibito in pubblico o cancellato in una fossa comune. A ogni diverso uso del corpo del nemico ucciso corrisponde una diversa tipologia della guerra.
Una storia del Novecento e delle sue guerre, fino a quelle piú attuali, guardando alle vittime ultime della violenza bellica: i caduti sul campo. Un percorso che si snoda attraverso le guerre mondiali e quelle coloniali, le guerre civili e quelle ai civili, per concludersi con le guerre asimmetriche di oggi.
La guerra e i grandi fenomeni di violenza di massa del Novecento si possono conoscere partendo dalla loro conclusione, da quei morti che ne rappresentano il piú concreto e drammatico prodotto finale. È come guardare l'erba dalla parte delle radici: cambia la prospettiva metodologica, ma cambiano anche le priorità concettuali. Le guerre, con le violenze e le crudeltà che scatenano, sembrano avere un fondo comune sempre uguale, quasi fuori dal tempo e dallo spazio. Ne scaturisce una loro visione «mitica», una sorta di impossibilità conoscitiva in cui c'è posto solo per la venerazione o la rimozione. Riportare al centro della guerra il corpo del nemico ucciso e le diverse strategie messe in atto nei suoi confronti consente di storicizzare la guerra, di conoscerla nel suo «cuore di tenebra». Esistono regole che gli uomini si sono date in relazione ai corpi dei morti in battaglia. Quelle regole, anche quando sono violate, contribuiscono ad ancorare le guerre al nostro tempo e ci restituiscono il titanico tentativo della nostra civiltà di sottrarsi al fascino archetipico dello «stato di natura». (presentazione editoriale)

http://www.ibs.it/code/9788806178598/de-luna-giovanni/corpo-del-nemico.html



Elena Cortesi
http://storicamente.org/02deluna
Nel lavoro qui considerato ... De Luna propone nuove rilevanze e nuove conoscenze all’analisi storica delle guerre del Novecento (fino a quelle recentissime in Afghanistan, Cecenia, ex Jugoslavia, ecc.) partendo dal “risultato” più immediato e materiale della violenza bellica: il corpo del morto in guerra. Corpo del nemico soprattutto, ma anche dell’amico, del soldato, ma anche del civile. Un corpo “visto” e studiato utilizzando prevalentemente fotografie e altre immagini (oltre a schede anamnestiche di medici legali e informazioni raccolte presso antropologi, medici, giornalisti e testimoni) e che diviene a sua volta fonte, «straordinario documento per conoscere l’identità del carnefice».
È un corpo sempre rispettato e spesso onorato, se amico, a volte rispettato ma quasi sempre profanato, se nemico. Le modalità del rispetto e/o della profanazione sono strettamente legate ai particolari contesti (temporali, geografici, ideologici, giuridici, culturali, strategici e tecnologici) nei quali si sono svolti i conflitti presi in considerazione, ma, contemporaneamente (rispondendo una tensione scientifica che ha bisogno di confrontare il “particolare” con categorie più ampie), possono essere ricondotte ad alcune tipologie di guerra (simmetrica, asimmetrica, civile, ai civili) definite dall’a. analizzando non fattori come le forze militari e/o economiche messe in campo o l’evoluzione tecnologica, ma il “trattamento riservato” ai corpi dei nemici uccisi. Gli elementi nuovi e gli spunti di riflessione che emergono analizzando i conflitti del Novecento da questo innovativo punto di vista sono numerosi e interessanti. La seconda guerra mondiale, per esempio, acquisisce un ulteriore motivo di “totalità” (De Luna la definisce «compiutamente totale»). In essa, infatti, tutti i tipi di guerra messi a fuoco dall’a. risultano essersi assommati e aggrovigliati producendo una violenza estrema all’interno della quale il corpo del nemico ucciso (che poteva essere il corpo del soldato avversario, ma anche quello del civile colpito dalle bombe o fucilato, o quello dell’ex compagno di scuola, e che comunque, quasi sempre, aveva le caratteristiche di “nemico totale”) ha avuto un ruolo centrale nell’attivare e alimentare il terrore degli avversari (militari e civili) e nell’accorpare i carnefici esaltando la loro potenza di gruppo e/o incanalando il loro desiderio di vendetta.

mercoledì 10 febbraio 2016

Hobsbawm comunista italiano



Gianpasquale Santomassimo 
Lo storico pop e globale
il manifesto, 2 ottobre 2012, p. 11

Abbiamo detto che si proclamò comunista per tutta la vita, e rimase anche dopo il 1956 nel piccolo partito comunista britannico: ma nel corso degli anni divenne in patria un consigliere ascoltato del Labour Party, fortemente critico tanto della rigidità «classista» dell’era di Kinnock, incapace di comprendere i mutamenti della società, quanto del New Labour di Tony Blair, null’altro che «un Thatcher con i pantaloni». Ma la svolta di Miliband è frutto anche in parte della sua critica, e di un rapporto personale e familiare (il padre fu valido storico e teorico marxista).
In realtà Hobsbawm dichiarò di essersi considerato a partire dal 1956 un «membro spirituale» del partito comunista italiano alle cui idee si sentiva particolarmente vicino. Le numerose pagine «italiane» testimoniano di un lungo rapporto che fu anche familiarità e condivisione di problematiche con una generazione di storici (Rosario Villari, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Renato Zangheri) e anche di politici (Giorgio Napolitano, in modo particolare, che intervistò nel 1976, quando la breve fiammata dell’«eurocomunismo» aveva acceso interessi e speranze destinate a declinare).
C’è in rete una «videolettera» toccante registrata il 20 marzo 2007 in cui Hobsbawm si rivolge ad Antonio Gramsci, con gratitudine e ammirazione, che più di ogni altro documento attesta il legame «italiano», sentimentale e teorico, dello storico inglese verso una forma di comunismo che sentiva vicina alla sua sensibilità.
La sua popolarità presso il grande pubblico, come abbiamo ricordato, derivò in gran parte dal Secolo breve, titolo italiano di The Age Of Extremes, volume che brevemente e forse un po’ bruscamente concludeva il ciclo del «Lungo Ottocento» che era stato oggetto dei volumi di sintesi che lo avevano preceduto. È la sua opera più discussa, e forse la più discutibile, per tanti motivi. Di fatto, Hobsbawm passerà gli ultimi anni della sua vita a discutere, limare, correggere quelle interpretazioni, alla luce dei nuovi avvenimenti che cambiavano il quadro del mondo descritto nell’ultimo capitolo: la Frana, che seguiva improvvisamente all’Età dell’Oro dell’Occidente. Ora la frana si è approfondita, rischia di travolgere tutto, e l’Occidente che si sentiva trionfante nell’Ottantanove appare sempre più in declino. Il secolo americano, che Hobsbawm aveva visto nascere, sembra avviato a chiudersi al momento della sua scomparsa, come aveva previsto a conclusione della sua autobiografia dieci anni fa.
In quella che è una delle sue ultime interviste, nel maggio 2012, l’interlocutore gli chiedeva: Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di socialismo né di comunismo… E Hobsbawm rispondeva: «Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale: che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe».
Quanto alla sinistra attuale, il giudizio era molto esplicito:
«Non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società».