domenica 1 marzo 2015

Claudio Magris, l'importanza del rispetto per l'altro

Claudio Magris
Offendere non è libertà
Corriere della Sera la Lettura, 1 marzo 2015





Tra le vittime dell’efferata strage dei redattori di «Charlie Hebdo» c’è anche — certo infinitamente meno importante e meno sconvolgente — la logica. È un delitto atroce, compiuto da sicari sfortunatamente morti — sfortunatamente non perché si senta la loro mancanza, ma perché da vivi avrebbero potuto fornire utili informazioni sui loro mandanti e le loro organizzazioni —, che va punito con estrema durezza, risalendo se possibile a chi l’ha voluto e preparato. E che le vittime dell’immondo attentato, redattori della rivista e poliziotti, e i loro famigliari ed amici abbiano diritto a tutta la nostra solidarietà e partecipazione è più che ovvio.
Ma non più — né meno — di altre vittime delle stesse o di altre mani fanatiche, a cominciare dai tanti africani che in quegli stessi giorni venivano massacrati in nome di analoghi fanatismi e quasi appena nominati nelle cronache. Come mai — si è chiesto sul suo blog Dino Cofrancesco, una delle teste più pensanti e più autenticamente e lucidamente liberali del nostro Paese — l’assassinio di tre bambini ebrei e di un rabbino professore a Tolosa nel 2012 ha destato un’emozione e uno sdegno tanto minori? Forse per il loro numero più ristretto? Ma gli africani trucidati dai fondamentalisti in quegli stessi giorni erano assai più numerosi. O perché non erano famosi, non erano artisti, come i vignettisti? Dunque uccidere un celebre artista indigna e sconvolge più che uccidere un bambino, secondo un’orrida, disumana aristocrazia della fama e dell’alloro delle Muse?
Qualche giornale non si è dimenticato della logica, osservando come sia insensato considerare l’eccidio parigino un attentato alla libertà di stampa, quasi fosse una censura governativa: sarebbe come dire, è stato giustamente scritto, che mettere una bomba al mercato ortofrutticolo è un attentato alla libertà di comperare frutta e verdura. È invece un attentato a una libertà e a un diritto più grandi, alla libertà e al diritto di vivere, alla vita delle persone.
La totale solidarietà con gli autori delle vignette in quanto vittime di una sanguinosa e inumana violenza non significa necessariamente osannare quelle vignette. Cofrancesco, laico sino al midollo e radicalmente scevro di quella pappa del cuore che inquina ragione e sentimento, ha scritto che se qualcuno assassinasse un negazionista egli chiederebbe la giusta dura pena per l’assassino senza per questo identificarsi in quel caso con l’assassinato, senza mettersi al collo un cartello con la scritta «Sono David Irving», l’inglese che nega la Shoah.
La premessa di ogni virtù, diceva Kant, è il rispetto, quel profondo rispetto per ogni uomo che nessuna vera satira cancella, se è vera satira ossia indignata e scatenata protesta che vendica gli oltraggi inflitti all’umanità. I grandi poeti satirici — Giovenale, Quevedo, Swift o Kraus — non sono sguaiati privi di rispetto, bensì profeti e vendicatori animati da sacro furore.
Alcune vignette di «Charlie Hebdo», spiritose o scurrili, hanno indubbiamente offeso legittime fedi e sentimenti. Non per questo i loro autori meritavano la morte, perché un’ingiuria viene punita con un’ammenda e non con la ghigliottina. È un’ingiustizia perseguire Dieudonné, il sedicente artista specializzato in oscenità antisemite?
Roberto Casati ha scritto, sul «Sole 24 Ore», che se si persegue la blasfemia bisogna perseguire pure l’ostentazione di simboli religiosi, che a suo avviso offende i bestemmiatori come questi offendono i credenti. Anzitutto la libertà d’espressione, il rispetto e la satira non riguardano soltanto le religioni e le loro negazioni, ma questioni e valori non meno importanti, dall’apologia di reato all’istigazione a delinquere, ad esempio in nome di un’ideologia. Ma libertà d’espressione dovrebbe voler dire libertà di esprimere i propri valori senza offendere quelli altrui e senza sentirsi offesi dai valori professati dagli altri. Perché chi si fa il segno della croce passando davanti a una chiesa dovrebbe offendere chi non se lo fa o viceversa?
Ognuno dev’essere libero di credere e di non credere senza offendere né sentirsi offeso da chi la pensa all’opposto. Non c’è ragione di sentirsi offeso da chi va in chiesa né da chi non ci va. La piaga del nostro tempo, ha scritto Amos Oz sul «Corriere della Sera», non è l’islam bensì il fanatismo, che accomuna gli assassini di Parigi ai cristiani, musulmani ed ebrei violenti.
Certamente ci possono essere ostentazioni offensive, come chi gironzolasse intorno a una moschea inalberando enormi crocifissi o gigantesche stelle di Davide. Ma di per sé la blasfemia non è la stessa cosa che portare al collo una catenina con la croce, così come portare lo zucchetto o i cernecchi non è la stessa cosa che innalzare un cartello che inneggia alla Shoah, perché portare lo zucchetto o una catenina al collo indica semplicemente una legittima appartenenza, mentre la bestemmia o l’irrisione della Shoah vuol ferire l’appartenenza dell’altro.
In nome della stessa logica, scrive ancora Cofrancesco, ognuno, a casa sua, solo o in compagnia di maggiorenni adulti e vaccinati e a patto di non violare specificamente la legge (ad esempio con violenze), è e deve essere libero di fare ciò che vuole, di bestemmiare a suo piacimento o sputare sul pavimento, cosa lecita in casa propria.
Ma come reagiremmo se, in nome della libertà di satira, qualche imbecille facesse delle vignette che sbeffeggiano i vignettisti di «Charlie Hebdo» che, in quanto vite stroncate da abietti assassini, rappresentano veramente l’umanità ossia tutti noi?


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