martedì 30 luglio 2024

Torna Cassirer

 

 

Domenico Scalzo,  Davos 1929. Ernst Cassirer e Martin Heidegger di fronte a Kant, Las Torres de Lucca, n. 13 (2018)


Il saggio ruota intorno alla disputa sull’eredità kantiana che avvenne a Davos, nel 1929 tra Cassirer e Heidegger. L'autore legge l'intero dossier concernente la questione misurandosi con i testi, le testimonianze e con la principale letteratura critica sull'argomento. Al suo centro è il rapporto tra immaginazione, libertà e politica. Due diverse letture di Kant che stanno in una discrepanza che suscita sgomento. La convinzione che il saggio matura è che si tratti di un’opposizione, non di un livellamento ermeneutico, tra Cassirer e Heidegger, cioè che tra la "Filosofia delle forme simboliche" e "Essere e Tempo" o "Kant e il problema della metafisica" debbano cogliersi le analogie oltre che le differenze filosofico-politiche. L'idea è che si sia davanti ad un'opposizione filosofica che si lega fin nell’intimità della parola alla positività di ciò che è posto — e non necessariamente contrapposto — di fronte alla posizione contraria; opposizione filosofica quale figura produttiva del negativo, perché ne incorpora il potenziale di movimento e di trasformazione, ne incoraggia la possibile traduzione in nome di Kant - ossia della prima e della seconda edizione della "Critica della ragione pura", che fu al centro del dibattito - in luogo della loro reciproca esclusione. Un’opposizione reale tra forze entrambe positive, attive e non reattive: ecco come l'autore legge il confronto o la disputa tra Cassirer e Heidegger a Davos. Nessuna delle due filosofie deriva infatti il proprio senso dalla negazione dell’altra, come avrebbe detto Kant, dei contrari che non sono contraddittori. Esse si sfidano tuttavia secondo un piano ontologico e simbolico aperto su prospettive storiche e teoriche drammaticamente controverse. Da una parte la libertà come forma simbolica dell'antropologia umana, difesa da Cassirer come un valore da riconoscere, dall'altra la libertà come verità dell'essere e destino di un popolo, assunta da Heidegger come una missione da compiere. Sullo sfondo le ombre nere che il mito politico del nazionalsocialismo allunga sulla Germania e l’Europa. Tenebre che presto getteranno l’opposizione nell’oscurità di una notte del mondo in cui una filosofia, quella di Cassirer, salverà nell’esilio il simbolico, riflettendo criticamente sul mito dello Stato, mentre l’altra, quella di Heidegger, si abbandonerà alla sua replica distruttiva, alla potenza del nazionale, nell’annientamento dell’essere e della sua differenza. (Abstract)

https://www.avvenire.it/agora/pagine/maestro-cassirer-moderno-illuminista
Federica Montevecchi, Cassirer, un illuminista tra le forme simboliche ed Einstein, il manifesto, 1 settembre 2024 

venerdì 26 luglio 2024

Ritratto di un amico

 


Norberto Bobbio, Ritratto di Leone Ginzburg, Maestri e compagni, Passigli editore, Firenze 1984

Leone aveva il culto dell’amicizia. La sanità della sua natura si mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a se stesso, non aveva niente a che vedere con la pedanteria moralistica, con la puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma era volto al perfezionamento di se stessi solo come via al miglioramento dei rapporti con gli altri. L’abituale scrupolosità nell’adempimento dei propri doveri poteva far credere che egli seguisse un’etica della perfezione; ma a contatto con gli altri, soprattutto nella cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in mente un ideale più vasto, più comprensivo, più umano, vorrei dire, una etica della comunione. Amava la conversazione, la compagnia, il mondo: era anche un uomo di società. Non era un solitario: anzi aveva bisogno di espandersi, di comunicare, di conoscere molta gente per scambiare idee, impressioni su fatti, libri, persone, per dare e ricevere notizie del giorno (e per questo era sempre informatissimo d’ogni cosa). La rete delle sue relazioni era vasta e fittissima. Gli faceva piacere conoscere sempre nuove persone, che poi analizzava, soppesava, catalogava, e aggiungeva alla sua raccolta di tipi. Le cose di cui era più curioso, in fondo, erano proprio gli uomini vivi, con le loro virtù, vizi e stranezze (le sua segreta ambizione fu sempre quella di fare lo scrittore di racconti psicologici). Amava la compagnia dei coetanei, ma anche dei grandi, i quali in genere lo ammiravano e lo tenevano in gran conto, stupefatti della sua assennatezza, dell’equilibrio dei suoi giudizi e delle sue opinioni. Stava volentieri con le ragazze della nostra età, compagne di scuola, amiche delle vacanze, signorine della buona società: le trattava da pari a pari, senza timidezza né orgoglio, senza complessi di inferiorità né spirito di conquista; si confidava con loro e ne riceveva le confidenze. Era innamorato della loro grazia e gentilezza e di quella sensibilità femminile per le cose del cuore, che rende meno selvatica e ispida e scontrosa la vita di un adolescente. Con gli amici era affabilissimo: la pratica continua dell’amicizia rappresentò una parte importante della sua vita. Quando c’incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa (per alcuni anni in via Pastrengo 13, poi in via Vico 2), gli si apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l’ospite inviato dagli dèi: la mamma o la sorella preparavano una tazza di tè, alla maniera russa, squisita. Qualche volta gli amici arrivavano a gruppi:
Leone non si scomponeva, e se non c’era una seggiola per tutti, alcuni si sedevano sul letto. Ma non
chiudeva la porta in faccia a nessuno: anzi, alla festosità un po’ rumorosa dell’invasione, rispondeva con la cordialità più discreta, ma non meno festosa, di una lieta accoglienza. Quante ore della nostra vita – ore che hanno contato nel nostro destino, ore incancellabili nella memoria, intense, piene di propositi futuri e di affetti presenti, godute minuto per minuto – abbiamo trascorso accanto a quella scrivania ricoperta da una spessa carta assorbente verde, con gli occhi rivolti alla libreria di cui mi pare ancora di rivedere ad uno ad uno i dorsi dei volumi? Quelle quattro pareti sono state la nostra Accademia, la nostra Stoa, il luogo in cui si è ricevuta l’educazione formatrice, da cui si esce finalmente più adulti, più nutriti e saldi: lunghi colloqui a due, a tre, a quattro, che facevano e disfacevano il mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni ricevute, pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell’anima, li mettevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il fondo. Talora ne uscii vinto, col senso di una sconfitta irreparabile, del fallimento; ma poi mi davo una ragione, trovavo sempre una tavola a cui aggrapparmi, e riprendevamo il filo del discorso interrotto e ricominciavamo insieme la strada. Più spesso ne uscivo scosso, turbato, col cuore in subbuglio; ma era un turbamento salutare che aiutava a fare un passo innanzi nel chiarimento di se stessi e nella comprensione della dura realtà (la realtà mi parve sempre spessa, densa, inaccessibile, e perciò inclinavo negli anni dell’adolescenza al solipsismo).
Leone mi aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi incoraggiò quando ero sfiduciato;
soprattutto mi diede il conforto di un’indomita forza accompagnata da una accattivante dolcezza, un
esempio corroborante di coraggio verso gli eventi e di pazienza verso gli uomini, di rigidezza nelle idee temperate da una pudica delicatezza nei sentimenti. Era l’esempio di cui avevo bisogno per non sentirmi continuamente in balia delle mie inquietudini, inibito dal timore che avevo del mio prossimo, diviso dal conflitto che in me si combatteva tra l’attrazione degli ideali superiori e l’urto con la realtà che sentivo ingrata, ostile, soverchiante. Leone, il grande mediatore: mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non comprendevo, cui recalcitravo. Mi iniziò al “lungo viaggio”, che si sarebbe concluso nel “sangue d’Europa”, e abbiamo terminato, dolorosamente, senza di lui.

 

 

giovedì 25 luglio 2024

Proust, Jaurès e gli armeni

 


Marcel Proust, Jean Santeuil, 1952 (1895-1900)

 
Si è appena chiusa la discussione sul massacro armeno. Si è convenuto che la Francia non farà
nulla. All'improvviso, all'estrema sinistra, un uomo sulla trentina, un po' grasso, dai capelli neri
e crespi, che vi sarebbe sembrato, se lo aveste osservato, in preda ad un turbamento indefinibile
e come se esitasse a obbedire ad una voce interiore,  si dondola un attimo sul suo banco poi 
alza il braccio con un gesto inespressivo, come strappato dalla consuetudine che rende
necessaria questa formalità per chi chiede di parlare, andare avanti con una andatura valorosa
e come se spaventato dalla grande responsabilità che si assume, nei confronti della tribuna. È 
Couzon. […] È come un segnale che risuona a lungo nel cuore di Jean. E vedendo le gambette
di Couzon correre impacciate verso la tribuna, gli sembra che mai un corpo umano abbia
espresso tanta dignità e grandezza.
 
 «On vient de clore la discussion sur le massacre d’Arménie. Il est 
convenu que la France ne fera rien. Tout à coup, à l’extrême gauche, un 
homme d’une trentaine d’années, un peu gros, aux cheveux noirs crépus, 
et qui vous aurait semblé, si vous l’aviez observé, en proie à un 
trouble indéfinissable et comme s’il hésitait à obéir à une voix 
intérieure, se balance un instant sur son banc puis levant le bras d’un 
geste sans expression, comme arraché par la coutume qui rend nécessaire 
cette formalité à qui demande la parole, se dirige d’un pas vaillant et 
comme effrayé de la grande responsabilité qu’il prend, vers la tribune. 
C’est Couzon. […] C’est comme un signal qui retentit longuement dans le 
cœur de Jean. Et en voyant les petites jambes de Couzon se hâter 
disgracieusement vers la tribune, il lui semble que jamais corps humain 
n’a exprimé tant de dignité et de grandeur».

mercoledì 24 luglio 2024

Kamala Harris a Milwaukee

 

 


Paola Peduzzi
, Harris in Wisconsin, Il Foglio, 24 luglio 2024

Milano. La vicepresidente americana Kamala Harris è arrivata ieri a Milwaukee, in Wisconsin, per il suo primo evento elettorale (in uno stato cruciale) forte di 58 mila nuovi volontari disposti a lavorare per la sua campagna presidenziale, di 100 milioni di dollari raccolti in 24 ore da 1,1 milioni di piccoli finanziatori (un record nella storia, ha detto Harris), e di un numero sufficiente di delegati (secondo il conteggio dell’associated Press) per blindare la propria nomina come candidata alle elezioni di novembre alla convention del Partito democratico a Chicago, che inizia il 19 agosto e che nessuno più vuole “aperta”. Anzi, è stata definita una nuova procedura che dovrebbe permettere di chiudere i calcoli entro il 7 agosto. Secondo un’esclusiva del Financial Times, che si basa su conversazioni avute con alcuni grandi finanziatori del Partito democratico, anche la rosa dei possibili vicepresidenti in ticket con Harris si è ristretta a tre nomi: il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, il senatore dell’Arizona Mark Kelly e il governatore della Carolina del nord Roy Cooper (la geografia elettorale è chiara). A gestire il processo di vetting per la selezione finale del ticket sarà Eric Holder, ex ministro della Giustizia dell’amministrazione Obama: il coinvolgimento di Holder illumina – e anche la notizia data da Politico sul coinvolgimento dell’obamiano David Plouffe nella campagna di Harris – in modo più nitido il ruolo che ha avuto l’ex presidente Barack Obama nelle pressioni che hanno infine portato Joe Biden a non tentare più la rielezione. E’ stato un processo brutale ed esplicito, un tradimento secondo i bideniani, una missione necessaria secondo tutti gli altri – di certo un’operazione senza cuore, e ci voleva uno potente e cinico come Obama per governarla e portarla a termine.

Harris è arrivata in Wisconsin – stato vinto da Donald Trump nel 2016, riconquistato da Biden nel 2020 e ora indicato come uno stato che chi vuole diventare presidente deve vincere per forza – per il suo primo appuntamento elettorale da candidata alla presidenza con una nuova strategia da far funzionare fin da subito e qualche sondaggio che inizia a muoversi a suo vantaggio (Reuters-ipsos dà Harris al 44 per cento, Trump al 42, ma c’è ancora un 8 per cento di Robert F. Kennedy che potrebbe dare il suo endorsement a Trump): c’è poco tempo per ricostruire la campagna elettorale e in ogni caso i margini di vittoria per entrambi i partiti sono da sempre molto piccoli. Harris ha detto di conoscere bene “i tipi come Trump”, ha avuto a che fare con “predatori” e “truffatori” quando lavorava come procuratrice a San Francisco e poi per lo stato della California (“il poliziotto contro il criminale”, ha sintetizzato il New York Magazine), e ha deciso di attaccare anche il Project 2025, il piano di governo dell’heritage Foundation, centro studi che fu reaganiano e che ora è trumpiano, che spiega come le istituzioni americane, guidate da nuovi amministratori scelti sulla base della loro lealtà a Trump, rivoluzioneranno il funzionamento delle agenzie che si occupano di immigrazione, di criminalità, di ambiente e di molto altro. Trump ha disconosciuto questo progetto e lo stesso direttore dell’heritage, Kevin Roberts, è stato cauto durante la convention repubblicana e ha detto che sarà il presidente a scegliere che cosa, di questo piano, applicare oppure no. Harris insiste sull’intento eversivo di Trump, e parla di futuro per la middle class, che “quando è forte, è forte l’America”.

domenica 21 luglio 2024

Così parlò Mélenchon


 

Anais Ginori, Jean-Luc Mélenchon "La sfida finale per l'Eliseo tra me e la fascista Le Pen. Io dirò addio alla Nato", la Repubblica, 21 luglio 2024

Siete lontanissimi dalla maggioranza assoluta: come pensate di applicare "tutto il programma, solo il programma"? 
È il gioco della democrazia. Se gli altri deputati non vogliono che applichiamo il nostro programma, ci sfiducino in Parlamento. Non dobbiamo tornare ai vecchi metodi: mentire, tradire, negare la volontà popolare. I media ci demonizzano. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, il suo slogan era: "Meglio Hitler che il Fronte Popolare".

E se Macron si rifiuterà di nominare un vostro premier?
In questo caso, per lui ci sarà un solo modo democratico per uscire dalla crisi istituzionale: andarsene, perché la Costituzione non prevede lo scioglimento dell'Assemblea per un altro anno. Se tutti bloccano tutto, la pentola a pressione esploderà. È meglio lasciare che il Fronte Popolare governi. 

È già proiettato sulle presidenziali?
Questa volta, al ballottaggio noi ci saremo. A quel punto diremo al Paese: "Scegliete voi, ma non pensiate che sia una scelta senza conseguenze". Se il Paese vota una fascista, avremo un governo fascista. Per questo oggi non dobbiamo commettere l'errore di accettare un governo di "facciata repubblicana". Se succedesse, in un colpo solo Le Pen guadagnerebbe dieci punti. 

-------------------------------------------------------------------------------------------


Tabella dei deputati disposti per appartenenza ai vari gruppi politici  
Rassemblement National                                123 + 3 apparentati 
Ensemble pour la République (Macron)          87 + 12
La France insoumise (Mélenchon)                  71 + 1
Socialisti e apparentati                                     62 + 4
Destra repubblicana (gollisti)                           41 + 6
Ecologisti                                                         38
Democratici (MoDem, Bayrou)                       35 + 1
Horizon et Indépendants (Philippe)                 26+5
LIOT (centristi, de Courson, Lenormand)       21
Sinistra democratica e repubblicana
(comunisti e apparentati, Fabien Roussel)       17
A Destra                                                           16
                                                                        577 totale

         





Come si vede, La France Insoumise non è il primo partito. Essa fa parte del nuovo Fronte Popolare, coalizione che ha avuto il maggior numero di deputati eletti (193): 72 per La France insoumise, 66 per il Partito socialista, 38 per il gruppo Ecologista e sociale e 17 per la Sinistra démocratica e repubblicana (che include 9 comunisti). Il segretario del Partito Comunista Francese, Fabien Roussel, non figura tra gli eletti.








 





 

 


sabato 20 luglio 2024

Il caos e il disordine

 


 

Ilya Prigogine, Le leggi del caos, trad. it. di C. Brega e A, De Lachenal, Laterza, Roma-Bari 2008
PRESENTAZIONE EDITORIALE

Il disordine e il caos non portano, secondo Prigogine, alla morte termica, alla “fine del mondo”, ma sono elementi di novità dall’alto potenziale creativo. Ecco la prima connessione fondamentale: il caos non come forza che porta alla fine, ma come forza che riproduce continuamente il miracolo creativo del nuovo.

Ma la riflessione – e il lettore più attento se ne accorgerà subito – ha una certa tonalità bergsoniana (pur non essendo mai citato, all’interno di questo libro, il filosofo francese). La connessione fondamentale tra la dimensione temporale e la dimensione della creatività (sullo sfondo di un’idea “positiva” di caos) viene esposta in questi termini: «la riconsiderazione del “caos” porta anche a una nuova coerenza, a una scienza che non parla solamente di leggi, ma anche di eventi, la quale non è condannata a negare l’emergere del nuovo, che comporterebbe un rifiuto della propria attività creatrice» (p. X).

Gli elementi fondamentali di questa creatività del caos sono dunque due: in primo luogo «la freccia del tempo ha il ruolo di creare strutture» (p. 23), a questo Prigogine giunge attraverso l’analisi delle cosiddette strutture dissipative (quelle, in poche parole, che esistono soltanto fino al momento in cui l’energia viene dissipata e contemporaneamente viene mantenuto il livello di interazione con il mondo esterno); in secondo luogo ammettendo che «i fenomeni irreversibili non si riducono a un aumento di “disordine”, come si pensava un tempo, ma al contrario hanno un ruolo costruttivo importantissimo» (p. 23).

Tutta la parte centrale del volume è dedicata al tentativo di riformulare daccapo e in maniera conseguente le leggi fondamentali della dinamica classica, quantistica e relativistica, in vista dell’inserimento all’interno di esse della freccia del tempo con la sua creatività essenziale. La priorità di Prigogine è mostrare che parlare di tempo irreversibile non significa abbandonarsi al determinismo del caso o dell’evento, significa invece percorrere nuove strade all’interno delle quali attraverso probabilismo e irreversibilità sia possibile mostrare come “funziona” il caos e come da esso si possano originare sia ordine sia disordine, sia la creatività della “vita” sia la possibilità di una “morte”.

LE BIFORCAZIONI
Ilya Prigogine, La società in rete, in Festschrift for Immanuel Wallerstein

L'evoluzione dalla piccola alla grande società di
formiche è stata il risultato di cambiamenti qualitativi
che comportano delle discontinuità. Tali discontinuità
appaiono in molti campi (fisica, chimica e biologia, per
esempio) e sono associate a biforcazioni che giocano un
ruolo particolare nel nostro attuale modo di vedere la
natura. Queste biforcazioni portano ad esiti possibili
multipli associati a probabilità, che distruggono la
classica concezione deterministica della natura. Come
tale, trovo appropriato spendere qualche parola sulle
biforcazioni in natura prima di tornare al problema della
società in rete umana. 
 
Alvin Toffler, Le monde selon Prigogine, Le Nouvel Observateur, 26 dicembre 1986-1° gennaio 1987
https://machiave.blogspot.com/2024/10/la-consapevolezza-della-vita-interiore.html

mercoledì 17 luglio 2024

La rabbia per lo spettacolo offerto dai partiti della sinistra

 

 


La segretaria degli ambientalisti Marine Tondelier si è detta “arrabbiata” e “disgustata”
questo mercoledì 17 luglio dalla guerra di leadership tra ribelli e socialisti per proporre un
nome per Matignon [la presidenza del consiglio], lanciando un appello per la ripresa
immediata dei negoziati interrotti da diversi giorni.
Sono arrabbiata, disgustata, stufa, stanca […] e mi dispiace per lo spettacolo che stiamo dando
ai francesi”, ha dichiarato a France 2 sull’impossibilità di concordare una candidatura comune
del Nuovo Fronte Popolare per la carica di primo ministro dopo il secondo turno delle elezioni
elezioni legislative del 7 luglio. (Le Nouvel Observateur)

La patronne des écologistes Marine Tondelier s’est dite « en colère » et « écœurée » ce mercredi 17 juillet par la guerre de leadership entre insoumis et socialistes pour proposer un nom pour Matignon, lançant un appel à la reprise immédiate des négociations arrêtées depuis plusieurs jours.
Je suis en colère, je suis écœurée, j’en ai marre, je suis fatiguée […] et je suis désolée du spectacle qu’on donne aux Françaises et aux Français », a-t-elle déclaré sur France 2 à propos de l’impossibilité de se mettre d’accord sur une candidature commune du Nouveau Front populaire (NFP) pour le poste de Premier ministre depuis le second tour des élections législatives le 7 juin

------------------------------------------------------------------------------------------

Mentre tutta la sinistra ha promesso un nome per venerdì scorso, poi per il fine settimana, 
è chiaro, a più di una settimana dai risultati del secondo turno, che le tensioni sono sempre 
più visibili ed espresse esplicitamente. Lo spettacolo, una vera e propria telenovela senza
fine, degna di Dallas, offre uno sguardo tutt’altro che rassicurante su come potrebbe essere
 la vita quotidiana di un governo NFP. Soprattutto, che si tratta di un primo ministro che in
ogni caso avrà poche possibilità di essere nominato da Emmanuel Macron. E se verrà 
nominato, per sopravvivere alle mozioni di censura promesse da alcuni macronisti se nel 
governo comparisse anche il minimo ministro Insoumis. Un'intransigenza che potrebbe 
spingere la parte più moderata del NFP nelle braccia di un'altra alleanza, più centrista e 
dominata dai macronisti. Ciò che sembra volere il presidente, ma che potrebbe essere visto
come il tradimento di un voto francese che chiaramente non era a maggioranza macronista.
(Le Temps, Ginevra)
 
La sinistra è in un vicolo cieco mentre Macron e i suoi mandano avanti le loro pedine. Più 
passano i giorni, più la sinistra perde il controllo. Perché il campo presidenziale non perde 
tempo nel tentativo di costruire una coalizione con la destra, o una squadra più ampia che 
includa i socialdemocratici in rottura con Jean-Luc Mélenchon. (Le Soir, Bruxelles)

lunedì 15 luglio 2024

Il borgo

 


Umberto Saba, Il borgo (sta nel Canzoniere e rientra nella raccolta Cuor morituro 1925-1930)
 
Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m’avvenne.
Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d’uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent’anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.
Dove nel dolce tempo
d’infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d’umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d’immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l’alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d’essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.
Nato d’oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
– eco perduta
di giovinezza – per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell’alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.
La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da un parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m’aspetta.
Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d’immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d’allora. 

 Matteo Marchesini, Accettare il Saba più vero e intero, Il Sole 24 ore, 14 luglio 2024)
 
Su Montale e Ungaretti esistono biblioteche gigantesche; su Saba no. Riguardo alla terza corona della nostra poesia novecentesca, ci si chiede perfino se si possa parlare di una “storia della critica”. Le canonizzazioni sembrano infatti derivare ancora dalla scommessa del giovane Giacomo Debenedetti, che negli anni ‘20 elesse a rappresentante delle proprie inquietudini quel versificatore quarantenne ritenuto dai più un arretrato appena sopra la media. Solo la sottigliezza di Debenedetti, che con una ‘scorciatoia’ degna del suo amico lo dipinse come un poeta destinato a fare il viaggio a ritroso del salmone, riuscì a gettare su Saba una luce di attualità. Da allora, quasi tutti gli interpreti si sono mossi inerzialmente sulla sua scia. Non c’è da stupirsi: nel tardo ‘900, che ha accademizzato avanguardie e simbolismi, si è privilegiata una letteratura in grado di offrire subito, insieme alla vertigine della difficoltà, il gusto di una decrittazione fin troppo facile e meccanica. Anziché fuggire dalla «lingua della tribù», l’unico tra i nostri massimi poeti fisiologicamente estraneo ai presupposti del modernismo punta invece sulle parole ovvie, su quella rima «fiore / amore» che considera la più «difficile» appunto perché trita (ovvero riscattabile solo dal talento) e che esibisce senza l’alibi dell’ironia crepuscolare. Saba intuisce presto che il pericolo moderno non è la banalità del senso comune ma la banalità “culturalistica”, ideologica. Non si tratta di un’intuizione a freddo: come ogni idea, in lui, affiora da un disagio, e sfocia nella necessità di giustificarsi, di ‘dire tutto’ con una «ardita / sincerità» che ricorda Rousseau. Nella sua Trieste dialettale e mitteleuropea, ma poco italiana, Saba si aggrappa al filo della tradizione petrarchesco-leopardiana per controbilanciare con la convenzionalità metrica e lessicale la sua peculiare modernità, che consiste nell’esprimere istinti e sentimenti oscuri, minacciosi o patologici.
Oggi la figura dell’autore del “Canzoniere” ci viene ripresentata proprio attraverso i ritratti che gli dedicò Debenedetti, di cui Stefano Carrai ha riunito gli «Scritti e saggi (1923-1974)» su “Saba” in un volume uscito per Carocci. Troviamo qui le prime rivelazioni giovanili, fissate nel 1923 su “Primo Tempo” e nel ’28 su “Solaria”; le prime schermaglie con gli stroncatori novecentisti di Saba, rappresentati da Gargiulo; gli schizzi quasi narrativi del secondo dopoguerra; i quaderni delle lezioni universitarie del 1958-’59, pubblicati postumi; e in appendice la stroncatura al romanzo di Quarantotti Gambini che riprende nel titolo la sabiana «calda vita» - stroncatura per intensità performativa paragonabile a quella su Marinetti, ma più acrobatica, perché qui il polemista deve allontanare i sospetti di una rivalità girardiana con il narratore.
Carrai ricorda le radici e le prospettive comuni a Saba e Debenedetti: l’eredità ebraica, la vicinanza alla psicanalisi, e lo sforzo di mantenere letterariamente leggibile la parabola dei destini umani. Commentando il suo poeta, il critico capisce subito di trovarsi davanti «un uomo intero», una moralità, un carattere: l’opposto, cioè, di quel che avviene con la lirica egemone, decisa a nascondere la biografia sotto un tecnicismo ascetico. Più tardi definirà questo carattere dicendo che sta tra il fanciullo e il popolano – tratto che garantisce a Saba un discreto equilibrio tra la sua parte “pascoliana” e la sua parte adulta. A un tale equilibrio, nei momenti migliori, fa riscontro quello tra «figure» e «canti», cioè tra esigenze plastiche e melodiche. Seguendo queste tracce, Debenedetti precisa nel tempo la sua intuizione centrale. Il “Canzoniere”, sostiene, è una specie di melodramma: cuce insieme una serie di arie senza la costrittiva coerenza d’intreccio del romanzo. Il che spiega perché «mentre gli altri fanno la lirica con scopi e intenti puramente lirici», il suo autore «relazionale» e antiermetico usa le parole e «i mezzi della lirica (…) come strumenti». Saba mette in scena personaggi tipizzabili, colti nell’istante in cui manifestano un sentimento netto. Ma per sé che li guarda ha bisogno invece di situazioni tiepide, sfumate, da riparato idillio. E’ insomma un osservatore dell’esistenza in attesa di occasioni corpose che riempiano la sua indefinita disponibilità musicale, la sua vaghezza morale di semi-solitario troppo vicino al mondo per elaborarne una visione filosofica. In fondo Debenedetti descrive un «dilettante di sensazioni» il quale, a differenza del D’Annunzio così battezzato da Croce, non trae la sua materia da esperienze superomistiche ma da una routine piccolo-borghese. Il “Canzoniere” disegna il continuo moto pendolare di questo «dilettante» tra i tentativi di fondersi con l’ambiente e i ritiri in un’interiorità ferita. L’oscillazione si risolve solo nella scrittura, cantuccio contemplativo che permette di riflettere equamente tutta la Realtà. Debenedetti lo verifica nell’analisi del “Canto a tre voci”, dove Saba fa dialogare un Io vitalista e un Io intimista, e mette entrambi a confronto con un Narciso femmineo, attraverso cui trasforma in personaggio proprio ciò che all’incarnazione sfugge per natura, ossia la Poesia Moderna (sul tema, Carrai avrebbe forse potuto antologizzare anche le pagine dedicate al triestino nelle lezioni debenedettiane su Tommaseo, dove si parla del «tentativo di estroversione compiuto da un introvertito, per consentirsi di tornare dentro se stesso»).
La sostanziale introversione è connessa in Saba al terrore che qualsiasi gioia condivisa porti con sé una sciagura. Di qui gli esorcismi che ispirano la sua opera, e che Debenedetti, tessendo un mirabile giallo psicologico, riscontra nel capolavoro tardo di “Vecchio e giovane”. E’ un peccato che siano così pochi i suoi affondi sulle liriche veramente maggiori. Perfino nel fortunato incontro tra il critico e il poeta, il destino ha tenuto in serbo una beffa per Saba: che ottiene i primi riconoscimenti proprio mentre rarefà la sua poesia in modi aprioristicamente neoclassici. Forse, però, beffa e fortuna sono indistinguibili: probabilmente, infatti, solo a partire da quelle “piccole dosi” la letteratura italiana poteva iniziare ad accettare il Saba più vero e intero. Né, in realtà, ci è mai riuscita pienamente. Debenedetti allude a due tratti che ancora oggi scandalizzano la nostra cultura clericale. Il primo: Saba non permette al critico di barare; il suo rifiuto dei gerghi esige da lui la stessa nudità. Il secondo: intuitivamente, Saba riesce a divinare le scoperte di territori disciplinari in cui non ha competenze specialistiche. «Dopo le prime ore passate con lui», scrive Debenedetti, «Noventa trovò subito l’epigramma: “Ma non ne ha diritto!”». E’ il suo genio a prendersi questo diritto – un genio indivisibile dalla vulnerabilità che, per sordità o per sindrome di Salieri, ha indotto molti letterati a schernirlo. Per abbozzare su di lui una critica onesta ci voleva un De Sanctis del ‘900: che non poteva essere, come quello dell’Ottocento, un estroverso e robusto ministro-professore, ma un interprete non meno infestato dai demoni, non meno vulnerabile del suo poeta.
 
Michel David, La sua migliore amica era la psicanalisi, La Stampa Tuttolibri, 5 marzo 1983.

... quello che Saba vuole esprimere, come ogni idea in lui, "nasce da un disagio e sfocia nella necessità di giustificarsi, di dire tutto con una 'ardita sincerità' che ricorda Rousseau. Nella sua Trieste dialettale e mitteleuropea [il poeta] si aggrappa al filo della tradizione petrarchesco-leopardiana per controbilanciare con la convenzionalità metrica e lessicale la sua peculiare modernità, che consiste nell'esprimere istinti e sentimenti oscuri, minacciosi o patologici". (... Per conto mio, ho sempre apprezzato moltissimo le prose di Saba, anche per quello che di nuovo portavano nel contesto stilistico italiano: un tono sornione e sommesso di guru ironista, un testo da leggersi su tanti livelli sovrapposti, con confidenze e reticenze, osservazioni digressive, punti di vista e voci mobili, un gioco conversativo che non credo sia stato cosi vivacemente coltivato da altri. Insomma, la linea BoccaccioBembo disossata, «pervertita». Questa poliedricità stilistica, cosi piacevole nelle lettere (ma quando uscirà questo benedetto e necessario Epistolario?), nei raccontini, o nell'autocommentarismo di Storia e Cronistoria (un altro intelligente «romanzo» e cresciuto sulla pianta squisitamente italiana dell'autocommento), non mi pare abbia funzionato a dovere nell'alquanto deludente Ernesto, romanzo dell'«innocenza» scritto da un vecchio smaliziato e afflitto da una colpevolezza paralizzante. Senza parlare di quel dialettalismo ingenuo che Comisso condannava nei romanzi di Fogazzaro. D'altra parte, mi convinco sempre di più che l'elemento culturale più importante della maturazione di Saba poeta e prosatore sia stata la psicanalisi. Se l'omosessualità conscia — ed è merito di Ernesto farcelo capire — è stata la costante dell'angoscia di Saba, e fu censurata per anni, dal poeta in parte e dalla critica in blocco, la psicanalisi stessa, con la quale Saba pensava di scongiurare le sue depressioni, è stata taciuta, pudicamente, pure per anni (pare incredibile oggi), se non da lui, dalia maggior parte dei suoi esegeti. Solo la grande trasformazione culturale degli anni 1955-68 ha permesso che la tematica e le esperienze psicanalitiche fossero poste lecitamente in evidenza nella vita e nell'opera del poeta. Poeta romantico, «periferico», ma non tanto, nel tempo e nella geografia, autodidatta «istintivo», il suo incontro tardo con il Freud del dottor Weiss l'ha profondamente modificato. Oggi, si ipotizza perfino una lettura freudiana nel 1910, e credo sia esagerato. Ma un Freud più vissuto che letto ha fatto di lui una specie di precursore, non solo italiano, ma occidentale. Chi dei poeti del nostro tempo è stato sul divano prima di lui? Chi ne ha ricavato una poetica «illimpidita» prima di lui e con tanta semplice efficacia? Alberto Cavaglion, nel suo Welninger in Italia (Canicci, 1983) mostra quanto magro fosse l'influsso reale del viennese sul mezzo ebreo auto (ed etera?) flagellante Saba, contro le tesi di Giacomo Debenedetti. Solo Freud, perii tramite di Weiss, avrebbe dato un senso universale all'Edipo complicato di Saba nel 1929 e al poeta una fiducia in sé nuova, la consapevolezza di essere un poeta autentico, una specie di profeta biblico della Tragedia dell'Uomo e di una naturalezza letteraria conquistata a caro prezzo.

sabato 13 luglio 2024

La mitezza

 

Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, 1993 

... Anzitutto la mitezza è il contrario dell'arroganza. intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione. Il mite non ha grande opinione di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell'uomo, ed egli è un uomo come tutti gli altri. A maggior ragione la mitezza è contraria alla protervia, che è l'arroganza ostentata. Il mite non ostenta nulla, neanche la propria mitezza: l'ostentazione, ovvero il mostrare vistosamente, sfacciatamente le proprie pretese virtù, è di per se stesso un vizio. La virtù ostentata si converte nel suo contrario. Chi ostenta la propria carità manca di carità. Chi ostenta la propria intelligenza è in genere uno stupido. A maggior ragione la mitezza è il contrario delle prepotenza. Dico "a maggior ragione", perché la prepotenza è qualcosa di peggio rispetto alla protervia. La prepotenza è abuso di potenza non solo ostentata, ma concretamente esercitata. Il protervo fa bella mostra della sua potenza, il potere che ha di schiacciarti anche soltanto con un dito come si schiaccia una mosca o con un piede come si schiaccia un verme. Il prepotente questa potenza la mette in atto, attraverso ogni sorta di abusi e soprusi, di atti di dominio arbitrario e, quando sia necessario, crudele. Il mite è invece colui che "lascia essere l'altro quello che è", anche se l'altro è l'arrogante, il protervo, il prepotente. Non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. (...)

venerdì 12 luglio 2024

Insegnamenti del voto francese

 

 


Antonio Polito
, La forza dei sistemi elettorali, Corriere della sera, 12 luglio 2024

... Verrebbe perciò da dire a proposito della riforma Casellati: non conveniva forse partire da una buona legge elettorale per rafforzare l’esecutivo, invece che dalla previsione di un’elezione diretta che non si sa ancora come avverrà? E poi magari fare quei pochi, mirati interventi sulla Costituzione per dare più poteri al premier? Il centrodestra deve infatti capire che un sistema elettorale democratico può certo favorire la formazione di una maggioranza assoluta in Parlamento, ma non può garantirla con certezza neanche a un premier eletto direttamente; e infatti perfino nei modelli presidenziali non è affatto detto che l’eletto dal popolo goda anche di una maggioranza parlamentare (oggi non ce l’ha né Macron, né Biden alla Camera dei Rappresentanti).

Ma c’è un altro insegnamento per Giorgia Meloni che viene dalla Francia: se il voto diventa un referendum la destra rischia grosso, perché la coalizione di tutti gli avversari può vincere agitando l’«allarme democratico» e alzando il «cordone sanitario». È il destino che insegue ormai da decenni i Le Pen, ma almeno loro combattevano per conquistare o l’Eliseo o Palazzo Matignon. In Italia la premier rischia di far nascere la stessa Santa Alleanza contro di lei nel referendum sulla riforma costituzionale, se non è capace di modificarla per condividerla con almeno un pezzo dell’opposizione. Ne vale la pena?

Qualcosa da apprendere nel voto inglese e francese c’è ovviamente anche per la sinistra, e soprattutto per quella sorta di Tribuno Collettivo che agisce sui social e nei media, e che spinge i partiti di opposizione a non accettare nessuna formula politica che rafforzi il potere dell’esecutivo. Questa sindrome ancestrale di paura dell’«uomo forte», o della «donna forte», sottovaluta il fatto che oggi in Occidente per gli elettori democrazia è soprattutto capacità di governare e rapidità di decisioni, e rende la sinistra di Schlein e Conte geneticamente conservatrice sul piano delle riforme del sistema politico (al punto da rinnegare, nel caso del Pd, anche il suo passato ben altrimenti riformista).

Eppure i capi dell’opposizione dovrebbero riflettere sul fatto che sono stati gli ampi poteri di un Presidente eletto direttamente come Macron, libero di sciogliere il Parlamento quando e come vuole, anche solo per motivi di convenienza politica, a permettere la nascita di un fronte repubblicano capace di bloccare l’ascesa di Le Pen. E che i poteri del laburista appena eletto a Downing Street fanno impallidire quelli che la riforma Meloni vorrebbe attribuire al premier in Italia, mentre da noi vengono presentati come l’anticamera di un nuovo fascismo.

-------------------------------------------------------------------

Bruno Gravagnuolo, commento apparso su Facebook nello stesso giorno 

Polito critica la volontà di Meloni di insistere su elezione diretta che coalizzerebbe tutti contro il bau bau fascista. E usa tra l'altro un argomento erroneo: neanche l'elezione diretta potrebbe garantire maggioranza assoluta al premier. E invece no. Perché l'unicum del Melonato è proprio questo. Eleggere premier e maggioranza blindandoli. Salvo pasticci su staffette e secondo premier in panchina una tantum. Perciò certo poteri del premier di revoca e nomina, sfiducia costruttiva, tutte cose che l'opposizione propone e accetta. Ma Polito fa confusione e sbraita a vuoto di conservatorismo dell'opposizione. Disinforma. E l'opposizione fa benissimo a far muro e unità propositiva contro una controriforma autoritaria che Polito cerchio botte vuol sdrammatizzare ma che tale resta.

mercoledì 10 luglio 2024

Lettera aperta di Macron ai francesi


 

 
Care francesi, cari francesi,
 
Il 30 giugno e il 7 luglio vi siete recati in gran numero alle urne per scegliere i vostri deputati. Accolgo con favore questa mobilitazione, segno della vitalità della nostra Repubblica da cui, mi sembra, si possono trarre alcune conclusioni.
Innanzitutto, c’è bisogno di espressione democratica nel Paese. Quindi, se l’estrema destra è arrivata prima al primo turno con quasi 11 milioni di voti, voi avete chiaramente rifiutato di farle entrare nel governo. Ebbene, nessuno ha vinto. Nessuna forza politica ottiene da sola una maggioranza sufficiente e i blocchi o le coalizioni che emergono da queste elezioni sono tutti in minoranza. Divise al primo turno, unite da reciproci ritiri al secondo, elette grazie al voto degli elettori dei loro ex avversari, solo le forze repubblicane rappresentano la maggioranza assoluta. La natura di queste elezioni, segnate da una chiara richiesta di cambiamento e di condivisione del potere, richiede la creazione di un grande raggruppamento.
Da presidente della Repubblica, sono al tempo stesso protettore dell'interesse della Nazione e garante delle istituzioni e del rispetto della vostra scelta.
È per questo motivo che chiedo a tutte le forze politiche che si riconoscono nelle istituzioni repubblicane, nello Stato di diritto, nel parlamentarismo, in un orientamento europeo e nella difesa dell’indipendenza francese, di impegnarsi in un dialogo sincero e leale per costruire una maggioranza solida, necessariamente plurale , per il Paese. Idee e programmi prima che posizioni e personalità: questo convegno deve essere costruito intorno ad alcuni grandi principi per il Paese, valori repubblicani chiari e condivisi, un progetto pragmatico e leggibile e tenere conto delle preoccupazioni che avete espresso in occasione delle elezioni. Deve garantire la massima stabilità istituzionale possibile. Riunirà donne e uomini che, nella tradizione della Quinta Repubblica, pongono il loro Paese al di sopra del loro partito, la Nazione al di sopra delle loro ambizioni. Ciò che i francesi hanno scelto alle urne, il fronte repubblicano, le forze politiche devono realizzarlo con le loro azioni.
È alla luce di questi principi che deciderò sulla nomina del Primo Ministro. Ciò richiede di concedere un po’ di tempo alle forze politiche per costruire questi compromessi con serenità e rispetto per tutti. Fino ad allora, l’attuale governo continuerà ad esercitare le sue responsabilità e si occuperà dell’attualità, secondo la tradizione repubblicana.
Riponiamo la nostra speranza nella capacità dei nostri leader politici di dimostrare un senso di armonia e di pacificazione nel vostro interesse e in quello del Paese. Il nostro Paese deve essere in grado di promuovere, come fanno molti dei nostri vicini europei, questo spirito di superamento che ho sempre invocato.
Il vostro voto richiede che tutti siano all'altezza della situazione, che si arrivi a lavorare insieme.
Domenica scorsa avete invocato l'invenzione di una nuova cultura politica francese. Per voi, io veglierò. Nel vostro nome, ne sarò il garante.
In fede, 
 
Emmanuel Macron

Meloni, fascista presunta

 

 


Giorgia Meloni non è quella cosa lì che molti pensano di avere individuato. E' una fascista moderna, una che ha saputo aggiornarsi e che del fascismo conserva alcuni elementi (il nazionalismo, l'orgoglio sociale, il culto del capo) mentre ne rigetta altri, l'esaltazione della violenza, il dispotismo codificato. In genere non viene combattuta per quello che è, ma per quello che dovrebbe rappresentare agli occhi dei suoi avversari, ossia per la fedeltà a un fascismo mai rinnegato del tutto. Lei si definisce una conservatrice, anche se poi nei fatti sa mostrarsi spregiudicata, capace di adattarsi al mondo in cui vive. Certo non vuole combattere la diseguaglianza, difende senza complessi il privilegio dei piccoli potentati (tassisti, balneari, evasori). Meloni andrebbe attaccata in quanto baluardo di un ordine desueto, non in quanto fascista nostalgica.
(Giovanni Carpinelli)

 

Giuliano Ferrara, La sindrome Meloni della sinistra, Il Foglio, 10 luglio 2024

La sindrome Meloni è a sinistra una malattia grave. O almeno molto insidiosa. Priva di intelligenza il campo largo, larghissimo, sterminato che non c’è. Distrugge il raziocinio e insieme il sense of humour, oltre che il senso comune. Si manifesta così: lei non si dichiara antifascista, non abiura platealmente, quindi è come Orbán, che ha costituito un gruppo in Europa in concorrenza con i suoi conservatori; quindi è come Le Pen, che sta con Putin e contro Zelensky, che non ha i deficienti denunciati da Fanpage, puro folclore, ma i bei tomi dell’algerie française e dell’oas tra le palle; che è per la preferenza nazionale sovranista d’accatto francese, mentre Meloni risolve il problema della rete alla Kkr e di Ita alla Lufthansa; quindi è per Trump, col quale tutti dovranno eventualmente fare i conti, anche lei che è una cara amica di Joe Biden, et pour cause, perché sa stare in Europa e nella Nato con slancio atlantista serio e convinto anche dai tempi della sua opposizione solitaria a Draghi, con tutte le sue comprensibili riserve sul brillante provocatore Macron che cerca invano di umiliarla per i suoi affari interni.

Meloni non tocca i diritti civili, ma è designata nemica dell’aborto così, a vanvera, e peccato non lo sia affatto; ha una figlia che si chiama Ginevra, non Maria Goretti, è una ragazza madre o giù di lì, una single comunque che ha fatto i conti con il maschilismo del compagno a mezzo di un breve comunicato.

Palmiro Togliatti, che oggi è un oscuro professore di liceo amico di Gramsci, completamente dimenticato, ma fu capo del Pci, braccio destro di Stalin, eppure forgiò l’italia anche nei suoi aspetti migliori, insegnò a respirare la politica a tutti, San Berlinguer compreso, si domandò in un famoso saggio se fosse possibile un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi, suo storico nemico, e nel Discorso su Giolitti e in quello su ceti medi ed Emilia rossa pose le basi della nazionalizzazione del comunismo italiano e del successivo eurocomunismo, che non avrebbe nemmeno mai potuto concepire per ragioni storiche e biografiche ma che era figlio della sua via italiana. L’equanimità nel giudizio sugli avversari è uno dei tratti mancanti della piccola politica italiana. Il reciproco riconoscimento di valori fu la base dell’esperienza repubblicana, finita con la dittatura del moralismo e del giustizialismo e con la caduta della cultura politica alta. Recuperarne un’oncia, visto come stanno le cose, sarebbe doveroso, non indebolirebbe la prospettiva di un’alternativa, la renderebbe anzi credibile. Meloni è una leader della destra, ma la sua è una coalizione di governo costruita su basi plurali, con un pezzo del Partito popolare europeo dentro, con una Lega salviniana che funge da provocazione vannacciana, almeno quanto alle ambizioni del suo leader, e punge il fianco della destra affidabile perseguita dalla presidente del Consiglio. Il grado di integrazione reso possibile dal sistema italiano ha qualcosa di stupefacente, ed è il residuo migliore di una lunga tradizione a torto e moralisticamente bollata di trasformismo. La sindrome Meloni chiude la sinistra, che non ha ancora saputo trasformarsi in dirimpettaia di centrosinistra, in una logica ottusa e fuori tempo.

 

martedì 9 luglio 2024

Francia, il dialogo possibile

 


La sinistra non ha propriamente vinto le elezioni legislative in Francia. Ha ottenuto solo un terzo dei voti e non è in grado di dettare le condizioni di una resa al partito di Macron. Eppure le forze in gioco sono queste e non altre: il Rassemblement National è il terzo escluso, è stato l'avversario da battere e in tal senso ha perso, pur ottenendo un maggior numero di seggi in parlamento. Il Nuovo Fronte Popolare con la France Insoumise al suo interno ha fatto meglio degli altri, certo, ma non rappresenta neppure una forza omogenea. Il chiarimento voluto dal presidente Macron ha condotto in tal senso a una situazione confusa. Il paese sembra ingovernabile. "Una vittoria di Pirro", è questa la conclusione cui giunge Marc Lazar dopo aver riconsiderato il quadro attuale delle forze in campo. 
Molti danno già per morta la Quinta repubblica. Macron allora diventa quasi irrilevante. Ma così non è, il presidente ha perso il suo ruolo dominante di monarca senza corona, non è più quel Giove incarnato che pretendeva di essere, ma è pur sempre un primus inter pares. Può esercitare un ruolo di arbitro a patto di dialogare con i partiti associati in parlamento da un destino comune. La desistenza ha prodotto questo risultato e i vincitori sono condannati a intendersi tra loro. Il vecchio capo della sinistra ribelle, Mélenchon, si muove come se fosse il solo protagonista dell'intera vicenda e sbaglia: "è ... facile bersaglio di macroniani e destrorsi che provano a demonizzare la sinistra. Il leader presta il fianco a queste strumentalizzazioni quando opera in modo dispotico nel suo stesso partito: aver purgato le voci critiche dalle liste ha irritato pure i più leali" (Francesca De Benedetti, Domani, d'ora in poi FDB). Insomma il tribuno occupa una posizione marginale nel quadro che si viene delineando.
Per fortuna nell'Assemblea Nazionale ci sono altre presenze più aperte al dialogo. Il leader del Parti socialiste Olivier Faure "si risparmierebbe volentieri un Mélenchon premier ma non abdicherebbe a una sinistra alla guida" (FDB). Da non tralasciare il ruolo di François Ruffin: giornalista prestato alla politica, inizialmente con gli Insoumis, ha rotto con Mélenchon" (FDB). Marine Tondelier, segretaria degli ecologisti, "si è proiettata a nome di punta per un motivo: lei parla con tutti, e con lei tutti parlano". Infine troviamo la presidente della regione Occitania, Carole Delga, tanto ostile a Nupes [la vecchia alleanza della sinistra] e Mélenchon, quanto estimatrice di Glucksmann [astro ascendente dell'area socialista]: è l'ala centrista che coi macroniani dialogherebbe meglio; in quest'area va incluso l'ex presidente François Hollande" (FDB). Insomma i punti luminosi nel buio di una situazione bloccata non mancano.

lunedì 8 luglio 2024

Il destino di un tribuno

 


 Stefano Montefiori, Divisioni a sinistra e veti con il centro. Cosa succede adesso, Corriere della Sera, 8 luglio 2024

... Jean-Luc Mélenchon ha già proclamato solennemente, ieri sera, che non vuole alcuna intesa più o meno sottobanco con i macronisti, perché il suo Nfp ha vinto diventando il primo gruppo e quindi ha il diritto di governare. Peccato però che non abbia neanche lontanamente i numeri per farlo, e un governo Nfp verrebbe rovesciato alla prima votazione in aula.

Ma soprattutto, non è tanto che Mélenchon non vuole stringere alleanze. Più che altro, sono tutti gli altri che non vogliono stringere alleanze con lui. Anche quelli che lo hanno fatto fino a ieri, per esempio la sinistra moderata dei socialisti di Olivier Faure e di Place publique di Raphael Glucksmann. Quest’ultimo, in particolare, fino alle Europee è stato il nemico più chiaro di Mélenchon, suo rivale su tutto, e capace di doppiarlo all’interno della sinistra. Se Glucksmann ha accettato di fare parte del Nfp, nonostante la presenza di Mélenchon che lui detesta e nonostante gli attacchi al limite dell’antisemitismo dei suoi militanti, è solamente — e lo ha detto più volte — «per fermare il Rn. Questa è la priorità fino al 7 luglio. Da lunedì 8 luglio, al mattino, entriamo in un altro mondo, i giochi cambiano».

Ovvero, Glucksmann potrebbe disgregare immediatamente, o quasi, il cartello elettorale formato a malincuore con Mélenchon, e rendersi disponibile per altre alleanze, stavolta vere, politiche, con altre forze democratiche, europeiste, pro-ucraina presenti in Parlamento. Per esempio quel che resta del Nouveau front populaire, i macronisti di Ensemble, Edouard Philippe di Horizons fino ai repubblicani gollisti che non hanno seguito l’avventura — che ha portato male — di Eric Ciotti nuovo amico dei lepenisti.

Di fronte al rischio di non avere una maggioranza all’assemblea nazionale, che «esporrebbe la Francia e il popolo francese a formidabili pericoli», Philippe ieri ha di nuovo fatto appello alle «forze politiche centrali per promuovere, senza compromessi, la creazione di un accordo che stabilizzi la situazione politica». Precisando che questo accordo «non può essere costruito con il Rn o con l’lfi», Édouard Philippe ha annunciato di essere «a disposizione di coloro che vogliono partecipare alla ricostruzione della speranza». La linea sembra tracciata, ora bisognerà vedere quando comincerà il tentativo e quando si romperà il Nouveau front populaire che ha appena vinto, e che potrebbe essere già finito.

domenica 7 luglio 2024

Amo il mio corpo


"Mi piace il mio corpo", amo il mio corpo: questo ha dichiarato Noora Fagerström, la parlamentare finlandese che è apparsa nuda nella foto pubblicata su un quotidiano. Subito dopo ha aggiunto: "Ma ho anche dei problemi. La scoliosi e un’ernia nella schiena, per esempio. Mi piacciono le mie gambe forti, ma ho piedi brutti dalle ossa fragili che mi portano a scartare quasi tutte le scarpe che ho e non mettere mai i tacchi». Parla, come chiunque in quest’epoca, della «pressione di ricevere critiche estetiche sui social". Proprio un bel segno dei tempi. Il corpo nudo non è assunto come sinonimo di perfezione fisica o di salute assoluta. Sono una persona umana come tante altre. Nessuna idolatria. Però sono ancora giovane e posso essere fiera di mostrare con il mio volto le mie curve, la mia scioltezza, la mia gioia di esistere. Questa è una maniera di essere nuova, rispetto a quanto era normale avvertire nei pensieri diffusi al tempo dei nostri genitori o dei nostri nonni. Kate Winslet, che è nata nel 1975, ha per esempio affermato: "Da bambina, non ho mai sentito una donna dire a me: 'Amo il mio corpo'. (...) Nessuna donna ha mai detto: 'Sono tanto orgogliosa del mio corpo'. Ecco: i tempi sono cambiati. Basta andare su Internet e guardare cosa succede ora. L'esibizione del corpo domina una parte notevole delle pagine personali create dalle donne e dalle donne giovani in particolare. Il fenomeno ha varie spiegazioni. La più ovvia chiama in causa il narcisismo dilagante nella società attuale. Ma non di solo narcisismo si tratta. Le donne che si mostrano in costume da bagno non vogliono solo proclamare che amano il loro corpo. Vogliono far sapere che esistono e che in un mondo portato a valorizzare l'apparenza fisica possono trovare il loro posto. Altro che penso, dunque sono. Ho un corpo, sono desiderabile, dunque esisto. Nel caso di Noora Fagerström c'è ancora dell'altro. La Finlandia ha avuto come primo ministro Sanna Marin, che è stata la sua prima diva, come scrive Irene Soave nel suo articolo per il Corriere della sera (https://www.corriere.it/esteri/24_luglio_07/noora-fagerstroem-parlamentare-finlandese-fotografare-nuda-8479f385-fcf7-4695-9ae8-dc2fe4784xlk.shtml?refresh_ce). Molte donne aspirano a prenderne il posto, c'è una corsa alla successione fisica. Noora Fagerström è una di loro.