lunedì 15 luglio 2024

Il borgo

 


Umberto Saba, Il borgo (sta nel Canzoniere e rientra nella raccolta Cuor morituro 1925-1930)
 
Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m’avvenne.
Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d’uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent’anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.
Dove nel dolce tempo
d’infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d’umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d’immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l’alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d’essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.
Nato d’oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
– eco perduta
di giovinezza – per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell’alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.
La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da un parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m’aspetta.
Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d’immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d’essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d’allora. 

 Matteo Marchesini, Accettare il Saba più vero e intero, Il Sole 24 ore, 14 luglio 2024)
 
Su Montale e Ungaretti esistono biblioteche gigantesche; su Saba no. Riguardo alla terza corona della nostra poesia novecentesca, ci si chiede perfino se si possa parlare di una “storia della critica”. Le canonizzazioni sembrano infatti derivare ancora dalla scommessa del giovane Giacomo Debenedetti, che negli anni ‘20 elesse a rappresentante delle proprie inquietudini quel versificatore quarantenne ritenuto dai più un arretrato appena sopra la media. Solo la sottigliezza di Debenedetti, che con una ‘scorciatoia’ degna del suo amico lo dipinse come un poeta destinato a fare il viaggio a ritroso del salmone, riuscì a gettare su Saba una luce di attualità. Da allora, quasi tutti gli interpreti si sono mossi inerzialmente sulla sua scia. Non c’è da stupirsi: nel tardo ‘900, che ha accademizzato avanguardie e simbolismi, si è privilegiata una letteratura in grado di offrire subito, insieme alla vertigine della difficoltà, il gusto di una decrittazione fin troppo facile e meccanica. Anziché fuggire dalla «lingua della tribù», l’unico tra i nostri massimi poeti fisiologicamente estraneo ai presupposti del modernismo punta invece sulle parole ovvie, su quella rima «fiore / amore» che considera la più «difficile» appunto perché trita (ovvero riscattabile solo dal talento) e che esibisce senza l’alibi dell’ironia crepuscolare. Saba intuisce presto che il pericolo moderno non è la banalità del senso comune ma la banalità “culturalistica”, ideologica. Non si tratta di un’intuizione a freddo: come ogni idea, in lui, affiora da un disagio, e sfocia nella necessità di giustificarsi, di ‘dire tutto’ con una «ardita / sincerità» che ricorda Rousseau. Nella sua Trieste dialettale e mitteleuropea, ma poco italiana, Saba si aggrappa al filo della tradizione petrarchesco-leopardiana per controbilanciare con la convenzionalità metrica e lessicale la sua peculiare modernità, che consiste nell’esprimere istinti e sentimenti oscuri, minacciosi o patologici.
Oggi la figura dell’autore del “Canzoniere” ci viene ripresentata proprio attraverso i ritratti che gli dedicò Debenedetti, di cui Stefano Carrai ha riunito gli «Scritti e saggi (1923-1974)» su “Saba” in un volume uscito per Carocci. Troviamo qui le prime rivelazioni giovanili, fissate nel 1923 su “Primo Tempo” e nel ’28 su “Solaria”; le prime schermaglie con gli stroncatori novecentisti di Saba, rappresentati da Gargiulo; gli schizzi quasi narrativi del secondo dopoguerra; i quaderni delle lezioni universitarie del 1958-’59, pubblicati postumi; e in appendice la stroncatura al romanzo di Quarantotti Gambini che riprende nel titolo la sabiana «calda vita» - stroncatura per intensità performativa paragonabile a quella su Marinetti, ma più acrobatica, perché qui il polemista deve allontanare i sospetti di una rivalità girardiana con il narratore.
Carrai ricorda le radici e le prospettive comuni a Saba e Debenedetti: l’eredità ebraica, la vicinanza alla psicanalisi, e lo sforzo di mantenere letterariamente leggibile la parabola dei destini umani. Commentando il suo poeta, il critico capisce subito di trovarsi davanti «un uomo intero», una moralità, un carattere: l’opposto, cioè, di quel che avviene con la lirica egemone, decisa a nascondere la biografia sotto un tecnicismo ascetico. Più tardi definirà questo carattere dicendo che sta tra il fanciullo e il popolano – tratto che garantisce a Saba un discreto equilibrio tra la sua parte “pascoliana” e la sua parte adulta. A un tale equilibrio, nei momenti migliori, fa riscontro quello tra «figure» e «canti», cioè tra esigenze plastiche e melodiche. Seguendo queste tracce, Debenedetti precisa nel tempo la sua intuizione centrale. Il “Canzoniere”, sostiene, è una specie di melodramma: cuce insieme una serie di arie senza la costrittiva coerenza d’intreccio del romanzo. Il che spiega perché «mentre gli altri fanno la lirica con scopi e intenti puramente lirici», il suo autore «relazionale» e antiermetico usa le parole e «i mezzi della lirica (…) come strumenti». Saba mette in scena personaggi tipizzabili, colti nell’istante in cui manifestano un sentimento netto. Ma per sé che li guarda ha bisogno invece di situazioni tiepide, sfumate, da riparato idillio. E’ insomma un osservatore dell’esistenza in attesa di occasioni corpose che riempiano la sua indefinita disponibilità musicale, la sua vaghezza morale di semi-solitario troppo vicino al mondo per elaborarne una visione filosofica. In fondo Debenedetti descrive un «dilettante di sensazioni» il quale, a differenza del D’Annunzio così battezzato da Croce, non trae la sua materia da esperienze superomistiche ma da una routine piccolo-borghese. Il “Canzoniere” disegna il continuo moto pendolare di questo «dilettante» tra i tentativi di fondersi con l’ambiente e i ritiri in un’interiorità ferita. L’oscillazione si risolve solo nella scrittura, cantuccio contemplativo che permette di riflettere equamente tutta la Realtà. Debenedetti lo verifica nell’analisi del “Canto a tre voci”, dove Saba fa dialogare un Io vitalista e un Io intimista, e mette entrambi a confronto con un Narciso femmineo, attraverso cui trasforma in personaggio proprio ciò che all’incarnazione sfugge per natura, ossia la Poesia Moderna (sul tema, Carrai avrebbe forse potuto antologizzare anche le pagine dedicate al triestino nelle lezioni debenedettiane su Tommaseo, dove si parla del «tentativo di estroversione compiuto da un introvertito, per consentirsi di tornare dentro se stesso»).
La sostanziale introversione è connessa in Saba al terrore che qualsiasi gioia condivisa porti con sé una sciagura. Di qui gli esorcismi che ispirano la sua opera, e che Debenedetti, tessendo un mirabile giallo psicologico, riscontra nel capolavoro tardo di “Vecchio e giovane”. E’ un peccato che siano così pochi i suoi affondi sulle liriche veramente maggiori. Perfino nel fortunato incontro tra il critico e il poeta, il destino ha tenuto in serbo una beffa per Saba: che ottiene i primi riconoscimenti proprio mentre rarefà la sua poesia in modi aprioristicamente neoclassici. Forse, però, beffa e fortuna sono indistinguibili: probabilmente, infatti, solo a partire da quelle “piccole dosi” la letteratura italiana poteva iniziare ad accettare il Saba più vero e intero. Né, in realtà, ci è mai riuscita pienamente. Debenedetti allude a due tratti che ancora oggi scandalizzano la nostra cultura clericale. Il primo: Saba non permette al critico di barare; il suo rifiuto dei gerghi esige da lui la stessa nudità. Il secondo: intuitivamente, Saba riesce a divinare le scoperte di territori disciplinari in cui non ha competenze specialistiche. «Dopo le prime ore passate con lui», scrive Debenedetti, «Noventa trovò subito l’epigramma: “Ma non ne ha diritto!”». E’ il suo genio a prendersi questo diritto – un genio indivisibile dalla vulnerabilità che, per sordità o per sindrome di Salieri, ha indotto molti letterati a schernirlo. Per abbozzare su di lui una critica onesta ci voleva un De Sanctis del ‘900: che non poteva essere, come quello dell’Ottocento, un estroverso e robusto ministro-professore, ma un interprete non meno infestato dai demoni, non meno vulnerabile del suo poeta.
 
Michel David, La sua migliore amica era la psicanalisi, La Stampa Tuttolibri, 5 marzo 1983.

... quello che Saba vuole esprimere, come ogni idea in lui, "nasce da un disagio e sfocia nella necessità di giustificarsi, di dire tutto con una 'ardita sincerità' che ricorda Rousseau. Nella sua Trieste dialettale e mitteleuropea [il poeta] si aggrappa al filo della tradizione petrarchesco-leopardiana per controbilanciare con la convenzionalità metrica e lessicale la sua peculiare modernità, che consiste nell'esprimere istinti e sentimenti oscuri, minacciosi o patologici". (... Per conto mio, ho sempre apprezzato moltissimo le prose di Saba, anche per quello che di nuovo portavano nel contesto stilistico italiano: un tono sornione e sommesso di guru ironista, un testo da leggersi su tanti livelli sovrapposti, con confidenze e reticenze, osservazioni digressive, punti di vista e voci mobili, un gioco conversativo che non credo sia stato cosi vivacemente coltivato da altri. Insomma, la linea BoccaccioBembo disossata, «pervertita». Questa poliedricità stilistica, cosi piacevole nelle lettere (ma quando uscirà questo benedetto e necessario Epistolario?), nei raccontini, o nell'autocommentarismo di Storia e Cronistoria (un altro intelligente «romanzo» e cresciuto sulla pianta squisitamente italiana dell'autocommento), non mi pare abbia funzionato a dovere nell'alquanto deludente Ernesto, romanzo dell'«innocenza» scritto da un vecchio smaliziato e afflitto da una colpevolezza paralizzante. Senza parlare di quel dialettalismo ingenuo che Comisso condannava nei romanzi di Fogazzaro. D'altra parte, mi convinco sempre di più che l'elemento culturale più importante della maturazione di Saba poeta e prosatore sia stata la psicanalisi. Se l'omosessualità conscia — ed è merito di Ernesto farcelo capire — è stata la costante dell'angoscia di Saba, e fu censurata per anni, dal poeta in parte e dalla critica in blocco, la psicanalisi stessa, con la quale Saba pensava di scongiurare le sue depressioni, è stata taciuta, pudicamente, pure per anni (pare incredibile oggi), se non da lui, dalia maggior parte dei suoi esegeti. Solo la grande trasformazione culturale degli anni 1955-68 ha permesso che la tematica e le esperienze psicanalitiche fossero poste lecitamente in evidenza nella vita e nell'opera del poeta. Poeta romantico, «periferico», ma non tanto, nel tempo e nella geografia, autodidatta «istintivo», il suo incontro tardo con il Freud del dottor Weiss l'ha profondamente modificato. Oggi, si ipotizza perfino una lettura freudiana nel 1910, e credo sia esagerato. Ma un Freud più vissuto che letto ha fatto di lui una specie di precursore, non solo italiano, ma occidentale. Chi dei poeti del nostro tempo è stato sul divano prima di lui? Chi ne ha ricavato una poetica «illimpidita» prima di lui e con tanta semplice efficacia? Alberto Cavaglion, nel suo Welninger in Italia (Canicci, 1983) mostra quanto magro fosse l'influsso reale del viennese sul mezzo ebreo auto (ed etera?) flagellante Saba, contro le tesi di Giacomo Debenedetti. Solo Freud, perii tramite di Weiss, avrebbe dato un senso universale all'Edipo complicato di Saba nel 1929 e al poeta una fiducia in sé nuova, la consapevolezza di essere un poeta autentico, una specie di profeta biblico della Tragedia dell'Uomo e di una naturalezza letteraria conquistata a caro prezzo.

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