venerdì 26 luglio 2024

Ritratto di un amico

 


Norberto Bobbio, Ritratto di Leone Ginzburg, Maestri e compagni, Passigli editore, Firenze 1984

Leone aveva il culto dell’amicizia. La sanità della sua natura si mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a se stesso, non aveva niente a che vedere con la pedanteria moralistica, con la puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma era volto al perfezionamento di se stessi solo come via al miglioramento dei rapporti con gli altri. L’abituale scrupolosità nell’adempimento dei propri doveri poteva far credere che egli seguisse un’etica della perfezione; ma a contatto con gli altri, soprattutto nella cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in mente un ideale più vasto, più comprensivo, più umano, vorrei dire, una etica della comunione. Amava la conversazione, la compagnia, il mondo: era anche un uomo di società. Non era un solitario: anzi aveva bisogno di espandersi, di comunicare, di conoscere molta gente per scambiare idee, impressioni su fatti, libri, persone, per dare e ricevere notizie del giorno (e per questo era sempre informatissimo d’ogni cosa). La rete delle sue relazioni era vasta e fittissima. Gli faceva piacere conoscere sempre nuove persone, che poi analizzava, soppesava, catalogava, e aggiungeva alla sua raccolta di tipi. Le cose di cui era più curioso, in fondo, erano proprio gli uomini vivi, con le loro virtù, vizi e stranezze (le sua segreta ambizione fu sempre quella di fare lo scrittore di racconti psicologici). Amava la compagnia dei coetanei, ma anche dei grandi, i quali in genere lo ammiravano e lo tenevano in gran conto, stupefatti della sua assennatezza, dell’equilibrio dei suoi giudizi e delle sue opinioni. Stava volentieri con le ragazze della nostra età, compagne di scuola, amiche delle vacanze, signorine della buona società: le trattava da pari a pari, senza timidezza né orgoglio, senza complessi di inferiorità né spirito di conquista; si confidava con loro e ne riceveva le confidenze. Era innamorato della loro grazia e gentilezza e di quella sensibilità femminile per le cose del cuore, che rende meno selvatica e ispida e scontrosa la vita di un adolescente. Con gli amici era affabilissimo: la pratica continua dell’amicizia rappresentò una parte importante della sua vita. Quando c’incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa (per alcuni anni in via Pastrengo 13, poi in via Vico 2), gli si apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l’ospite inviato dagli dèi: la mamma o la sorella preparavano una tazza di tè, alla maniera russa, squisita. Qualche volta gli amici arrivavano a gruppi:
Leone non si scomponeva, e se non c’era una seggiola per tutti, alcuni si sedevano sul letto. Ma non
chiudeva la porta in faccia a nessuno: anzi, alla festosità un po’ rumorosa dell’invasione, rispondeva con la cordialità più discreta, ma non meno festosa, di una lieta accoglienza. Quante ore della nostra vita – ore che hanno contato nel nostro destino, ore incancellabili nella memoria, intense, piene di propositi futuri e di affetti presenti, godute minuto per minuto – abbiamo trascorso accanto a quella scrivania ricoperta da una spessa carta assorbente verde, con gli occhi rivolti alla libreria di cui mi pare ancora di rivedere ad uno ad uno i dorsi dei volumi? Quelle quattro pareti sono state la nostra Accademia, la nostra Stoa, il luogo in cui si è ricevuta l’educazione formatrice, da cui si esce finalmente più adulti, più nutriti e saldi: lunghi colloqui a due, a tre, a quattro, che facevano e disfacevano il mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni ricevute, pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell’anima, li mettevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il fondo. Talora ne uscii vinto, col senso di una sconfitta irreparabile, del fallimento; ma poi mi davo una ragione, trovavo sempre una tavola a cui aggrapparmi, e riprendevamo il filo del discorso interrotto e ricominciavamo insieme la strada. Più spesso ne uscivo scosso, turbato, col cuore in subbuglio; ma era un turbamento salutare che aiutava a fare un passo innanzi nel chiarimento di se stessi e nella comprensione della dura realtà (la realtà mi parve sempre spessa, densa, inaccessibile, e perciò inclinavo negli anni dell’adolescenza al solipsismo).
Leone mi aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi incoraggiò quando ero sfiduciato;
soprattutto mi diede il conforto di un’indomita forza accompagnata da una accattivante dolcezza, un
esempio corroborante di coraggio verso gli eventi e di pazienza verso gli uomini, di rigidezza nelle idee temperate da una pudica delicatezza nei sentimenti. Era l’esempio di cui avevo bisogno per non sentirmi continuamente in balia delle mie inquietudini, inibito dal timore che avevo del mio prossimo, diviso dal conflitto che in me si combatteva tra l’attrazione degli ideali superiori e l’urto con la realtà che sentivo ingrata, ostile, soverchiante. Leone, il grande mediatore: mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non comprendevo, cui recalcitravo. Mi iniziò al “lungo viaggio”, che si sarebbe concluso nel “sangue d’Europa”, e abbiamo terminato, dolorosamente, senza di lui.

 

 

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