Norberto Bobbio, Ritratto di Leone Ginzburg, Maestri e compagni, Passigli editore, Firenze 1984
Leone aveva il culto dell’amicizia. La sanità della sua natura si
mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a se stesso, non
aveva niente a che vedere con la pedanteria moralistica, con la
puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma era volto al
perfezionamento di se stessi solo come via al miglioramento dei
rapporti con gli altri. L’abituale scrupolosità nell’adempimento
dei propri doveri poteva far credere che egli seguisse un’etica
della perfezione; ma a contatto con gli altri, soprattutto nella
cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in mente un ideale più
vasto, più comprensivo, più umano, vorrei dire, una etica della
comunione. Amava la conversazione, la compagnia, il mondo: era anche
un uomo di società. Non era un solitario: anzi aveva bisogno di
espandersi, di comunicare, di conoscere molta gente per scambiare
idee, impressioni su fatti, libri, persone, per dare e ricevere
notizie del giorno (e per questo era sempre informatissimo d’ogni
cosa). La rete delle sue relazioni era vasta e fittissima. Gli faceva
piacere conoscere sempre nuove persone, che poi analizzava,
soppesava, catalogava, e aggiungeva alla sua raccolta di tipi. Le
cose di cui era più curioso, in fondo, erano proprio gli uomini
vivi, con le loro virtù, vizi e stranezze (le sua segreta ambizione
fu sempre quella di fare lo scrittore di racconti psicologici). Amava
la compagnia dei coetanei, ma anche dei grandi, i quali in genere lo
ammiravano e lo tenevano in gran conto, stupefatti della sua
assennatezza, dell’equilibrio dei suoi giudizi e delle sue
opinioni. Stava volentieri con le ragazze della nostra età, compagne
di scuola, amiche delle vacanze, signorine della buona società: le
trattava da pari a pari, senza timidezza né orgoglio, senza
complessi di inferiorità né spirito di conquista; si confidava con
loro e ne riceveva le confidenze. Era innamorato della loro grazia e
gentilezza e di quella sensibilità femminile per le cose del cuore,
che rende meno selvatica e ispida e scontrosa la vita di un
adolescente. Con gli amici era affabilissimo: la pratica continua
dell’amicizia rappresentò una parte importante della sua vita.
Quando c’incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa (per alcuni
anni in via Pastrengo 13, poi in via Vico 2), gli si apriva il cuore.
Un amico era sempre il benvenuto, l’ospite inviato dagli dèi: la
mamma o la sorella preparavano una tazza di tè, alla maniera russa,
squisita. Qualche volta gli amici arrivavano a gruppi:
Leone non
si scomponeva, e se non c’era una seggiola per tutti, alcuni si
sedevano sul letto. Ma non
chiudeva la porta in faccia a
nessuno: anzi, alla festosità un po’ rumorosa dell’invasione,
rispondeva con la cordialità più discreta, ma non meno festosa, di
una lieta accoglienza. Quante ore della nostra vita – ore che hanno
contato nel nostro destino, ore incancellabili nella memoria,
intense, piene di propositi futuri e di affetti presenti, godute
minuto per minuto – abbiamo trascorso accanto a quella scrivania
ricoperta da una spessa carta assorbente verde, con gli occhi rivolti
alla libreria di cui mi pare ancora di rivedere ad uno ad uno i dorsi
dei volumi? Quelle quattro pareti sono state la nostra Accademia, la
nostra Stoa, il luogo in cui si è ricevuta l’educazione
formatrice, da cui si esce finalmente più adulti, più nutriti e
saldi: lunghi colloqui a due, a tre, a quattro, che facevano e
disfacevano il mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni
ricevute, pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell’anima,
li mettevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il
fondo. Talora ne uscii vinto, col senso di una sconfitta
irreparabile, del fallimento; ma poi mi davo una ragione, trovavo
sempre una tavola a cui aggrapparmi, e riprendevamo il filo del
discorso interrotto e ricominciavamo insieme la strada. Più spesso
ne uscivo scosso, turbato, col cuore in subbuglio; ma era un
turbamento salutare che aiutava a fare un passo innanzi nel
chiarimento di se stessi e nella comprensione della dura realtà (la
realtà mi parve sempre spessa, densa, inaccessibile, e perciò
inclinavo negli anni dell’adolescenza al solipsismo).
Leone mi
aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi incoraggiò quando
ero sfiduciato;
soprattutto mi diede il conforto di un’indomita
forza accompagnata da una accattivante dolcezza, un
esempio
corroborante di coraggio verso gli eventi e di pazienza verso gli
uomini, di rigidezza nelle idee temperate da una pudica delicatezza
nei sentimenti. Era l’esempio di cui avevo bisogno per non sentirmi
continuamente in balia delle mie inquietudini, inibito dal timore che
avevo del mio prossimo, diviso dal conflitto che in me si combatteva
tra l’attrazione degli ideali superiori e l’urto con la realtà
che sentivo ingrata, ostile, soverchiante. Leone, il grande
mediatore: mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose
che non comprendevo, cui recalcitravo. Mi iniziò al “lungo
viaggio”, che si sarebbe concluso nel “sangue d’Europa”, e
abbiamo terminato, dolorosamente, senza di lui.
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