Francesco Costa
Alternative invisibili
Non riuscire a staccare il cordone ombelicale. Renzi e l’origine della vera debolezza dei suoi avversari
Il Foglio, 30 aprile 2015
Si può solo immaginare, e di sicuro senza riuscirci
davvero, lo sconcerto umano di chi per decenni ha goduto di una rendita
di posizione intoccabile, sia mediatica che politica, difesa con
meccanismi a volte persino settari (i famosi “compagni di scuola”), e
oggi ha trovato qualcuno con più pelo sullo stomaco di lui; di una
classe dirigente che a lungo ha sostenuto la propria insostituibilità in
nome del primato dei “professionisti della politica” e oggi si scopre
perdente ogni giorno, inesorabilmente, a quello stesso gioco di mestiere
e maneggionismo politico che una volta padroneggiava; di chi per anni
ha invitato provocatoriamente i cosiddetti giovani a “prendersi lo
spazio, invece che chiederlo” e ora è confinato in un vicolo politico
angusto e senza sbocco, e che peraltro si va restringendo settimana dopo
settimana. E d’altra parte solo con il disorientamento umano si può
spiegare la concatenazione di ingenuità ed errori politici che la
vecchia guardia del Pd è riuscita a inanellare negli ultimi mesi. Per
restare agli ultimi giorni, è stato un errore decidere di piantare la
grana delle grane non sul Jobs Act, o sulle tasse, o sulla scuola, bensì
sulla legge elettorale: e in realtà nemmeno tanto sulla legge
elettorale bensì sulla decisione di approvarla attraverso la questione
di fiducia, una cosa di cui davvero, ma davvero, non importa un fico
secco a nessuna persona normale (si fa fatica persino a spiegargliela). È
stato un errore di decidere di piantare questa grana delle grane – ma
forse è un istinto, un riflesso pavloviano, e non una decisione, come
insegnano gli anni di Berlusconi – ricorrendo al logoro e abusato topos
del “regime” e della “democrazia in pericolo”. E’ stato un errore
decidere di esporre quotidianamente in tv e sui giornali, invece che
soffocarli e vergognarsene, il livore e il rancore che provano nei
confronti dell’uomo che li ha democraticamente battuti ed estromessi dal
potere, mostrando così che questa sconfitta è stata vissuta non come un
normale passaggio politico, per quanto personalmente sgradevole, bensì
come l’usurpazione di qualcosa che consideravano di loro proprietà.
Sono passate solo poche settimane da quando, con l’aria di chi ne ha
viste tante e la sa lunghissima, Massimo D’Alema davanti ai parlamentari
di minoranza del Pd – un gruppo politico diversissimo e
frastagliatissimo che ha davvero in comune soltanto il desiderio di
liberarsi di Matteo Renzi – invitava a opporsi al governo del proprio
segretario con “intransigenza”, “non lanciando ultimatum ma assestando
colpi, quando necessario, capaci di lasciare un segno”.
Oppositori nel taschino
Il primo di questi colpi sarebbe dovuto arrivare con l’elezione del
presidente della Repubblica, ma Renzi trovò il modo di mettersi
agilmente i suoi oppositori nel taschino. Il secondo di questi colpi
doveva arrivare con la riforma elettorale: non affondandola – non
potrebbero, neanche se volessero – ma ritardandone ancora una volta
l’approvazione definitiva col vecchio mestiere di chi ha trascorso
decenni tra aule parlamentari e commissioni, con una qualche trappoletta
su questo o quell’emendamento, non importa nemmeno quale, ottenendo
così l’ennesimo rinvio della legge al Senato e poi di nuovo riunioni
della direzione nazionale, trattative, minacce, offerte e ultimatum; per
poi votarla, forse, e ricominciare da capo dalla Camera, e intanto
negare a Renzi un importante successo politico. Il presidente del
Consiglio se li è messi di nuovo nel taschino, per giunta con un surplus
di umiliazione: se nel caso di Mattarella la vecchia guardia del Pd
poteva sostenere che era stato Renzi a piegarsi e “fare la cosa giusta”,
sull’Italicum la spregiudicatezza della mossa fa bruciare la sconfitta
ancora di più. Hanno voluto fare gli squali con Renzi e hanno scoperto
che Renzi è più squalo di loro.
Dice: ma allora nel Pd bisogna rassegnarsi a diventare renziani,
finché non passa la nottata? Cosa dovrebbe fare un dirigente politico
che vorrebbe stare nel Pd ma rispettosamente costruire un’alternativa al
suo segretario? Intanto costruirla, quell’alternativa: nessuno
nell’attuale minoranza del Pd ci ha provato a parte forse il solo
Civati, con mille limiti, e finché non ha cominciato a corteggiare
Landini e fare conferenze stampa con Rosy Bindi. Ma poi soprattutto
decidere di staccare il cordone ombelicale e rifiutare di farsi
trascinare da chi, ferito e umiliato, sta combattendo disperatamente per
riscattare l’orgoglio e ottenere un ultimo giro di giostra: sentimenti
umani molto comprensibili ma che hanno poco a che fare con la politica.
Vale per Roberto Speranza, se gli interessa avere un futuro politico
anche fuori dall’ombra protettiva e paterna di Bersani; vale per Civati,
se vuole fare la sinistra del Pd – nel Pd – senza diventare un
simulacro di Fassina. La strada è strettissima: Orfini e i suoi ci
stanno provando con qualche comprensibile fatica, e d’altra parte la
storia di questi mesi dimostra che ci si brucia anche ad avvicinarsi
troppo a Renzi (citofonare Alfano o Berlusconi). Ma non ce n’è un’altra,
a parte quella che porta verso il fondo.
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