Un personaggio poliedrico quanto Ulisse non poteva non generare ombre
e reincarnazioni di ogni tipo, spesso in accanito contrasto l’una con
l’altra. Le caratteristiche negative e positive dell’eroe si alternano,
talvolta nel corpus di uno stesso autore. È il caso di Sofocle, che nel Filottete presenta un Ulisse astuto e crudele ingannatore, mentre nelll’Aiace lo mostra pieno di umana comprensione e persino di pietà. Ritratti contrastanti anche nell’Ecuba, nel Reso e nel Ciclope
di Euripide. Molte le varianti che riguardano le sue attività prima e
dopo la guerra di Troia, durante e dopo il ritorno ad Itaca, persino
alcune riguardanti l’infedeltà di Penelope: da Esiodo ad Apollodoro a
Igino a Partenio ogni sorta di leggende «apocrife» crescono
rigogliosamente attorno a Ulisse.
Almeno due tradizioni differenti si
cristallizzano però su di lui sin dall’antichità. In una, egli appare
come un imbroglione, un mentitore, un camaleonte profittatore, un
oratore illusionista, un consigliere di frodi: tale appare a Virgilio
nell’Eneide, a Ovidio nelle Metamorfosia a Filostrato nell’Eroico, a Stazio nell’Achilleide,
e a una serie di autori posteriori come Ditti Cretese, Benoît de
Sainte-Maure, Guido delle Colonne, Dante (che appunto tra i fraudolenti
colloca Ulisse nell’Inferno). In tutt’altro modo Ulisse viene invece
considerato modello della virtù e della saggezza, vincitore del vizio,
nobile ricercatore della conoscenza, ideale in un certo senso dell’uomo
«classico», e persino paradigma del mistico: così da Cicerone, Orazio,
Seneca, Plotino, Proclo, Porfirio, Fulgenzio, Boezio, Bernardo
Silvestre, Giovanni del Virgilio, e Dante stesso (che lo presenta come
appassionato dell’esperienza del mondo, della conoscenza dei vizi e del
valore dell’uomo, e intrepido navigatore dell’ignoto).
Polibio indica
in Ulisse il modello dello storico. Più di un millennio dopo, Eustazio
lo definisce «filosofo». Quasi nessun pensatore della tarda antichità, e
pochi fra gli stessi padri della Chiesa, sfuggono a una interpretazione
di Ulisse: il personaggio si ritrova presso Stoici, Cinici, Pitagorici,
Neoplatonici e Gnostici; in Eraclito, Plutarco, Numenio, Ermia, Filone
d’Alessandria, Massimo di Tiro, Clemente di Alessandria, Ippolito (gli
ultimi due, sostenitori di Ulisse figura Christi), Ambrogio e
Massimo di Torino. L’imperatore Tiberio – che spesso chiede ai suoi
dotti cosa davvero cantassero le Sirene – ne consacra l’immagine e le
avventure, a testimonianza della leggenda che vuole Ulisse antenato dei
Claudi e dunque di se stesso, e a memoria della sua sapienza di uomo e
politico, in una grotta sul mare presso la propria villa di Sperlonga,
davanti al Monte Circeo. Devoti a Ulisse si mostrano Claudio, Nerone e
Adriano, ma anche, come testimoniano gli affreschi di Pompei e di una
villa sull’Esquilino a Roma, la classe senatoria e l’alta borghesia
romana. Sin da epoca arcaica, pitture vascolari che rappresentano le
vicende di Ulisse sono diffuse in tutta la Grecia, in Asia minore, in
Etruria. Affreschi, sculture, mosaici, gemme e cammei dedicati all’eroe
sono sparsi in tutti i territori dell’impero romano, persino in ambito
ebraico.
Il ricordo di Ulisse non si spegne dunque mai, neppure in
Occidente quando i poemi omerici non sono più letti per ignoranza del
greco, e neppure con il lento decadere della civiltà antica. Un solo
episodio, apparentemente periferico, prova quanto viva sia ancora nel
Medioevo la memoria dell’eroe e a quali metamorfosi egli possa andare
soggetto. Nel XIII secolo compare in Irlanda, in prosa gaelica, il Merugud Uilix Meic Leirtis (Vagabondaggi di Ulisse figlio di Laerte), che presenta una mescolanza affascinante di elementi derivati all’Odissea (quasi
certamente per il tramite di Virgilio e di altri autori latini) e dal
folclore irlandese. Qui, per esempio, dopo l’incontro con il Ciclope,
Ulisse e i suoi compagni non procedono verso Circe e Ade, ma raggiungono
invece il Giudice del Giusto, che sostituisce in qualche modo il
Tiresia omerico. Quando Ulisse gli chiede delucidazioni sul proprio
ritorno, il Giudice gli vende tre consigli al prezzo di trenta once
d’oro ciascuno. I consigli non sono affatto una profezia sul tipo di
quella di Tiresia, né contengono alcuna allusione a un ultimo viaggio di
Ulisse, ma si presentano contemporaneamente enigmatici e pratici: 1.
Trattieni il fiato tre volte e pensa prima di agire; 2. Segui la via
maestra, non le secondarie; 3. Non partire prima di una certa ora del
mattino. Ulisse segue fedelmente tali consigli e torna a casa (non solo,
ma con i suoi uomini). Qui essi trovano un bellissimo giovane seduto
accanto a Penelope. Ulisse decide di vendicarsi della moglie per la sua
infedeltà. Attraverso una galleria sotterranea entra nella camera della
regina di notte. Senza essere visto da Penelope e dal giovane, alza tre
volte la spada per decapitare il ragazzo, ma, memore del primo consiglio
del Giudice, si trattiene due volte. Alla terza, quando è ormai sul
punto di colpire il giovane, Penelope si risveglia da un sogno e chiama
il ragazzo a maic, «figlio mio», dicendogli di aver visto in
sogno il marito pronto a ucciderli. Ulisse capisce il proprio errore e
se ne va, usando di nuovo la galleria. Il giorno dopo ha finalmente
luogo il riconoscimento fra Penelope e Ulisse: questo tuttavia non
avviene tramite il segno segreto del letto costruito sull’ulivo, bensì
tramite un enorme cane multicolore che salta al petto di Ulisse e ne
lecca il viso non appena viene condotto in sala. Il fascino che la trama
dell’Odissea esercita in questa remota terra dell’Occidente
civile è insomma evidente, come anche, però, la traduzione popolare e
comica di scene e temi.
Ulisse e Dante. Se il Merugud
costituisce un episodio marginale, ben altra centralità occupa in tutta
la cultura occidentale la versione che dell’ultimo viaggio di Ulisse
fornisce Dante nel canto XXVI dell’Inferno. Dante non conosce il
testo di Omero, ma forse soltanto versioni della storia di Ulisse fomite
dai mitografi, da Virgilio, da Ovidio, dai loro commentatori, e
probabilmente una serie di allusioni disponibili in autori classici come
Cicerone, Orazio, Seneca, Lucano. Sia come si sia, Dante trasforma
Ulisse da eroe centripeto in eroe centrifugo. Nessun affetto familiare è
tanto forte da spingerlo al ritorno a casa. Invece, dopo un anno di
sosta – quasi di prigionia – presso Circe (che Dante colloca, seguendo
la tradizione latina, «presso a Gaeta»), il suo Ulisse mosso
dall’«ardore / ...a divenir del mondo esperto e de li via umani e del
valore», si getta «per l’alto mare aperto» con la sola nave e i pochi
compagni rimastigli, navigando nel Mediterraneo verso occidente. Giunti
ormai «vecchi e tardi» allo stretto di Gibilterra, «dov’Ercule segnò li
suoi riguardi / acciò che l’uomo più oltre non si metta», i marinai sono
persuasi da Ulisse, con un discorso che fa appello alla loro natura di
uomini creati «per seguir virtute e canoscenza», a oltrepassare le
Colonne per fare «esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente»,
nonostante essi siano ormai giunti all’ultima «vigilia» del vivere. La
nave si volge allora decisamente nell’Oceano in un «folle volo» verso
sud-ovest, in un viaggio che sembra aver luogo soltanto alla luce delle
stelle e della luna, e che dura cinque mesi. All’improvviso, Ulisse e i
suoi uomini scorgono una montagna altissima, «bruna per la distanza»
(nella geografia dantesca, è questo, agli antipodi di Gerusalemme, il
monte del Purgatorio, in cima al quale si trova il Paradiso Terrestre),
la cui vista li riempie di gioia perché essi la credono una «nova
terra». Proprio da lì si leva però un «turbo», un turbine di vento e
tempesta che travolge la nave nei gorghi e la fa affondare, «com’altrui
piacque», «infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».
Storia potente e controversa, la versione dantesca di Ulisse coinvolge il poeta stesso (che fino alla stesura del Convivio aveva
creduto nel raggiungimento di una conoscenza puramente umana nella vita
terrena, e che dunque appare come l’«originale doppio» di Ulisse), la
sua visione del destino dell’uomo e dell’intervento in esso del Dio
cristiano. È infatti fuor di dubbio che, se l’Ulisse dantesco è
condannato all’Inferno per le sue frodi, la sua vicenda rappresenta
un’esaltante avventura della mente umana, tutta protesa alla conoscenza
anche al di là dei limiti ontologici fissati nel passato. Altrettanto
evidente è la filigrana esistenziale dell’episodio, il quale presenta un
uomo che va verso la vecchiaia, l’ultima vigilia dei sensi e la morte, e
che tale morire vuole vivere, dimenticando il suo desiderio di «divenir
del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» per fare
«esperienza» di un mondo disabitato oltre il tramonto del sole.
È
possibile, naturalmente, che Dante abbia voluto rappresentare in questa
storia un estremo atto di inganno e di frode (per esempio nel discorso
con il quale Ulisse convince i suoi ad affrontare il «folle volo»
nell’«alto passo» – che richiama il «passo che non lasciò già mai
persona viva» del peccato, in cui Dante stesso si è ritrovato all’inizio
della Commedia), e abbia inteso condannare la hybris
suprema di chi si affida a strumenti esclusivamente umani: il
personaggio Dante, aiutato dalla grazia e dalla ragione, raggiungerà
invece quell’isola purgatoriale, quel «lito diserto» che, come il poeta
aggiunge con chiara allusione ad Inferno XXVI, «mai non vide
navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto». La vicenda
di Ulisse appare tuttavia piena di tensioni e in ultima analisi
intensamente tragica, anche perché il Dio cristiano (innominato nel
racconto e definito soltanto da un «altrui») interviene direttamente in
essa orchestrando il naufragio di un eroe pagano, condannandolo cioè a
morte prima di dannarlo all’Inferno. Anche gli echi di brani classici,
biblici, patristici e scolastici di cui l’episodio risuona non sono in
grado di risolvere tutti i problemi del racconto, tanto più che la
memoria di Ulisse ossessiona il poeta della Commedia sino al Purgatorio (dove una Sirena riesce, con il suo canto, a stornare Ulisse «del suo cammin vago», XIX, 22-3) e al Paradiso,
presentato nel canto II come una navigazione ulissiaca, ma aiutata
dalla grazia, nell’oceano divino, e dove, sulle soglie dell’Empireo,
Dante si volge ancora a guardare «di là da Gade il varco / folle
d’Ulisse» (XXVII, 82-3). Dante imprime al mito di Ulisse una svolta
decisiva, e forse intravede egli stesso nella storia di Ulisse il
tramonto di un’epoca e l’inizio di un’altra, il conflitto fra il mondo
integralmente cristiano e un tempo nuovo die sfida l’antico. Certo è che
da ora in poi il mito di Ulisse non sarà più lo stesso e che
l’originale omerico sarà costantemente affiancato, quando non modificato
o scartato, dal modello dantesco. Gli stessi primi interpreti di Dante,
dai suoi figli sino a Benvenuto da Imola e Boccaccio, appaiono turbati
dal canto XXVI dell’Inferno, dando inizio a una querelle
che dura tuttora. Divisi sulla valenza negativa o positiva della
vicenda, essi la sentono (e così faranno tutti gli esegeti per
settecento anni) come qualcosa che li tocca da vicino, che colpisce al
cuore i nodi della loro stessa civiltà. Così Petrarca, che pure si
presenta come un Ulisse nelle Familiares, condanna però l’eroe dantesco nei Trionfi, mentre con l’inizio del Rinascimento comincia a dominare una valutazione positiva. Nel Morgante, ad esempio, Luigi Pula fa lodare Ulisse, «che per veder nell’altro mondo gisse», dal demone Astaroth.
Il
fatto è che dal tardo Quattrocento in poi l’Ulisse dantesco viene letto
da interpreti e scrittori come ombra, prefigurazione poetica del
navigatore e dello scopritore che ora fanno la storia: la «nova terra»
di Inferno XXVI diventa il Nuovo Mondo. Tale interpretazione è esplicita nel commento alla Commedia di Bernardino Daniello come anche nella Storia di Pero Antón Beuter e nelle cronache del navigatore Pedro Sarmiento de Gamboa, indiretta e intertestuale nel canto XV della Gerusalemme Liberata
del Tasso – dove Ulisse è presentato come predecessore sfortunato di
Cristoforo Colombo –, implicita ma pregnante nelle lettere di Amerigo
Vespucci, che ama vedere se stesso come colui che ripercorre con
successo le orme dell’Ulisse dantesco.
Navigatore, scopritore, viaggiatore: Ulisse dopo il Rinascimento.
La lettura rinascimentale di Ulisse lascerà un’impronta duratura nella
civiltà occidentale: ad essa si richiameranno non solo scrittori
italiani come Parini, Leopardi, Graf, Pascoli, D’Annunzio e Gozzano, ma
anche, talvolta in maniera indiretta, grandi autori di altri paesi come
Camoões, Tennyson, Melville, Baudelaire, Verne (il Capitano Nemo di Ventimila leghe sotto i mari e de L’isola misteriosa
è, sin dal nome di «Nessuno», un chiaro discendente di Ulisse),
Whitman, Pound, T.S. Eliot, Kazantzakis. Filtrata attraverso l’opera di
costoro (e in particolare di Tennyson), l’immagine di Ulisse come
scopritore di nuovi mondi viene usata ancora, all’inizio del XX secolo,
per la spedizione di Roald Amundsen attraverso il Passaggio a Nordovest e
per quella antartica di Ernest Shackleton. Nell’ultimo quarto di questo
stesso secolo, l’Ulisse dantesco (assieme a quello omerico) ritorna
come archetipo del viaggiatore, ora attraverso il cosmo interstellare,
in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e Arthur Clarke, ma anche, proprio ai nostri giorni, nella lettura televisiva di Inferno
XXVI compiuta dal Poeta Laureato americano Robert Pinsky in occasione
del ritorno allo spazio del vecchio astronauta John Glenn.
Allo
stesso tempo, dopo il Rinascimento la figura dell’Ulisse dantesco dilaga
nell’immaginario europeo e americano attraverso la contaminazione e la
concrezione: essa si sovrappone e si mescola, per esempio, ai nuovi miti
romantici del Vecchio Marinaio di Coleridge, dell’Ebreo Errante,
dell’Olandese Volante di Wagner, del Gordon Pym di Poe, del Capitano
Achab di Melville, in un viaggio che non termina mai nello spazio e nel
tempo se non nel gorgo del nulla (Leopardi in Angelo Mai, Baudelaire in Le Voyage, Rimbaud in Le bateau ivre, Pascoli ne L’ultimo viaggio di Odisseo), oppure nell’ombra del superuomo: come tale Ulisse compare tra le righe di Nietzsche in Così parlò Zarathustra (e tale in effetti è in Maia di D’Annunzio), preannunciando la nascita dell’uomo «nuovo» di 2001: Odissea nello spazio.
Tanto intensa e persino esagerata è questa configurazione mitica che
diversi autori del Novecento si adoperano a ridurre la portata di Ulisse
tramite l’ironia, alle volte feroce: così per esempio Guido Gozzano in L’ipotesi, Alberto Savinio in Capitano Ulisse, Paul Valéry nei Cahiers.
Con il Rinascimento, tuttavia, torna in circolazione, nell’originale e in traduzione, anche l’Odissea
omerica. Le versioni, in tutte le lingue europee, sono moltissime, e
danno luogo a infinite riscritture, variazioni e rielaborazioni nella
letteratura, nelle arti figurative, nell’opera lirica.
Nell’impossibilità di elencarle in questa sede, si citeranno soltanto
alcuni esempi significativi. In letteratura, si va dal Troilo e Cressida di Shakespeare – dove Ulisse appare, pronunciando un grande discorso sulla gerarchia, quale supremo politico – fino a La guerre de Troie n’aura pas lieu ed Elpénor di Jean Giraudoux; da Du Bellay a Goethe, da Jorge Luis Borges a Wallace Stevens; dall’Ulissipo del portoghese Antonio de Sousa Macedo (1640) alla Naissance de l’Odyssée di Jean Giono (1930).
Nelle
arti figurative, i nomi comprendono tanti fra i maggiori, da Luca
Signorelli a Guerdno, Rubens, Fuseli, Tumer, de Chirico, Chagall, Manzù.
Una scultura di Ugo Attardi, Ulisse in folle volo ma in assetto di
guerra quasi fosse un Conquistador, è stata collocata nel Battery Park
di New York negli anni Novanta. Per l’opera sarà sufficiente menzionare II ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, l’Ulisse di Luigi Dallapiccola, l’Outis di Luciano Berio.
In
ognuna di queste mille versioni, il personaggio di Ulisse e la trama
del poema omerico e/o dell’episodio dantesco vengono naturalmente
disegnati dalla provenienza linguistico-culturale dell’autore (l’Ulisse
dei greci Seferis e Kavafis è ovviamente più «classico» di quello arabo
di Adonis e di quello indiano di Anita Desai), dal suo pensiero (Bergson
ispira l’Odissea di Kazantzakis), dalla sua fede (Luigi
Dallapiccola, per esempio, fa infine imbarcare l’eroe in un ultimo
viaggio durante il quale egli «scopre» il Dio cristiano), dall’intreccio
delle fonti (lo Ulysses di Tennyson, che esercita enorme influenza sulle immagini successive dell’eroe, non combina soltanto in ideale sequenza Odissea XI e Inferno XXVI, ma anche l’Amleto di Shakespeare e il Satana del Paradiso perduto miltoniano), dalle pressioni dell’ideologia (nel medesimo Ulysses
tennysoniano è evidente quella vittoriana) e da quella della storia (in
ambito inglese Ulisse viene presentato come antenato nobile del
conquistatore coloniale), dalla passione per l’esotismo (in pittura, le
scene di Polifemo, di Circe, delle Sirene danno adito ad arabeschi
paesaggisti, costumi e nudi di ogni sorta).
Il secolo XX che,
nonostante le sue conclamate rotture con il passato, ha mostrato un
singolare attaccamento al mito classico, fa di Ulisse il prototipo
dell’uomo moderno. Seguendo i romantici, ma con adesione ben più densa
ai testi originali, Joseph Conrad vede Pulisse di Omero e di Dante, in The Mirror of the Sea, come ombra di se stesso in quanto uomo di mare e scrittore. Ezra Pound apre i suoi Cantos traducendo il brano iniziale di Odissea XI, il viaggio verso l’Ade. T.S. Eliot dedica, nella prima versione di The Waste Land, un’intera sezione (la quarta, Morte per acqua),
all’avventura di un marinaio che è, come mostrano le citazioni
implicite ed esplicite da Tennyson, Conrad, Poe, Coleridge e Dante, il
discendente di Ulisse. Franz Kafka scrive una famosa parabola sul Silenzio delle sirene,
emblema della vittoria della tecnica (di Ulisse) sul canto e la poesia,
ma anche simbolo della fine di ogni speranza e di ogni discorso logico.
Ulisse e Joyce. La versione più influente del mito di Ulisse nel Novecento è tuttavia quella di James Joyce nel suo Ulysses,
il racconto – compiuto in cento stili diversi e dominato dal «flusso
della coscienza» – della giornata passata, il 16 giugno 1904, dall’ebreo
irlandese Leopold Bloom nei suoi vagabondaggi per la città di Dublino.
Se non fosse per il titolo del libro e per le lettere con le quali Joyce
illustra ai suoi amici Linati e Gilbert lo schema del romanzo, con
tanto di titoli omerici per ogni sezione, sarebbe probabilmente
difficile, se non impossibile, indovinarne l’ascendente nell’Odissea.
Una volta dichiarata dall’autore, però, la corrispondenza diviene
impressionante: gli episodi, divisi in tre sezioni, seguono la trama
omerica, dalla Telemachia all’Odissea vera e propria al nostos;
se Bloom è la controfigura di Ulisse, l’infedele sua moglie Molly è la
traduzione moderna di Penelope, e il giovane intellettuale Stephen
Dedalus rappresenta Telemaco. Joyce compie in realtà una grandissima
trasposizione del mito in chiave di vita ordinaria e contemporanea: per
esempio, l’episodio di Ade viene «tradotto» in un funerale cui Bloom
partecipa; quello di Circe ha luogo in un bordello; il ritorno a casa è
tale letteralmente, Bloom rientrando nel pieno della notte al numero 7
di Eccles Street dal quale è partito la mattina.
Epica di un Ognuno e
di un Nessuno, odissea nel mondo degradato della realtà, dei pensieri,
dei sentimenti di ogni giorno (e di ogni minuto), Ulysses è anche
un’immensa parodia (ad esempio della Messa, con la presa in giro del
cui inizio esso si apre), un funambolico esercizio di linguaggio, una
enciclopedia totalizzante del sapere alto e basso del periodo (come la Commedia
dantesca lo è di quello medievale). L’Ulisse di questo «romanzo» è di
nuovo centripeto, come quello omerico: Bloom toma, appunto, a casa e al
letto coniugale, sebbene in quest’ultimo sia chiaramente visibile
l’impronta lasciata dal corpo dell’amante della moglie. Molly, cui egli
si ricongiunge, diviene anzi qualcosa di più della Penelope omerica, una
Gea-Tellus, una figura di Grande Madre e dell’Eterno Femminino, una
Beatrice terrena e carnale, l’incarnazione del Sì all’universo e alla
vita: con il suo ripetuto Yes termina infatti il lungo flusso della sua coscienza nell’ultima sezione del libro, e si chiude pertanto l’opera.
Non è assente da Ulysses,
naturalmente, il ricordo dantesco. L’ultimo viaggio viene presentato,
con la sovrapposizione su di esso dell’Esodo biblico, nella penultima
sezione del romanzo (Itaca) come un sogno dell’Ulisse odierno,
Leopold Bloom. Il quale, per sfuggire agli orrori dell’invecchiamento,
immagina di partire da Dublino per visitare tutta l’Irlanda, quindi
alcune fra le località più significative della Terra (tra le quali
Atene, Gerusalemme, New York e lo Stretto di Gibilterra), i luoghi che
evocano la morte (il Tibet, «dal quale», come egli pensa citando l’Amleto
di Shakespeare, «nessun viaggiatore ritoma»; Napoli, «veder la quale è
morire»; il Mar Morto), e poi il cosmo intero, «passando di terra in
terra» come il Vecchio Marinaio di Coleridge, ma «tra i popoli, in mezzo
agli eventi», ascendendo alle costellazioni celesti, e infine, quasi
cometa lungo la sua orbita, ritornando a casa, «scuro crociato»,
«vendicatore estraniato» come Ulisse e il Conte di Montecristo. Tale
viaggio, tuttavia, non si compie nella realtà, in cui l’erranza di Bloom
termina in tutta tranquillità nella propria casa, e l’odissea finisce
con le sensazioni e i pensieri di Molly, la quale rievoca, nell’ultima
pagina del libro, la propria giovinezza e il suo primo amplesso con un
uomo a Gibilterra, e simultaneamente l’unione con Leopold sul
promontorio di Howth Head che chiude a nord la Baia di Dublino. Alle
Colonne d’Èrcole si ferma dunque, prudentemente e saggiamente, con un
messaggio di salvezza minimo ma sicuro (il ritorno appunto alla moglie e
l’accettazione del mondo), il viaggio dell’Ulisse del XX secolo.
Itinerari di Ulisse nel Novecento. L’Ulisse
di Joyce costituisce il terzo grande paradigma odissiaco dopo quelli di
Omero e di Dante, ma con esso non termina affatto il cammino di Ulisse
nella cultura del pianeta. Il pensiero del XX secolo lo adotta così come
avevano fatto la Stoà, il Neoplatonismo e la Patristica, in maniera
particolare in ambito ebraico e centro-europeo. Per Ernst Bloch,
concentrato sul personaggio dantesco, Ulisse è un gotico Faust del mare,
un antenato di Cristoforo Colombo. Max Horkheimer e Theodor W. Adomo
vedono in lui la dialettica dell’Illuminismo, la ragione della
borghesia. Per Elias Canetti Ulisse è l’eroe della metamorfosi e
dell’insopprimibile curiosità. Walter Benjamin toma a Ulisse leggendo
Kafka, come fanno anche Bertolt Brecht e Maurice Blanchot. Emmanuel
Lévinas giunge al punto di affermare che l’intero itinerario della
filosofia, della metafisica e della teologia dell’occidente «resta
quello di Ulisse, la cui avventura nel mondo non è stata che un ritorno
alla sua isola natale – une complaisance dans le Même, une méconnaissance de l’Autre». Al mito del perenne nostos di Ulisse Lévinas contrappone, come simbolo del pensiero «nomadico» che muove dal Même all’Autre,
«la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra
ancora sconosciuta». Se si delinea qui un insanabile conflitto tra Atene
e Gerusalemme, Jacques Derrida, commentando Lévinas in La scrittura e la differenza, usa proprio Joyce e la sua definizione di Ulisse, richiamando l’attenzione sulla copula, l’è che
ne congiunge le due parti: «Jewgreek is greekjew. Extremes meet»
(Giudeogreco è grecogiudeo. Gli estremi si incontrano). Forse in quel
piccolo, banale, ironico è joydano si può intravedere un barlume
di salvezza. Ma Ulisse entra nella storia stessa del nostro secolo
tormentato, così come nella storia («tra i popoli, in mezzo agli
eventi», giusta Joyce) sempre era emerso a tutti gli snodi cruciali,
all’epoca dell’impero romano, nel passaggio tra antichità e Medioevo,
tra fine del Medioevo stesso e Rinascimento: egli viene evocato nel
lager, durante l’Olocausto. Benjamin Fondane, rumeno emigrato in Francia
e divenuto discepolo di Lev Šestov, canta un dolente Ulisse
esistenziale ed ebreo, e fonda una «poetica di Ulisse»: muore ad
Auschwitz. Sempre ad Auschwitz, Primo Levi ricorda l’Ulisse di Dante in
uno degli episodi più intensi e terribili di Se questo è un uomo (e ad esso ritorna nell’ultimo libro, I sommersi e i salvati). Paul Celan considera Ulisse la propria «scimmia», ma nel suo tremendo Salmo Ulisse è Nessuno, e Nessuno è il Dio dei campi di sterminio.
Come
nell’Inferno dantesco, Ulisse è, nel momento più critico della nostra
storia, fiamma–fuoco di crematorio – che mette in questione l’Altro
supremo. È simbolo di conflitto: fra l’Occidente e il resto del mondo,
come in Africa, nei Caraibi, nei paesi arabi; entro l’Europa medesima.
Se il personaggio dilaga oggi nella televisione e nel cinema, che ne
presentano innumerevoli versioni, bisognerà ricordare tra le riscritture
più creative il film di Theo Anghelopoulos e Tonino Guerra, Le regard d’Ulysse,
che racconta un ritorno ai Balcani insanguinati dei nostri giorni alla
ricerca di un’antica pellicola cinematografica. Nella stessa Irlanda, e
certamente stimolati dall’esempio di Joyce oltre che dall’intera
tradizione, poeti importanti come Louis MacNeice, Padraic Fallon, Thomas
Kinsella, Michael Longley, Eiléan Ni Chuilleanàin, cantano il nostro
eroe, spesso proprio come icona del conflitto fra cattolici e
protestanti. Nella letteratura Ulisse è ormai simbolo universale e nello
stesso tempo dell’Occidente e del sincretismo conflittuale che esso
determina, ubiquito: in Francia (René Char), in Inghilterra (Thom Gunn),
in Germania (Walter Jens), in Grecia (Kavafis, Seferis, Kazantzakis,
Elitis), in Portogallo (Pessoa), in Italia (Saba, Ungaretti, Quasimodo,
Pavese), in Russia (Iosif Brodskij è il nome più noto), negli Stati
Uniti (Robert Lowell e molti altri), in Canada, in Australia, in America
Latina. Il poeta brasiliano Haroldo de Campos, per esempio, pubblica
nel 1990 un importante poemetto intriso di Omero, Dante e Joyce
intitolato Finismundo: A Última Viagem, che termina con una navigazione sullo schermo di un computer.
Nei
paesi arabi il siriano Adonis, il libanese Khalil Hawi, il palestinese
Khàlid Abu Khàlid dedicano a Ulisse diverse liriche significative, dense
di personale lirismo e di immagini del conflitto con l’Occidente.
L’Africa, dove il Nobel nigeriano Wole Soyinka considera Ulisse uno dei
suoi archetipi, non è da meno. Nel romanzo dell’angloindiana Anita
Desai, Joumey to Itbaca, l’Ulisse che emerge, ispirato da
Kavafis, è una singolare concrezione di europeo, arabo e indiano. Nei
Caraibi infine, quel luogo dalle mille isole che spontaneamente richiama
l’Egeo, Ulisse conosce oggi un vero trionfo. Lo celebrano lì gli
scrittori più significativi, prestandogli il volto meticcio e lo sguardo
ammirato e critico di ex-schiavi finalmente liberi: Edward Brathwaite
in The Arrivants, Wilson Harris in Etemity to Seasott, David Dabydeen in Coolie Odyssey, il Nobel Derek Walcott in ima serie di splendidi lavori.
Forse proprio con l’Ulisse di Walcott giova concludere la presente rassegna. The Sea is History,
«il mare è Storia», egli canta nel 1979, e percorrendo i libri della
Bibbia, dall’Antico al Nuovo Testamento, ricostruisce la vicenda degli
Afro-Americani: deportazione, schiavitù, emancipazione. Il mare è
storia, è sangue e oppressione. Più tardi, però, Walcott pubblica il
lungo poema Omeros (1990). E Omeros, fondendo l’esametro e
la terza rima, riecheggiando Joyce, Montale, Hemingway e la Bibbia,
canta di un semplice pescatore, il «pacifico Achille, figlio di
Afolabe», che commette un’unica strage, di pesci; e canta «i solchi
della sua schiena al sole», e Ettore e Elena, e il Mar dei Caraibi, che
«continua ancora».
Sia prima che dopo Omeros, tuttavia, il poeta scavalca l’Iliade
e individua in Ulisse l’ombra più appropriata dell’Ognuno caraibico.
Nel 1992 egli mette in scena a Stratford un magnifico dramma intitolato The Odyssey,
nel quale il poema omerico è ripreso in chiave caraibica e narrato da
Billy Blue, un marinaio che canta blues e nello stesso tempo reincarna
Femio e Demodoco.
«Quella vela che poggia sulla luce, / stanca
d’isole, / una goletta che batte i Caraibi // verso casa», Walcott
scriveva invece nel 1976 in Sea Grapes, «potrebbe essere Odisseo,
/ diretto in patria sull’Egeo». Tuttavia, non si tratta qui di trovare
un modello, di ricalcare semplicemente le orme della tradizione.
Chiunque provenga direttamente o indirettamente dalla cultura
occidentale e veda una vela, un uomo solo sull’orizzonte marino – ha
sostenuto lo scrittore – penserebbe a Ulisse, perché tale è divenuto
Ulisse per tutti noi: un segno, un’immagine condizionata, un riflesso
dei nostri stessi occhi. Ma questo non basta. Quella vela potrebbe essere Odisseo: quella nostalgia di padre e di marito, «sotto contorte viti amare», è come
l’adultero che sente il nome di Nausicaa nel grido d’ogni gabbiano. Ma
questo non dà la pace a nessuno. «L’antica guerra / fra ossessione e
responsabilità / non terminerà mai ed è stata la stessa // per chi
errava sul mare e chi a riva / scuote ora i suoi sandali per andare a
casa, / da quando Troia esalò l’ultima sua fiamma, Il e il masso
del gigante cieco colpì il flutto / dal cui rigonfiarsi vengono i grandi
esametri / a concludersi nel frangente esaurito a riva. / I classici possono consolare. Ma non abbastanza».
I
classici possono consolare, ma non abbastanza. Non si deve dunque
dimenticare la storia, con i suoi dolori, i suoi incerti passi. Prima
dell’Odissea c’è sempre una Guerra di Troia, e colui che ritorna
ad Itaca è quello stesso che ha ridotto Ilio in cenere e tizzi, il primo
Europeo a distruggere l’altro e tradurne schiavi a occidente. Viene,
però, il momento in cui la poesia – che, dice Aristotele, è più seria e
filosofica della storia – coglie l’attimo primevo, il proprio stesso
inizio e il principio del mondo. Nella Bibbia, è il fiat della
Creazione. Nella cultura che dai Greci, attraverso mille metamorfosi,
discende fino a noi, è un altro istante di creazione. Derek Walcott lo
ha colto in maniera perfetta nella sua Mappa del Nuovo Mondo
(1981), dando così compimento a Omero, a Dante, a Joyce, e ai mille
cantori di Ulisse per mezzo di un nuovo inizio, in un altro, nuovo
mondo: «Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia. / All’orlo
della pioggia, una vela. // Lenta la vela perderà di vista le isole; /
in una foschia se ne andrà la fede nei porti / di un’intera razza. // La
guerra dei dieci anni è finita. / La chioma di Elena, una nuvola
grigia. / Troia, un bianco accumulo di cenere / vicino al gocciolar del
mare. // Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa. / Un uomo con
occhi annuvolati raccoglie la pioggia / e pizzica il primo verso dell’Odissea».
Utet letteratura
Nessun commento:
Posta un commento