Anais Ginori
Dopo la sconfitta alle regionali parla il sociologo Alain Touraine
“Senza orizzonti né classi sociali la gauche muore”
la Repubblica, 1 aprile 2015
PARIGI «La sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è
eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi
novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non
lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a
pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia,
fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il
sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito
socialista al potere.
«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca
post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un
secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di
riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza.
Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».
Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a
riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è
crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine
dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione
faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali
dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte
perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante
tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata
una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque
della nazione in un mondo globale».
Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione degli estremi, sia a sinistra che a destra.
Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front
National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del
popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni
che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta
concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la
ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose
grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei
notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha
proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40
miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di
lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente
aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più
garantiti».
La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È
un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come
nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha
una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora?
Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano
per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore.
Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo
della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un
problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo
per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con
valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo
Dna».
Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in
deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare:
competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di
risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei
attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far
ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un
progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione
del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i
salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato
dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In
Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della
crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi
strategie perdenti».
Quindi ci troviamo in un’impasse?
«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di rilanciare
l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci
sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con
investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al padronato, che
ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non
può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La
spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record
mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un
minimo di realismo».
Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il
discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va
tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma
continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese
medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è
davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa
soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del
partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già
cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un
governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls
devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora
serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel
2017».
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