Annalena Benini
Lettere rubate, il Foglio, 4 aprile 2015
Colette, “La stella del vespro”
Del Vecchio editore
Era il 1946, Colette aveva settantatré anni e non usciva più di casa. Ferma nel suo letto-scrivania, truccata, con le unghie laccate, un tailleur e un foulard blu, sorrideva, riceveva persone in visita e scriveva racconti a puntate per i primi numeri di Elle: il sottotitolo era Souvenirs. Ricordava ciò che era stato, quanto aveva vissuto e il divertimento infinito di non invecchiare nonostante l’età. “Sono una graziosa ragazzina di ottant’anni… nessun miglioramento dell’artrite alle gambe. Ma l’acutezza del dolore è qualcosa di straordinario”. Non si lamentava, aspettava che il suo terzo marito, Maurice, “il mio migliore amico”, le portasse le notizie da fuori, le ordinasse i libri, le chiedesse come stava. Rispondeva sempre: benissimo. Chiamava il suo traduttore italiano, Angelo Molica Franco, che ha curato e tradotto questo volume, “mon ami”, e gli disse in una telefonata, infilata poi alla fine del libro, che era d’accordo con la distinzione di Alberto Arbasino sulla carriera degli scrittori: “Brillante promessa, solito stronzo e venerato maestro” e aggiunse che detestava la parola “intellettuali”: “Talmente concentrati sulla propria lettura delle cose da non riuscire a cogliere il vero scopo della letteratura, il vero e unico scopo di un animo che scrive, cambiare il mondo. Ma non nel senso di rendere il mondo un posto migliore, il mondo è quello che è. Ma nel senso di cambiare le regole del gioco dell’esistenza”. Colette ha cambiato le regole del gioco dell’esistenza non solo con i romanzi, anche con la sua stessa vita: si scopriva il seno sul palcoscenico nel 1908 senza farne una questione politica, senza definirsi coraggiosa o spiegare il senso di una ribellione. Ha fatto il mimo, l’attrice, la modella, la sceneggiatrice, la giornalista, l’imprenditrice, ha scoperto Audrey Hepburn guardandola scendere le scale. “Non ho niente della pioniera”: visse come le piaceva vivere, semplicemente. Anche quando ebbe un figlio a quarant’anni e descrisse, in questi Souvenirs, la beatitudine che provava e che cercava di nascondere per fingere di avere “una gravidanza da uomo”. Finché un amico le disse: “Devi essere più felice di così. Mettiti il cappello e vieni a prendere un gelato alla fragola”.
Insidiosamente, senza fretta, quella beatitudine la invadeva. Euforia, soddisfazione, un senso di protezione, di banale magnificenza. “Verso la fine, avevo tutta l’aria di un ratto che si trascina dietro un uovo rubato”. Colette ha riso di tutto, soprattutto di sé, e ha accettato di diventare vecchia, senza esserlo. “Una delle grandi banalità dell’esistenza, l’amore, si ritira dalla mia vita. Quando ne siamo usciti, ci accorgiamo che tutto il resto è allegro, variegato e ricco. Ma non se ne esce quando né come si vuole”. Uscendone a testa alta, come Colette, che ha lottato contro tutti i suoi mali, si trova tutto il resto. I bambini che andavano a trovarla, gli amici, i libri, i fogli, i ricordi di quando era il corpo a trionfare e tutto era possibile, tutto era primavera. Nella profonda leggerezza di Colette, resa più intensa e dolce dall’età, c’è una conquista fondamentale: niente è mai davvero grave. Nemmeno il crepuscolo, nemmeno il contrasto tra la giovinezza interiore e ciò che la vita fa agli anni. Quando era giovane e prendeva in mano ago e filo sua madre scuoteva la testa e diceva: “Avrai sempre l’aria di un maschio che cuce”. Adesso, nell’immobilità di quel letto, aveva semplicemente l’aria di Colette. Che alla domanda: quando invecchia una vita? rispondeva con la sua vita: mai.
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Giuseppe Scaraffia
Capote tra fiocchi di neve
Il Sole 24ore, 29 marzo 2015
Sotto i portici del Palais-Royal, Truman Capote
andava su e giù, controllando nervosamente l'orologio. Aveva ventitrè
anni, ma, come diceva Jean Cocteau, che gli aveva procurato
quell'incontro con la leggendaria Colette, "sembra un angelo di dieci
anni, ma è senza età e ha un'anima maliziosa".
Quando
finalmente era scoccata l'ora, era entrato nell'appartamento della
scrittrice e ne era rimasto folgorato. Tutto era esattamente come se
l'era immaginato: i folti capelli crespi di Colette, gli occhi da "gatto
delle periferie", il viso mobilissimo, le guance arrossate dal trucco e
le labbra sottili rese scarlatte da un rossetto da prostituta.
Intimidito,
il giovanotto non osava alzare gli occhi su quella divinità allungata
su una cascata di cuscini con un gatto grigio ai suoi piedi. Ma aveva
fatto in tempo a vedere le tende di velluto che schermavano la luce di
quel giugno del 1947 e a sentire il profumo, "un misto di rosa, arancio,
tiglio e muschio, che fluttuava tra le pareti tappezzate di seta.
Gli occhi del visitatore si soffermarono su "una visione magica", un'immensa collezione di antichi fermacarte di cristallo.
Quei
"sulfures", gli spiegò la padrona di casa, erano il risultato di un
collezione iniziata quarantanni prima. imprigionati nelle sfere di
cristallo lucertole, salamandre, fiori e farfalle erano schierati su due
tavoli. I più rari di quelli che la scrittrice chiamava affettuosamente
i suoi "fiocchi di neve" erano stati fabbricati tra il 1840 e il 1860".
Quel
che Capote non poteva sapere era che in quegli anni Colette stava
raccogliendo altri "fiocchi di neve" salvandoli dall'oblio nel cristallo
della memoria. Era il pulviscolo di ricordi che si presentavano alla
scrittrice immobilizzata dall'artrite, una messe tardiva e generosa
raccolta in "La stella del vespro", egregiamente curato e plasticamente
tradotto da Angelo Molica Franco.
Colette
covava quelle scintille del passato in una serena solitudine,
interrotta dalle visite premurose del suo terzo ed ultimo marito,
Maurice, di sedici anni più giovane di lei. Chi pensava che, inchiodata
sul letto, si stesse annoiando si sbagliava di grosso." Siamo plasmati
dalla malattia, dobbiamo accettarlo. ma è ancora meglio plasmare la
malattia a nostro uso e a nostro vantaggio". Quel giaciglio era
diventato un tappeto volante con cui esplorava il passato.
Non
poteva fare a meno di sorridere ricordando la sua breve stagione
teatrale. Interrogava le vecchie foto, in particolare quella in cui un
attore dall'aria feroce stava per pugnalare il suo "bel seno" nudo che
aveva tanto fatto scandalo.Non rimpiangeva troppo la sua agitata
giovinezza. "Una delle grandi banalità dell’esistenza, l’amore, si
ritira dalla mia vita. Quando ne siamo usciti, ci accorgiamo che tutto
il resto è allegro, variegato e ricco. Ma non se ne esce quando né come
si vuole."
Non le
dava fastidio essere interrotta da chi veniva a trovarla. Accoglieva con
la stessa curiosità le celebrità cerimoniose e il piccolo vicino di tre
anni che, non riuscendo a suonare il campanello, si annunciava
prendendo a calci la porta. Non temeva più la solitudine."C'è un gran
silenzio intorno a me. quando sono sola, la casa si riposa. Si stira e
fa scrocchiare le vecchie giunture... Invita il vento da fuori, perchè
si prenda cura dei miei fogli che partono a volo d'uccello dall'altro
capo della stanza."
Colette
spiava dalla finestra lo scorrere delle stagioni nel giardino del
Palais-Royal. La mattina presto osservava l'inserviente pulire le gabbie
degli uccelli e rifornirli di becchime per poi sostare in un breve
raccoglimento."Quando certi istanti di una giornata si fanno troppo
belli, l'essere umano interrompe il lavoro o il gioco, venera ciò che
intorno tace o canta."
Prima
di congedarlo, l'anziana scrittrice offrì al giovane Truman un
magnifico fermacarte sfaccettato con una rosa bianca. "Voglio che lei lo
tenga per ricordo". Quando l'ospite perplesso le obiettò che non poteva
accettare qualcosa cui lei teneva tanto, gli rispose: "Ragazzo mio, non
ha senso offrire una cosa se non si è legati ad essa".
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