La tragedia degli armeni. Un gruppo di donne indomabili e il loro amore per la vita
In questo suo primo romanzo, Antonia Arslan attinge alle memorie familiari per raccontare la tragedia di un popolo “mite e fantasticante”, gli armeni, e la struggente nostalgia per una patria e una felicità perdute. Yerwant ha lasciato, appena tredicenne, la casa paterna per studiare nel collegio armeno di Venezia. Ora, dopo quasi quarant’anni, sta ultimando i preparativi per il viaggio che lo ricondurrà alla Masseria delle Allodole, tra le colline dell’Anatolia, dove potrà finalmente riabbracciare i suoi cari. La notizia si diffonde nella cittadina natale, inebriata dai gelsomini in fiore e dai dolci preparati per la Pasqua, un’euforica frenesia che pervade lo scorrere quieto dei giorni. Giorni intessuti delle pigre partite a tric-trac nella farmacia del fratello Sempad, giorni colorati dai sogni d’amore delle sorelle, Azniv e Veron, e dalla festosa confusione dei bambini, su cui vigila la mamma Shushanig. Si sta organizzando la festa di benvenuto e tutti, parenti e amici, sono invitati a prendervi parte. La Masseria è rimessa a nuovo, per completare l’opera è stato perfino ordinato da Vienna un pianoforte a mezza coda. Ma siamo nel maggio del 1915. L’Italia è entrata in guerra e ha chiuso le frontiere mentre il partito dei Giovani Turchi insegue il mito di una Grande Turchia, in cui non c’è posto per le minoranze. Yerwant non verrà, e non ci sarà nessuna festa. Al suo posto, solo orrore e morte. È qui che comincia, per le donne armene della città, un’odissea segnata da marce forzate e campi di prigionia, fame e sete, umiliazioni e crudeltà. Nel loro cammino verso il nulla, madri figlie e sorelle si aggrappano disperatamente all’esistenza e tengono accesa la fiamma della speranza. Sarà grazie alla loro tenacia, al loro sacrificio e all’aiuto disinteressato di chi rifiuta di farsi complice della violenza che tre bambine e un “maschietto-vestito-da-donna”, dopo una serie di rocambolesche avventure, riusciranno a salvarsi e a raggiungere Yerwant in Italia. E sarà lui a garantire per loro un futuro e a custodire le “memorie oscure” che oggi la nipote Antonia ha trasfuso in un romanzo dolce e straziante come una fiaba.
Antonia Arslan, laureata in archeologia, è stata professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’università di Padova. È autrice di saggi pionieristici sulla narrativa popolare e d’appendice (Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento, nuova edizione Unicopli 1986) e sulla “galassia sommersa” delle scrittrici italiane (Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ‘800 e ‘900, Guerini 1998).
La deportazione
Nella grande piana ai piedi dei primi contrafforti del Tauro, confluiscono stremati i resti delle carovane. Di quanti, di quante biancheggiano ormai le ossa sui sentieri, quanti gonfi cadaveri sono trasportati dall'Eufrate; quanti bambini, quante ragazze sono scomparsi. Il gruppetto dei superstiti della piccola città si attenda penosamente sotto due alberi scarni, mentre un falco alto gira nel cielo limpidissimo. È luglio, chissà. Nessuno tiene più il conto dei giorni.
Dove sono i castelli di Cilicia, dove il regno crociato dei Lusignano? Nella nebbia, nel calore accecante, fra i resti miserabili di quel popolo orgoglioso si aggirano i fantasmi degli arcieri invincibili bagratidi, dei cavalieri con l'orifiamma al vento. E un delicato vento di morte soffia sulle guance accaldate, sui volti riarsi, portando frescura, abbandonata inerzia, consolazione: e Shushanig vede le belle forti angele guerriere che vengono a prenderla, insieme a Sempad a cavallo, bello come quando andava a caccia con l'amico nel paese dei Lazi.
Epilogo
E così, paziente lettore, siamo giunti al termine di questo viaggio, e di questo racconto. Le figlie di Sempad sopravvissero, e così Nubar, come era stato predetto. Per un anno Zareh li tenne nascosti nella cantina della sua casa, e non li avrebbe potuti nutrire senza il premuroso aiuto di Marie-Joséphine e del tesoretto di Ismene, e la volontà concorde di aiutare gli armeni del popolo di Aleppo e degli stranieri che vi abitavano.
Poi riuscì a imbarcarli per mare verso Venezia – e verso Yerwant che se ne prese cura. Shushanig sopravvisse a se stessa per tutto quel lungo anno; ma si lasciò andare, e morì di crepacuore sulla nave, la prima notte in cui, essendosi finalmente imbarcata per l'Italia con il suo piccolo popolo, poté dismettere la paura e sorridere di nuovo a Sempad. Che avvenne poi dei suoi figli, e di Yerwant, della sua contessa, di Yetwart e Khayël? Questa sarà un'altra storia.
Ismene e Isacco restarono ad Aleppo con Shushanig fino alla sua partenza; poi se ne andarono a Smirne, insieme. E anche questa è un'altra storia.
Nazim rimase ad Aleppo con Zareh, rimandando la sua partenza; ma un giorno scomparve davvero, forse per esercitare la sua professione alla Mecca. Di certo, non tornò più indietro.
Nazim trovò Djelal, nella notte famosa: e non si sa che cosa gli disse. Ma alcuni giorni dopo, come per caso, Djelal e Zareh si incontrarono, e piansero insieme: cioè bevvero caffè e giocarono a tric-trac. E fu poi Djelal che trovò la nave, e i passaporti tedeschi per il piccolo popolo di Shushanig; e ancora lui testimoniò al processo per le stragi armene, a Costantinopoli, nel 1919.
Nessuno, paziente lettore, è più tornato nella piccola città.
Il libro è uscito nel 2004 da Rizzoli. Tre anni dopo i fratelli Taviani ne hanno tratto un film. Tra gli attori figurano Paz Vega, Angela Molina, Alessandro Preziosi, Mariano Rigillo, Mohamed Bakri, Linda Batista.
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