Claudia Mancina
discorso tenuto in occasione dei funerali
10 aprile 2012
In questi giorni sono state scritte molte cose su Miriam, alcune
anche molto belle. In tutte erano presenti alcuni temi ricorrenti:
la sua risata, la sua libertà di pensiero, la sua vitalità. La sua
curiosità, che le faceva sempre interrogare, gli altri e la realtà,
senza mai dare per scontato il giudizio. Senza pregiudizio, sempre.
Non credo di aver mai conosciuto una persona così aperta alla
realtà, e quindi agli altri, come era Miriam. Le sue telefonate,
per chiedere: che cosa ne pensi?
Miriam era così, ma sarebbe un errore credere che pensasse solo
alla politica e che fosse fredda o, come qualcuno ha pensato,
cinica. Era, con una sua sottile discrezione e riservatezza, ma
anche con decisione, affettuosa e generosa. Non ho mai percepito il
cinismo nelle sue parole e nei suoi sentimenti, piuttosto ho
sentito (prendo in prestito le parole di Alfredo Reichlin)
"l'impasto di ragioni ideali e di realismo, fino al limite dello
scetticismo". Lo scetticismo può essere una corazza della fede. Io
credo che questo fosse lo scetticismo di Miriam. Lei non ha mai
smesso di credere, pur con tante revisioni e aggiustamenti, in ciò
in cui credeva quando la sua avventura è cominciata, durante la
guerra, quella guerra terribile che pure era l'inizio della
speranza, per l'Italia e soprattutto per l'Italia delle donne, come
ha spiegato in quel meraviglioso libro che è Pane
nero.
La Miriam che io ho conosciuto, e frequentato in questi venti
anni come un'amica straordinaria, era "dolce di cuore e con
un'affettata durezza di testa" (Giuliano Ferrara). I suoi giudizi
erano taglienti, ma la sua disponibilità, non solo ai rapporti
umani, ma anche agli impegni: alle lezioni, ai dibattiti, agli
incontri, era totale. Senza risparmio, anche quando era già malata.
Io credo che non fosse bisogno di riconoscimenti, come spesso
avviene, ma un autentico bisogno di conoscere, di capire. E anche
un antico costume, l'antico costume comunista, a cui era fedele
perché questo costume corrispondeva alla sua natura più profonda e
più vera.
Di questo voglio parlarvi, del suo rapporto col Pci, del suo
modo di essere una comunista e un'ex-comunista. Perché Miriam è una
delle pochissime persone - si contano sulle dita di una mano - che
dopo aver vissuto una piena esperienza di comunista sono poi state
capaci di chiudere quell'esperienza con totale e limpida
convinzione, senza minimamente cedere alla tentazione di guardare
indietro, e nello stesso tempo senza mai rinnegarla. Il suo
Botteghe Oscure addio mette in scena questa cerimonia
degli addii, con apparente freddezza ma in realtà con una enorme
tenerezza per il Pci, per il suo sogno politico ma soprattutto per
l'incredibile ambiente umano che il Pci aveva creato. La freddezza
apparente sta nella lucidità della ricostruzione e del giudizio,
nella decisione del distacco. Non c'è nostalgia politica, anche se
è confessata la nostalgia umana, nostalgia per i sogni della
giovinezza ma anche per la profonda umanità, per la moralità di
certi rapporti. Ma l'autrice di quel libro così commosso non pensa
neanche per un momento che si debba tornare indietro né per un
momento dimentica o sottovaluta il carico di errori e di
contraddizioni che ha contrassegnato quella storia.
Come pochi Miriam aveva vissuto sino in fondo la storia del Pci,
da dirigente periferico, come amava dire, immergendosi nelle lotte
bracciantili della Lucania e dell'Abruzzo, nell'organizzazione
femminile, in campagne elettorali che oggi neanche possiamo
immaginare. E poi, una volta passata al giornalismo (militante,
certo, ma giornalismo vero, libero, senza paraocchi), era stata tra
le migliori osservatrici e commentatrici dell'evoluzione del Pci.
Ricordo che ai tempi della svolta, quando ancora non eravamo
amiche, leggevo i suoi articoli su Repubblica, che erano così
acuti, così giusti, e mi chiedevo: ma perché non lo spiega a
Giancarlo?
Miriam non faceva parte del gruppo della svolta, ma aveva troppo
senso della realtà per non condividere la necessità che il Pci
diventasse un'altra cosa, si aprisse, facesse un tuffo nella
modernità e nella democrazia. Sapeva che solo a questa condizione
si poteva salvare l'eredità di quella storia, alla quale lei, come
tanti altri, aveva dedicato la vita. Aveva la lucidità di capire
che il mondo era definitivamente cambiato; e che in un mondo
cambiato l'eredità non frutta da sé, ma bisogna saperla mettere a
frutto. E ha molto sofferto l'incapacità che i post-comunisti hanno
purtroppo manifestato in quest'operazione. Ha molto sofferto il
complessivo fallimento del tentativo di fondare una nuova
tradizione della sinistra italiana.
Perché lei, ben lontana dal cinismo, credeva nella sinistra,
anche se non trovava una sinistra valida nel panorama politico
italiano. E' rimasta però senza dubbi e sino in fondo una donna di
sinistra, nonostante la delusione. Delusione, ma non sfiducia.
Perché, come dice nel Silenzio dei comunisti, l'ottimismo
e la fiducia nel futuro erano il suo difetto principale. Miriam
aveva fiducia che la sinistra che lei voleva, che noi vogliamo,
sarebbe venuta - anche se forse non più da quel ceppo antico.
Sapeva che la storia può sorprendere. Ma non ha mai allentato la
sua appartenenza. Ha continuato a partecipare alle riunioni di
Direzione; ha perfino votato alle primarie per il segretario del
Lazio.
Così come è rimasta sempre legata alla causa delle donne, alle
quali ha dedicato anni di lavoro politico e giornalistico (con la
direzione di Noi donne) e due libri, e un'incessante
presenza in tutti i luoghi anche periferici della politica delle
donne. Miriam non ha apprezzato il femminismo della differenza, e
non capiva proprio il femminismo postmodernista. Ma è stata sempre
con le donne, senza esitazione. Certo non avrebbe mai potuto
indulgere ai toni lamentosi e autocommiserativi che sono spesso
propri delle donne. Il movimento femminile che lei conosceva e
praticava era un movimento forte, autorevole, fatto di donne che
volevano conquistare libertà e potere.
Mettersi dal punto di vista delle donne ha avuto un effetto non
secondario nel suo modo molto particolare di essere comunista. Le
ha dato un tratto scanzonato e irriverente, una capacità critica
che le impediva di cadere nella trappola dell'ideologia o del luogo
comune di sinistra: come quando riconosce nei movimenti del
Sessantotto "una componente di tipo luddista, antimodernizzatrice,
pauperista". Quella riassunta nel celebre lamento di Pasolini sulle
lucciole che non ci sono più. Ma, lei dice, "il tempo delle
lucciole era per me il tempo in cui le donne andavano a lavare i
panni al fiume". Non era un tempo che potesse rimpiangere.
Scetticismo e ottimismo: sembra una congiunzione impossibile, ma
non lo è, ed è questa la lezione che Miriam ci ha lasciato
attraverso tutta la sua opera, attraverso tutte le parole che ha
scritto e che ha detto, attraverso le sue incessanti domande.
Permettetemi di leggere alcuni versi: sono versi di Montale,
scelti da Miriam come exergo di Botteghe Oscure addio,
insieme, non casualmente, alla dedica ai suoi nipoti.
Chi si ricorda più del fuoco ch'arse
impetuoso
nelle vene del mondo - in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.
Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l'usata strada.
Nel futuro che s'apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.
Questo è il messaggio di Miriam. Non so come potremo fare a
meno di lei. Certo ci mancherà moltissimo, ci manca già moltissimo.
Addio Miriam.
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