Quante volte abbiamo
letto in questi ultimi giorni “hanno vinto populismo e demagogia”, e non è un bel
complimento! Almeno: chi lo afferma si riferisce generalmente alla parte
politica avversa, che ha di solito la “colpa” di aver ottenuto dal “popolo”,
dal “demos” più voti, un maggior consenso o almeno di aver “deviato
inaspettatamente” il consenso vero o presunto dalla parte “seria” e “veramente
democratica” (leggasi Bersani) ai demagoghi di turno (leggasi Berlusconi e
Grillo).
Mi è sempre stato
difficile comprendere e mi è ogni anno difficile spiegare ai miei studenti la
valenza deteriore della “demagogia” (che costantemente si affianca a
“populismo”) e far capire perché il termine “democrazia” venga associato da
Aristotele a “tirannia” e “oligarchia” per indicare una delle tre forme
deteriori di governo, degenerazione rispettivamente di “politèia”, “monarchia”
e “aristocrazia” e quindi che occorre pensare che laddove il filosofo greco
scrive “democrazia” noi oggi dovremmo leggere “demagogia”.
Certo in Aristotele,
come in Kant – il quale ancora nel 1795 scriveva che la democrazia “è
necessariamente un dispotismo” – agiscono
fortemente l’indubbia diffidenza nei confronti delle masse popolari incolte e
la paura che gli interessi di queste masse “povere” di beni materiali e prive
di coscienza politica non corrispondano a quelli dell’intera comunità, della “res
pubblica”.
Partendo da queste
premesse, il “parlamentarismo” tenderebbe anche a ridurre il “pericolo” che
soltanto i “poveri” decidano per tutti
(è il timore di Aristotele). La “democrazia parlamentare” è infatti un sistema
politico fondato senz’altro sulla “sovranità popolare”, giacché la titolarità
del potere appartiene al demos, ma in cui l’esercizio del potere è delegato a
rappresentanti eletti dal popolo che, specialmente secondo i vari teorici dell’
“elitismo” – qualunque sia la loro posizione politica (destra, centro o
sinistra) –, hanno il compito non soltanto di rappresentare il popolo, ma anche
e forse soprattutto di “guidarlo” nella scelta del bene comune.
Uno dei nomi più
significativi delle “teorie delle élites” è quello del socialista Robert
Michels, che attorno al 1910 studiando in particolare la
socialdemocrazia tedesca formula la sua
“legge ferrea dell'oligarchia”, in cui sostiene tra l’altro che nella misura in
cui cresce l’organizzazione politica, la democrazia si deteriora e si
trasforma in oligarchia poiché “l'esistenza
di capi è un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale” e “ogni
sistema che preveda dei capi è incompatibile con i postulati essenziali della
democrazia”.
A Michels fa
riferimento Gramsci nel § 97 del Quaderno 6 (1930-1932), in cui leggo un
richiamo alla cautela nell’uso di termini come “elezionismo”,
“parlamentarismo”, “populismo”, “demagogia”.
Buona lettura!
“Di solito si vede la
lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione
(che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull'ambizione
possono e devono essere collegate con altre sulla cosi detta demagogia.
Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi
delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per
i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l'elezionismo offrono un
terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel
cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non
considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i
propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di
cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge
opera «costituente» costruttiva, allora si ha una
«demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi
attraverso l'elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali». Il
«demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto
intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti,
vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande
oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di
ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»). Il capo politico dalla
grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili
«concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare
elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo.” (Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1977, p. 772)
Francesco Scalambrino
Francesco Scalambrino
Nessun commento:
Posta un commento