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venerdì 6 dicembre 2024

Adorno contro l'autenticità




Marco Maurizi, La filosofia e il suo altro. Adorno lettore di Hegel
Dialegesthai, 4 aprile 2001

La filosofia e il suo altro. Questa frase esprime, in sintesi e in tutta la sua paradossalità, il contributo più importante di Adorno alla filosofia come disciplina. La filosofia e il suo altro: pensare, attraverso il pensiero, ciò che pensiero non è. Per Adorno il compito più importante che la filosofia deve prefiggersi è certo quello di pensare l’alterità e la differenza; tale assunto, per altro oggi pacifico ai più, assume in Adorno un aspetto tragico. All’interno della prospettiva adorniana, infatti, sembra quasi impossibile pensare radicalmente l’altro, sfuggire all’incantesimo che chiude il pensiero in se stesso. Ciò che venne visto come il carattere infinitamente positivo del pensiero dall’idealismo, il suo radicarsi nell’Identità, diviene in Adorno condanna, incapacità di uscire dalla gabbia che il pensiero tesse attorno alle cose. E tuttavia, questa la scommessa di Adorno, al pensiero, e solo al pensiero, è affidato il compito di salvare l’alterità radicale e, alla fine, di renderla possibile. Lo schema di questa possibile salvezza è curiosamente custodito tra le pagine del pensatore moderno che più di ogni altro è stato accusato di assoggettare la differenza ad un ordine violento ed onnipervasivo: Hegel.

Se si volesse riassumere drasticamente il debito di Adorno nei confronti di Hegel si avrebbe a disposizione una sola parola: quella “dialettica” che accompagnò il pensiero di Adorno dal libro sull’Aufklärung del 1941 fino alla fine della sua vita. Se ora volessimo illuminare in parte il modello adorniano di dialettica saremmo costretti a prendere in esame l’interpretazione che Adorno dà di Hegel in tutta la sua portata. Altrettanto importante, infatti, dell’eredità hegeliana nel linguaggio e nel modo di concepire la filosofia per Adorno è comprendere come e perché Adorno si distacca da Hegel proponendo uno schema alternativo di dialettica. Da un punto di vista strettamente gnoseologico la concezione adorniana della dialettica manifesta un profondo debito anche nei confronti di Kant, la sua teoria della conoscenza si muove costantemente tra questi due poli, riconoscendo — con Hegel — l’intreccio costitutivo di soggetto e oggetto e — con Kant — la persistente presenza di un residuo che impedisce al soggetto di ridurre a sé l’oggetto.

Th.W. Adorno, Negative Dialektik, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfur am Main 1986, Vol. 6, p. 145. 

Di fatto la dialettica non è né soltanto metodo né qualcosa di reale nel senso dell’intelletto ingenuo. Non un metodo: infatti la cosa inconciliata, cui manca proprio quell’identità, che il pensiero surroga, è contraddittoria e si chiude ad ogni tentativo di una sua interpretazione. Essa, e non l’impulso organizzativo del pensiero, spinge verso la dialettica. Non un semplicemente reale: infatti la contraddizione è una categoria della riflessione, il confronto pensante tra concetto e cosa. Dialettica come procedimento significa pensare in contraddizioni in forza della contraddizione esperita nella cosa e contro di essa. Contraddizione nella realtà, essa è contraddizione contro questa. Ma tale dialettica non si può conciliare con Hegel. Il suo movimento non tende all’identità nella differenza di ogni oggetto dal suo concetto; piuttosto essa ha in sospetto l’identico. La sua logica è logica della disgregazione, nella forma costruita e oggettivizzata dei concetti, che il soggetto conoscente ha immediatamente di fronte a sé. La loro identità con il soggetto è la non verità. Con essa la preformazione soggettiva del fenomeno si insinua davanti al non identico, all’individuum ineffabile.

Marco Maurizi, La filosofia e il suo altro. Adorno lettore di Hegel - Dialegesthai (mondodomani.org)
Theodor W. Adorno, Minima moralia, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1954, pp. 147-152. 



mercoledì 10 giugno 2015

L'identità come mito

Claudio Tugnoli
L'identità introvabile
http://mondodomani.org/dialegesthai/ct19.htm



Si parla spesso e volentieri di identità; il termine sembra possedere un significato univoco, implicitamente condiviso e di tutta evidenza. E, soprattutto, sembra rinviare a qualcosa di solido, indiscutibile, mentre invece, come dimostra Remotti (1), quella parola spesso abusata promette qualcosa che in realtà non c'è. L'identità rinvia a una sostanza, illude di poter afferrare qualcosa di reale, pretende di circoscrivere una certa essenza nella sua purezza, quando invece essa non è che una finzione. Al massimo si potrà dire che l'identità è un mito utile; un mito da prendere con circospezione, con la coscienza, appunto, che si tratta di un mito. Chi rivendica un'identità intesa come essenza immutabile avanza una richiesta di riconoscimento identitario che mostra una stretta parentela con il razzismo. I sostenitori di un identitarismo radicale finiscono col concepire una dicotomia secca tra noi e loro, tra me e l'altro, tra le persone perbene e i criminali (almeno potenziali) che minacciano di alterare l'identità di quanti si pongono come soggetti di riferimento.


... Nella costituzione dell'identità non si assiste all'assemblaggio consapevole, da parte di un soggetto individuale o collettivo, di elementi eterocliti tratti da altre culture: questa immagine edulcorata e astratta della formazione dell'identità lascia fuori ogni riferimento alla vita vera delle nazioni e delle culture, alla guerra, alle prove di forza, alla brutalità dell'oppressione e dell'esclusione. Rimane vero tuttavia che l'identità è in costante evoluzione e mutamento, senza che si possa rintracciare un'essenza originaria che persiste e si modifica nel tempo. La nostalgia delle origini non sembra giustificata: in origine infatti, in senso stretto, non c'era niente e quel che c'era non si colloca in una relazione necessaria con il presente, se è vero che in ogni epoca o fase della storia la direzione che il cammino prende ne esclude altre. E tutte le direzioni possibili sono compatibili con lo stadio raggiunto dall'identità in un certo momento. L'identità perde quindi ogni forma di necessità logica e storica.


... L'ossessione per l'identità è dunque una distorsione, che si presenta quando la riflessione sul passato comincia a prevalere in misura patologica, assorbendo tutta l'attenzione che, per necessità vitale, i viventi devono rivolgere al presente e al futuro. La volontà di affermare una presunta identità, riflessa e immaginaria, si fa strada quando l'evoluzione si è interrotta per una patologia del pensiero che ostacola i normali processi di alterazione necessari all'esistenza in quanto tale. Senza gli altri, nessun noi, senza alterità, nessuna identità. Pensare un'identità senza alterità significa assumere una chimera, proporre un nonsenso, evocare un circolo quadrato.


... L'analisi delle componenti dell'io mostra, ancora una volta, come sia facile assumere un punto di vista analitico astratto allo scopo di indebolire la consistenza dell'identità, senza tuttavia abolire completamente questo costrutto, di cui si avverte l'esigenza ineludibile. Remotti riprende i contributi di pensatori che hanno affrontato la questione dell'unità dell'io e del suo fondamento. Pascal ha smantellato lo stesso concetto di io. Non solo le cose e le persone sono composte di molteplici parti, ma lo stesso io risulta introvabile, giacché muta nel tempo. Locke non fa più dipendere l'identità da una sostanza che sarebbe a fondamento dell'io: l'identità è pensata invece come prodotto della coscienza. Solo la coscienza, secondo Locke, unisce i diversi io nel tempo, le diverse azioni e le diverse esperienze, per costituirne la trama unitaria. La coscienza unificante per Locke non è una sostanza, ma una mera funzione. L'identità si produce dal presente della coscienza, che effettua l'unificazione del molteplice. I limiti della coscienza diventano limiti dell'identità, resa imperfetta dal susseguirsi di stati dell'io che periodicamente sono immersi nel sonno o si dileguano nell'oblio. Anche Hume riconosce la molteplicità dell'io: il flusso delle percezioni di ogni genere è inarrestabile, ma esiste una propensione irresistibile a contenere tutte queste percezioni successive in un'identità invariabile. L'identità è costruita mediante un errore: l'eliminazione delle piccole differenze tra i diversi stati di coscienza. Le nozioni di anima, di sé, di sostanza, derivano dal fatto che fingiamo l'esistenza continuata delle nostre percezioni, quando in realtà esse sono separate e discontinue. Se però l'identità è una finzione costruita per errore, ogni controversia sull'identità non potrà che rivelarsi una vana disputa. Se per Hume la sola giustificazione epistemologica dell'esistenza di qualcosa è data dalla possibilità di ricondurre l'idea di quella cosa all'impressione corrispondente, allora l'idea d'identità risulterà priva di fondamento, per l'impossibilità di indicare l'impressione da cui proviene. Hume allora chiama in causa la memoria e l'immaginazione per spiegare l'identità. Egli ammette esplicitamente che l'io è una specie di stato i cui componenti sono uniti da legami reciproci e dalla subordinazione al governo. L'io sarebbe una specie di noi. L'identità dunque non è un dato, ma è attribuita; non preesiste come una sostanza, ma è costruita. Sta all'immaginazione procedere verso un'identità forte e totalizzante oppure mantenerla nei limiti di un'identità debole e leggera. 

Francesco Remotti, L'ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010.


venerdì 3 ottobre 2014

L'ironia

Erik Satie, o l'ironia
 
Ma il vero aedo dell'innocenza è per Jankélévitch Erik Satie. Il filosofo gli dedica un lungo saggio intitolato Satie et le matin, scritto intorno al 1960, nonché innumerevoli citazioni in tutti i suoi testi.
Il rifiuto del romanticismo in Satie è più radicale che in Debussy o Ravel e coincide con il rifiuto di sviluppare la melodia e di esprimere i sentimenti. Dal punto di vista musicale ciò si traduce in una monotonia molto accentuata e in una brachilogia spesso ai limiti del laconismo. Contro la loquacità romantica Satie propone l'istantaneità dei momenti musicali, e contro la continuità di tipo accademico le ripetizioni, le rabâchages e le impassibili giustapposizioni di accordi perfetti, o di quarte e quinte, che danno alla sua musica una certa arcaica staticità.
Ma l'ossessione, l'immobilità, la secchezza del suo stile - che spesso producono fastidio - hanno solo una funzione incantatoria e ipnotica, servono solo a catturare l'ascoltatore imponendogli un esercizio di rinuncia e quasi di ascesi. D'altra parte tutti questi aspetti non si rivelano essere altro che artifici e camuffamenti, aventi scopi indiretti: mistificare per purificare, travestirsi per far rinsavire e in ogni caso «combattere la nostra naturale inclinazione all'intenerimento» (MH, 28). Jankélévitch quindi interpreta la musica di Satie come una generale «disintossicazione», raggiunta grazie alla «volontà d'alibi» e all' «esponente della finzione» che disorienta l'ascoltatore per potergli poi indicare una strada diversa e segreta.
Erik Satie corrisponde quindi alla figura dell'ironista descritta nelle pagine de L'ironia (I, 127-132): qui Jankélévitch intende l'ironia come «la cattiva coscienza dell'ipocrisia», nel senso che mira a fare emergere le intenzioni nascoste dalla malevolenza e dalla cattiva fede. Infatti «l'ipocrita vorrebbe sfuggire allo scandalo di cui si sa portatore e che è la sua onta; ma l'ironista lo tallona e smaschera ogni momento l'impostura...». Ciò avviene in base a una specie di conversione della finzione: «Ma nel momento in cui, per interesse o vanità, le coscienze preferiscono recitare dei ruoli, l'ironista si intromette tra loro e recita la parte delle loro parti, decide di essere falsamente ipocrita perché il vero ipocrita ridivenga leale, rincara quindi l'ipocrisia e si gioca del suo gioco». Tuttavia questo gioco alla seconda potenza non è fine a se stesso, poiché l'ironista, come Socrate, «non urta per il solo gusto di urtare»: il suo scopo si pone su un piano differente rispetto alla pura provocazione o alla semplice canzonatura; «la vera ironia procede attraverso l'antitesi verso una sintesi superiore...», mentre «l'estremismo conformista» opera con delle «antitesi meccaniche e del tutto superficiali», e per questo non fa che tornare al punto di partenza. Si tratta quindi di un'ironia all'ennesima potenza che pone il musicista di Arcueil a fianco di Socrate, al quale fra l'altro ha dedicato il suo capolavoro. Se la parola «ironia» designa «l'atto di interrogare», la musica di Satie per Jankélévitch è «naturalmente interrogativa» (ib., 39).
E come per Platone lo stupore sta all'origine della filosofia, così per Satie il candore è la sorgente della musica: essa esprime quella freschezza con la quale un bambino apre la sua piccola coscienza al mondo. Ma essa sa anche esprimere l'ineluttabilità della morte e la serenità della coscienza.

Carlo Migliaccio, L'odissea musicale nella filosofia di Vladimir Jankélévitch

L'ironia, o il sentimento dell'alterità

Questo ci porta a un’altro dono della nostra civiltà: l’ironia. C’era già una potenziale vena ironica nella Bibbia ebraica, che poi venne amplificata dal Talmud. Ma un nuovo tipo di ironia domina i giudizi e le parabole di Cristo, che guardano allo spettacolo della follia umana e ci dimostrano ironicamente come accettarla. Un esempio significativo è il giudizio di Cristo nel caso della donna adultera: "Chi è senza peccato, scagli la prima pietra". In altre parole: “Non fatemi ridere; non avete mai voluto fare ciò che ha fatto lei, o forse l’avete già commesso nel vostro cuore?”. Alcuni suggeriscono che questa storia è un’inserzione successiva – una delle tante che i primi cristiani selezionarono dalle riserve di saggezza attribuite al Redentore dopo la sua morte. Anche se fosse vero, questa ipotesi si limita a confermare l'idea che la religione cristiana ha fatto dell’ironia un punto centrale del suo messaggio. E’ stato Søren Kierkegaard, un inquieto cristiano dell’epoca post-illuministica, a vedere nell’ironia la virtù che univa Socrate a Cristo.
L’ultimo Richard Rorty considerava l’ironia come uno stato psicologico intimamente connesso alla visione postmoderna del mondo – un venir meno del giudizio che nondimeno porta a un tipo di consenso, a un accordo comune sul non giudicare. Ma il temperamento ironico è più conosciuto come una virtù, una disposizione dell’animo tesa alla soddisfazione pratica e al successo morale. Se dovessi azzardare una definizione di questa virtù, la descriverei come l’abitudine di riconoscere l’alterità di qualsiasi cosa, persino di se stessi. Anche se sei convinto che le tue azioni sono giuste e le tue opinioni veritiere, guardale come le azioni e le opinioni di qualcun altro e quindi riformulale di conseguenza. Definita in questo modo, l’ironia è abbastanza diversa dal sarcasmo: è un modo di accettare più che di rifiutare le cose. Mostra tutte e due i lati della medaglia: attraverso l’ironia, imparo ad accettare l’altra persona su cui rivolgo il mio sguardo, e imparo ad accettare me stesso, cioè chi mi sta guardando. Con tutto il rispetto di Rorty, l’ironia non è libera dal giudizio: semplicemente riconosce che chi giudica sarà giudicato e giudicherà se stesso.

Roger Scruton, Il perdono e l'ironia hanno reso migliore l'Occidente e ora possono salvarlo, l'Occidentale, 11 Agosto 2009