Pierluigi Battista, Sotto il segno del Gulag, Corriere della Sera, 27 dicembre 2018
Nella sua postfazione a Nel primo cerchio (editore Voland), la prima versione non purgata pubblicata in Italia del romanzo di Aleksandr Solženitsyn, Anna Zafesova scrive: «A Milano eravamo in una grande libreria, convinti di trovare uno dei più grandi romanzi del Novecento in cinque minuti, un po' come si entra in un supermercato sicuri di trovare il latte o il pane. Ma il romanzo non c’era negli scaffali della letteratura straniera e nemmeno in altri reparti», e infatti «il gentile giovane commesso ci disse che era ormai fuori stampa, guardandoci con educato stupore», come se fossero apparsi «due personaggi bizzarri». Ecco: in Italia appare una bizzarria cercare «uno dei più grandi romanzi del Novecento».
Il 2018 è stato il centenario della nascita di Solženitsyn e il decimo anniversario della sua morte, ma appare ancora una bizzarria ricordarlo, pur nella bulimia delle commemorazioni che solitamente impegnano le energie di una società letteraria dedita al rito delle ricorrenze enfatiche. È una bizzarria addirittura aver letto Arcipelago Gulag (fate un sondaggio tra i vostri amici, anche quelli più acculturati: non l’ha letto quasi nessuno), una «dinamite» che al suo apparire scosse e lacerò il mondo culturale della sinistra francese, ma che fu ignorato, disprezzato, persino deriso da un mondo intellettuale censorio e conformista, lo stesso mondo intellettuale che ostracizzò con furore dottrinario nel 1977 la Biennale del dissenso voluta con coraggio a Venezia da Carlo Ripa di Meana.
Qualcuno ebbe da eccepire sulle qualità letterarie
dell’opera di Solženitsyn, e questa banale estetizzazione di un
radicale imbarazzo politico mi è sempre sembrata una scorciatoia fatua,
un modo per parlar d’altro e non affrontare lo scandalo dei milioni di zek (il nome dei prigionieri del Gulag svelato da Solženitsyn proprio nelle pagine di Nel primo cerchio),
simbolo delle mostruosità del «socialismo reale». Ma mi sbagliavo
perché, come ha scritto Barbara Spinelli nell’introduzione di Arcipelago Gulag uscito anni fa nei Meridiani Mondadori, Solženitsyn e il Varlam Šalamov dei Racconti della Kolyma
sono riusciti a «mettere l’alta letteratura al servizio del vero». E il
vero, nelle vesti della letteratura che sa vedere e scovare le pieghe
della realtà impenetrabili con gli strumenti gelidi della saggistica, ha
un impatto più forte, mette in mostra le emozioni, è più pericoloso
quindi. E se era ancora possibile ignorare il monumento saggistico,
pieno di dati inconfutabili, del grande Robert Conquest, autore de Il Grande Terrore
sui massacri staliniani, invece Solženitsyn, con la potenza letteraria
della sua scrittura, non doveva essere soltanto ignorato, ma preso a
bersaglio di un pregiudizio critico adibito alla demolizione di un
grande scrittore: che infatti aveva voluto come sottotitolo del suo
capolavoro Un’indagine letteraria.
La denuncia dei crimini del Gulag
doveva essere neutralizzata, sconsigliando la lettura di un libro che
non era solo denso di fatti e di testimonianze, ma era anche un esempio
di «alta letteratura». La liquidazione letteraria come deterrente e
prologo di una liquidazione politica. Nell’Unione Sovietica i dissidenti
venivano liquidati come malati di mente e reclusi negli ospedali
psichiatrici. Più banalmente, nei salotti della cultura irreggimentata
dell’Occidente si liquidava con supponenza lo scrittore Solženitsyn per
rinchiuderne il nome nel dimenticatoio degli autori da ignorare.
Come il gentile commesso della libreria rievocato da Anna Zafesova, che non sapeva nemmeno quanto grande fosse Solženitsyn e quanto avvincente fosse Nel primo cerchio,
fosse pure nella versione più digeribile che l’autore stesso volle
proporre per eludere le forche caudine della censura sovietica, nel
1968. Sei anni prima dell’uscita di Arcipelago Gulag,
pubblicato all’estero anzitempo dopo che gli scherani del regime
avevano messo le mani su una parte del dattiloscritto, trovato dopo
l’interrogatorio della segretaria di Solženitsyn, che per la vergogna
della delazione estorta con l’intimidazione si suicidò.
Con Nel primo cerchio, la descrizione letteraria
di Solženitsyn non attinge ancora i vertici dell’orrore, della
degradazione e dell’umiliazione patita da milioni di prigionieri. Il
«primo cerchio», eco dell’Inferno dantesco, è il girone dei prigionieri «privilegiati», la šaraška
dove, commenta Anna Zafesova, erano «detenuti ingegneri e matematici», costretti a lavorare «alla costruzione di apparecchiature
che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri». La
lontananza dalle atrocità commesse nei gironi infernali «inferiori» del
Gulag viene però pagata dall’atrocità di dilemmi etici dolorosi:
collaborare per salvarsi, per la paura, per non piombare agli ultimi
gradini dell’abiezione? Questo è il quadro simbolico, emotivo ed
esistenziale in cui si muove la narrazione di Solženitsyn. Ma la
pubblicazione in Italia di un altro straordinario libro, La casa del governo di
Yuri Slezkine, edito da Feltrinelli, consente di penetrare nella vita
quotidiana di quegli strati privilegiati della società sovietica, che
però in Una storia russa di utopia e di terrore,
come recita il sottotitolo del massiccio volume feltrinelliano, saranno
inghiottiti dall’abisso della persecuzione e della morte.
Mentre nel resto della società sovietizzata si
pativano lo squallore e la miseria della coabitazione forzata in
appartamenti requisiti e ridotti a degradati e superaffollati alveari
umani, l’onnipotente partito aveva preparato per la sua nomenklatura,
lungo gli argini della Moscova, un complesso abitativo da incubo, con
oltre cento appartamenti collegati, spazi sportivi e ricreativi comuni.
Tutto in comune, anche l’angoscia di oltre cento famiglie dello stato
maggiore bolscevico che passeranno dai fasti dell’«utopia», il
privilegio di chi aveva condotto la rivoluzione, al «terrore» che
decimerà quella nomenklatura.
C’è qualcosa di soffocante e di claustrofobico
in questo complesso residenziale, un’atmosfera malsana e asfissiante
che ricorda alla lontana un’altra epica del terrore vissuta nelle stanze
di un luogo chiuso: il grande Hotel Lux di
Enzo Bettiza. Ma la forza di questo romanzo è di aver raccolto, tra
lettere, fotografie, diari uno spaccato della società sovietica dove
domina il chiaroscuro della vita di tutti i giorni, con i presagi della
devastazione e della persecuzione, l’atmosfera quotidiana di sospetto e
di ansia che domina anche i settori meno colpito dalle durezze della
vita post-rivoluzionaria.
Un affresco epico, di epica del terrore,
che analizza i momenti che precedono il crollo nell’universo
concentrazionario del terrore: si spariva nella Russia sovietica, nella
prigione mentale e fisica del «socialismo reale», e poi intere famiglie
venivano risucchiate e annichilite nella macchina crudele del Gulag,
senza un perché, un avvenimento che potesse almeno alludere a qualche
ragione dello sprofondare nell’apocalisse. Rivivono in questo libro i
fantasmi delle famiglie scomparse, ma si ricostruisce anche un pezzo
della cultura sovietica, della mentalità di chi ha promosso e poi subito
le conseguenze della presa del potere da parte dei bolscevichi, della
storia dell’architettura, degli oggetti, delle immagini, della
scrittura, degli affetti che davano il tono e il clima al «regno del
terrore» in cui dalla lontana Siberia, destinazione finale dei
perseguitati e degli assassinati, spirava fin nel cuore della capitale
il vento dell’angoscia e della paura.
La letteratura si conferma lo strumento migliore
per afferrare e capire i dettagli esistenziali di una storia tragica,
di un arcipelago del terrore che abbiamo imparato nonostante tutto a
definire con il suo giusto termine: Gulag.
https://machiave.blogspot.com/2015/03/la-casa-sul-lungofiume-mosca.html
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