sabato 22 dicembre 2018
Il declino della civiltà borghese
Aldo Masullo, L'Italia si salva se in tutti noi torna la coscienza di essere popolo, la Repubblica Napoli, 21 dicembre 2018
Ho scritto su queste pagine, qualche tempo fa, che il termine imborghesimento può ben servire a designare la straordinaria trasformazione sociale avvenuta nei decenni ’50-’70 del secolo scorso. In tale periodo il mortificante senso di servile umiltà del lavoro destinato ai proletari, a coloro cioè senz’altri beni che la prole da offrire allo sfruttamento dei padroni o peggio alle guerre dei sovrani, fu sostituito con l’orgoglio del lavoro finalmente riconosciuto. In Italia la Costituzione lo proclamò fondamento della Repubblica.
L’uomo massa dell’industrialismo avanzato giunse allora a godere di un moderato benessere, ma soprattutto si sentì integrato come membro paritario nella nuova società dei diritti. La borghesia divenne insomma una specie di classe generale, quasi un amplissimo campo di ceti operosi, in cui le stesse élites molto spesso avevano le loro radici. Per un trentennio, pur tra drammatiche tensioni e minacciosi attacchi, la civiltà europea coltivò modelli di democrazia liberale. Sulla nuova base di borghesia diffusa grandi statisti credettero si potesse fondare un’unità continentale sempre più tranquillamente amministrativa e sempre meno agonisticamente politica, tanto ricca di scambi quanto pacifica.
La solenne Costituzione europea, intesa a ufficializzare questo promettente stato di cose, sottoscritta dai governi nel 2004, abortì miseramente nel 2005 per la negata ratifica da parte degli elettori francesi e olandesi.
La clamorosa rottura, dovuta non poco alla colpevole lontananza dei processi istituzionali dalle opinioni pubbliche, in realtà mise allo scoperto la drammatica inversione della storia sociale, che a partire dagli anni ’80 era venuta incubando terribili guasti. Si stava scatenando la tempesta perfetta. Per il combinato verificarsi di cambiamenti sconvolgenti (le tecnologie avveniristiche, la globalizzazione selvaggia, la pesante serietà dei processi economici stravolta dall’ingannevole leggerezza dei giochi finanziari, la deliberata deregolazione dei sistemi pubblici, l’attacco della vendetta islamica alla supremazia occidentale, lo scontro di antiche e nuove aggressive ambizioni egemoniche), è stato via via lacerato il tessuto della giovane società europea, liberale e democratica. Nel giro degli ultimi decenni l’imborghesimento di massa si è rovesciato in una rinnovata proletarizzazione. La classe generale europea si è ridotta sempre meno borghese e sempre più proletaria. È stata una rovinosa caduta. I lavoratori hanno perduto il benessere, mentre i giovani non lo trovano.
Il peggio è l’immiserimento morale, la perdita della fiducia dell’uomo nell’uomo.
I più non possono sopportare la retrocessione e nutrono un rancore crescente. Già riconosciuti come membri paritari della società dei diritti, compartecipi dunque del potere sociale, adesso riproletarizzati s’arrabbiano, ritrovandosi impotenti perfino a farsi ascoltare. Oltre che oggettivamente offesi, essi sono profondamente umiliati, respinti al fondo della loro attuale pochezza.
Il movimento dei gilet gialli, che dilaga per le strade di Francia, è un caso esemplare dei tre tempi della storia sociale di massa degli ultimi settant’anni: ascesa e imborghesimento; discesa e riproletarizzazione; generalizzato sconforto e impulso di rivolta.
Esemplare è l’agitazione dei gilet gialli francesi. Il bersaglio centrale dell’esploso furore, al di là del grave peggioramento economico, è l’indifferenza del potere alla voce dolente del popolo. Autorevoli osservazioni concordano. Il geografo Christophe Guilly dice: il movimento «è un modo rudimentale di combattere contro l’invisibilità sociale».
L’analista Jerome Fourquet è ancor più diretto: «Molti gilet gialli non si sentono rispettati».
La scrittrice Annie Ernaux rivendica il «carattere profondamente popolare della protesta, che riguarda persone accomunate dalla condizione esistenziale del sentirsi disprezzate, escluse».
Con l’invasione delle piazze, innescata dal disagio economico, esplode una profonda sofferenza politica. La riproletarizzazione di questi anni comporta non solo una incalzante riduzione del potere d’acquisto ma soprattutto una mortificante revoca di potere. In un paese come la Francia, in cui l’equilibrio repubblicano dipende dal rapporto tra tendenziale centralismo elitario e sanguigna fierezza popolare, la riproletarizzazione è un’insopportabile rottura dell’ultimo compromesso politico.
Il popolo, non il populismo, è stato in questi giorni protagonista dei fatti di Francia (a parte isolati gesti di ribellismo e perfino di razzismo antisemita).
A riflettere su questo episodio, si coglie la radicale differenza tra populismo e popolo. Populismo è un’impresa di parte, di uno o di pochi che progettano di conquistare il potere con il sostegno dei più, abilmente manipolandoli e rinfocolandone rancorose frustrazioni. Popolo invece sono i più, quando maturano il senso del loro essere comune e della loro solidale responsabilità.
Una politica populistica temerariamente promette. La politica seria propone e discute.
Anche in Italia, come in Francia, il potere diffuso e la coscienza d’esserne partecipi sono scomparsi. Sindacalista o insegnante, parlamentare o sindaco, nessuno più sente, nella propria funzione specifica, di concorrere alla direzione civile del paese, e di essere perciò partecipe del potere politico generale. I diversi luoghi del potere diffuso sono in realtà tutti deserti.
Non restano, a quanto pare, che i pochi centri di potere forte: la solita "razza padrona", le famiglie un tempo grosse imprenditrici ed ora intese soprattutto a moltiplicare le rendite finanziarie. Ma la sorte del mondo la decidono su ben altra scala concentrazioni di potere, i cui luoghi sono rigorosamente invisibili.
Intanto gl’italiani dei ceti operosi, prima imborghesiti e poi riproletarizzati, in gran numero sembrano essersi sciolti in una poltiglia informe di paure e d’illusioni. Si sfogano sui social o fidano incantati nei giochi di prestigio populistici.
Ma la salvezza sta altrove, nel coraggio di rifarsi popolo. Ad avviare questa difficile impresa deve lavorare, se ancora c’è, l’intelligenza politica. Il tempo è propizio. Nel momento stesso in cui, lasciata dai governi ingrigire, l’Europa deperisce, una sua nuova unità appare indispensabile.
Questo è già l’aurorale orizzonte, in cui con entusiasmo si muovono i nostri giovani, in cerca di conoscenza e di lavoro.
Gaetano Manfredi, il rettore dell’Università Federico II, insiste con forza a ricordarci che queste generazioni «conoscono il valore dell’Europa della pace, un bel sogno da difendere strenuamente». Nell’impegno per la giovane Europa all’intelligenza politica si offre la grande occasione di riaccendere negl’italiani la coscienza di essere popolo.
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