Aris Accornero, Perché non ce l’hanno fatta? Riflettendo sugli operai come classe, Quaderni di sociologia, 17/1998
Questa riflessione non può concludersi senza un cenno alla prospettiva di assimilazione degli operai all’imprenditore attraverso forme di comproprietà e di corresponsabilità che mettessero ambedue le classi in condizioni di dirigere insieme l’azienda e, per questa strada, di gestire insieme la comunità o la società. Qualcosa è stato attuato, e la forma forse più nota è il sistema tedesco della co-determinazione (Mitbestimmung), introdotta per legge nell’industria siderurgica tedesca del secondo dopoguerra proprio per bilanciare un potere di classe che aveva fomentato il bellicismo. Un’altra forma, più diffusa ma con minore impatto, è stata in vari paesi la distribuzione di azioni gratuite da parte di grandi impreseconcession agreement che aveva salvato l’azienda).
. Questa partnership fondata su un titolo di proprietà ha manifestato un limite già presente fin dall’Ottocento: la dimensione esclusivamente aziendale; né le leggi hanno premiato una rappresentanza «di classe» del lavoro nel capitale anche dove i lavoratori hanno scambiato le proprie spettanze con azioni della compagnia, come nel caso della United Airlines e dell’Alitalia in crisi. Poche imprese sono del resto disposte a far entrare i sindacalisti nei consigli di amministrazione, mentre i sindacati cercano di scansare rischi e responsabilità accettando soltanto di entrare in organi di sorveglianza. (Clamoroso fu il caso Crysler: il leader della Uaw uscì traumatizzato e il sindacato deluso dall’organo dov’era stato portato dal
Quel
che va rilevato è l’inconsistenza degli approcci ispirati anni addietro
a un progresso tecnologico che pareva alle soglie della fatidica
automazione, e alle conseguenti aspettative sull’operaio-tecnico, la cui
«frazione più avanzata» S. Mallet credette di vedere in azione alla
Caltex dove i sindacalisti studiavano i bilanci come «azionisti
coscienziosi», e alla Thomson-Houston, dove la nuova classe operaia gli
appariva «idonea alla gestione» perché uno degli interpellati gli aveva
detto: «Io me ne frego delle storie di paga, qui è la tecnica che mi
interessa».
Sta di fatto che in tutti questi anni una domanda di cogestione non è
salita dal mondo del lavoro, nonostante le dotazioni culturali offerte
agli operai da intellettuali e politici che credevano nella prospettiva
integrazionista. Anche se questa è tornata da poco in auge, in termini
teorici con la «economia della partecipazione» e con la «fine della
società dei salariati», e in termini pratici con i fondi di investimento
dei lavoratori (qui in Italia tramite la previdenza integrativa con
fondi attinti dal trattamento di fine rapporto), non pare che gli operai
ne siano finora usciti con il profilo di una ruling class, nemmeno in termini di gestione tecnico-produttiva, neppure con la Mitbestimmung nelle
imprese tedesche, e tanto meno con la collaborazione aziendale nelle
giapponesi, dove il clima è di deferenza più che di parità. Può essere
che il quadro di partecipazione e di commitment contestuale al
superamento del modello taylor-fordiano schiuda qualche spiraglio: se
son rose fioriranno. Ma per adesso, il bilancio resta quello
tratteggiato più sopra.
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