Autore dell'intervista, che risale al 29 ottobre 2012, è
Maurizio Serra, autore di
Malaparte vite e leggende,
Marsilio 2012.
Signor Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza di Malaparte?«Fu
nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia famiglia era stata
evacuata. Napoli aveva subito più di cento bombardamenti devastanti e la
liberazione era stata seguita dalla carestia, nell'inverno 1943-44.
Nondimeno, la città ricominciava a vivere e avevamo appena pubblicato il
primo (e solo) numero di una rivista intitolata ‘‘Latitudine'', vicina
ai comunisti ma indipendente, che affrontava temi audaci come
l'ermetismo, il surrealismo e la letteratura americana, e conteneva
citazioni di autori eretici come Gide e Malraux. Ebbi l'idea di andare a
farne omaggio a Malaparte».
Quale fu la sua reazione?«Devo
dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani,
appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo
una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del
fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista
nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere
in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La
Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti.
Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il
pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla
clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di ‘‘Prospettive'', che
si apriva con il suo grande servizio dall'assedio di Leningrado,
intitolato ‘‘Sangue operaio'', ci aveva entusiasmati. Considero ancora
oggi che le corrispondenze de ‘‘Il Volga nasce in Europa'' rappresentino
quel che ha scritto di meglio, con ‘‘Kaputt''. Per farla breve, non
conoscevamo il suo passato d'uomo compromesso col regime, ma, in quanto
intellettuale, lo sentivamo vicino a noi».
E il suo atteggiamento lo confermò?«Assolutamente,
fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare. Purtroppo la nostra
rivista era stata accolta male dai responsabili della federazione
napoletana del Pci, il che ne provocò la fine e accrebbe le mie
perplessità riguardo al partito. Decisi allora di prendere le distanze e
andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in una filiale della
Croce Rossa americana, a Capri, che era stata trasformata in campo di
riposo dell'aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi diede l'occasione di
vedere Malaparte molto spesso, quasi quotidianamente, fino all'incirca
all'autunno 1944, allorché le nostre strade si separarono. Con me era di
una grande disponibilità, cosa che mi colpiva, anche perché tutti lo
conoscevano, ma piuttosto da lontano. Era considerato un eccentrico e si
mescolava poco alla vita locale. Aveva, in definitiva, pochi amici, tra
cui l'ambasciatore Rulli».
Come si svolgevano i vostri incontri?«Non
appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all'albergo Quisisana, che
era il suo punto d'incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di
Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell'isola, che
da un golfo immette sull'altro. Bisognava risalire una scalinata
intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai
bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a ‘‘Casa come
Me'': l'ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva
sul grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano
d'avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di
fronte all'immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più
impressionanti del Mediterraneo... La sua conversazione era
straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo ancora compiuto
diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che affabulava quasi
a ogni frase: era comunque uno spettacolo indimenticabile. Dire che
avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata
capacità di seduzione, un fascino notevole. Parlava di tutto: i suoi
incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull'arte e l'avvenire del mondo.
Era quasi una replica di ‘‘Kaputt'' che si svolgeva sotto i miei occhi,
cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del
libro, pubblicata dall'editore Casella, a Napoli, con una dedica molto
lusinghiera: ‘‘A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno
durante l'Apocalisse'', con riferimento alle devastazioni di Napoli.
Purtroppo, ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha mai restituito».
Malaparte si era avvicinato al Pci in quel momento.«Direi
che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di
essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa!
Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall'Unione Sovietica, il 27
marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da
due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a
Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de ‘‘l'Unità'':
Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso
dell'11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova
politica del partito. L'incontro fu molto cordiale. Malaparte mi
raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo
avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che
Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne
autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul
fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni
Strozzi».
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.«Sì,
e all'indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su
‘‘Rinascita'', accompagnata da un elogio vibrante del segretario
generale al valore e alla... sincerità di quel documento. Era anche
vicino, in quel periodo, ai servizi americani. Gli americani
controllavano Capri, che avevano occupato una ventina di giorni prima
della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a mettere in piedi un
corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le adesioni si
raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch'io. Naturalmente, non
se n'è fatto nulla».
La collaborazione con il Pci s'interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell'agosto 1944.«Già
qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti
influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i
trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle
proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non fu più in
condizione di difenderlo».
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell'epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.«È
probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello, il
che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel
partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione,
descritto ne ‘‘La pelle''. Alicata era diventato condirettore di un
quotidiano frontista, ‘‘La Voce'', e mi propose di fondare con altri due
compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio.
Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l'accoglienza
calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi
versi nell'anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei
poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e
pubblicò a Napoli, in edizione privata, alcuni dei suoi poemi più belli.
Ma con Malaparte erano tagliati tutti i ponti. Mi è capitato di
incontrarlo più di una volta nei corridoi della Camera, all'inizio degli
anni cinquanta. Io cominciavo la carriera politica e lui ci veniva come
giornalista. I nostri sguardi si sono incrociati, ma abbiamo evitato di
salutarci. Lei si deve ricollocare nella mentalità dell'epoca».
Fu il vostro ultimo contatto?«No,
ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel
1956-57, quando partì per l'Urss e la Cina e inviò delle corrispondenze
sempre scintillanti a ‘‘Vie Nuove'', diretto da Maria Antonietta
Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla
‘‘Sanatrix''».
Come l'accolse?«Nel
modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non
perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte. Sembrava
che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava
uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: ‘‘Che impressione mi ha
fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio...''».
Signor
Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza
di Malaparte? Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia
famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento
bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla
carestia, nell’inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a
vivere
e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista
intitolata «Latitudine», vicina ai comunisti ma indipendente, che
affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura
americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux.
Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte.
Quale fu la sua reazione?
Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani,
appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo
una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del
fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista
nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere
in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La
Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti.
Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il
pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla
clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di «Prospettive», che si
apriva con il grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato
Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le
corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha
scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo
passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo
sentivamo vicino a noi.
E il suo atteggiamento lo confermò?
Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare.
Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili
della federazione napoletana del pci, il che ne provocò la fine e
accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di
prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in
una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata
trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi
diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi
quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre
strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che
mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano.
Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale.
Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli.
Come si svolgevano i vostri incontri?
Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all’albergo Quisisana, che
era il suo punto d’incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di
Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell’isola, che
da un golfo immette sull’altro. Bisognava risalire una scalinata
intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai
bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a «Casa come Me»:
l’ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul
grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano
d’avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di
fronte all’immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più
impressionanti del Mediterraneo… La sua
conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo
ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che
affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo
indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco;
ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole.
Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e
l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di
Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo
più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata
dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A
Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante
l’Apocalisse», con riferimento alle devastazioni di Napoli. Purtroppo,
ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha
mai restituito.
Malaparte si era avvicinato al PCI in quel momento.
Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di
essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa!
Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall’Unione Sovietica, il 27
marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da
due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a
Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de «l’Unità»:
Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso
dell’11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova
politica del partito. L’incontro fu molto cordiale. Malaparte mi
raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo
avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che
Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne
autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul
fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni
Strozzi.
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
Sì, e all’indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su
«Rinascita», accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale
al valore e alla… sincerità di quel documento.
Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani.
Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina
di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a
mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le
adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch’io.
Naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La collaborazione con il PCI s’interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell’agosto 1944.
Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti
influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i
trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle
proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non
fu più in condizione di difenderlo.
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell’epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello,
il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel
partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione,
descritto ne La pelle. Alicata era diventato condirettore di un
quotidiano frontista, «La Voce», e mi propose di fondare con altri due
compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio.
Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l’accoglienza
calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi
versi nell’anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei
poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e
pubblicò a Napoli, in edizione privata,
alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i
ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della
Camera, all’inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera
politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono
incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare
nella mentalità dell’epoca.
Fu il vostro ultimo contatto?
No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel
1956-57, quando partì per l’urss e la Cina e inviò delle corrispondenze
sempre scintillanti a «Vie Nuove», diretto da Maria Antonietta
Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla
«Sanatrix».
Come l’accolse?
Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non
perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte.
Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava
uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: «Che impressione mi ha
fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio…».
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http://blog.marsilioeditori.it/2012/11/02/cesare-de-michelis-dal-presidente-giorgio-napolitano/#sthash.sOjBRFtN.dpuf
Signor
Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza
di Malaparte? Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia
famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento
bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla
carestia, nell’inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a
vivere
e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista
intitolata «Latitudine», vicina ai comunisti ma indipendente, che
affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura
americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux.
Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte.
Quale fu la sua reazione?
Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani,
appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo
una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del
fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista
nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere
in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La
Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti.
Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il
pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla
clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di «Prospettive», che si
apriva con il grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato
Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le
corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha
scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo
passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo
sentivamo vicino a noi.
E il suo atteggiamento lo confermò?
Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare.
Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili
della federazione napoletana del pci, il che ne provocò la fine e
accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di
prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in
una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata
trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi
diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi
quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre
strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che
mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano.
Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale.
Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli.
Come si svolgevano i vostri incontri?
Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all’albergo Quisisana, che
era il suo punto d’incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di
Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell’isola, che
da un golfo immette sull’altro. Bisognava risalire una scalinata
intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai
bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a «Casa come Me»:
l’ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul
grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano
d’avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di
fronte all’immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più
impressionanti del Mediterraneo… La sua
conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo
ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che
affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo
indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco;
ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole.
Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e
l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di
Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo
più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata
dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A
Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante
l’Apocalisse», con riferimento alle devastazioni di Napoli. Purtroppo,
ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha
mai restituito.
Malaparte si era avvicinato al PCI in quel momento.
Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di
essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa!
Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall’Unione Sovietica, il 27
marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da
due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a
Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de «l’Unità»:
Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso
dell’11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova
politica del partito. L’incontro fu molto cordiale. Malaparte mi
raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo
avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che
Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne
autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul
fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni
Strozzi.
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
Sì, e all’indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su
«Rinascita», accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale
al valore e alla… sincerità di quel documento.
Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani.
Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina
di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a
mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le
adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch’io.
Naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La collaborazione con il PCI s’interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell’agosto 1944.
Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti
influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i
trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle
proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non
fu più in condizione di difenderlo.
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell’epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello,
il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel
partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione,
descritto ne La pelle. Alicata era diventato condirettore di un
quotidiano frontista, «La Voce», e mi propose di fondare con altri due
compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio.
Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l’accoglienza
calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi
versi nell’anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei
poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e
pubblicò a Napoli, in edizione privata,
alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i
ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della
Camera, all’inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera
politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono
incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare
nella mentalità dell’epoca.
Fu il vostro ultimo contatto?
No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel
1956-57, quando partì per l’urss e la Cina e inviò delle corrispondenze
sempre scintillanti a «Vie Nuove», diretto da Maria Antonietta
Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla
«Sanatrix».
Come l’accolse?
Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non
perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte.
Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava
uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: «Che impressione mi ha
fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio…».
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Signor
Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza
di Malaparte? Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia
famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento
bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla
carestia, nell’inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a
vivere
e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista
intitolata «Latitudine», vicina ai comunisti ma indipendente, che
affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura
americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux.
Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte.
Quale fu la sua reazione?
Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani,
appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo
una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del
fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista
nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere
in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La
Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti.
Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il
pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla
clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di «Prospettive», che si
apriva con il grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato
Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le
corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha
scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo
passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo
sentivamo vicino a noi.
E il suo atteggiamento lo confermò?
Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare.
Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili
della federazione napoletana del pci, il che ne provocò la fine e
accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di
prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in
una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata
trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi
diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi
quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre
strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che
mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano.
Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale.
Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli.
Come si svolgevano i vostri incontri?
Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all’albergo Quisisana, che
era il suo punto d’incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di
Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell’isola, che
da un golfo immette sull’altro. Bisognava risalire una scalinata
intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai
bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a «Casa come Me»:
l’ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul
grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano
d’avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di
fronte all’immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più
impressionanti del Mediterraneo… La sua
conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo
ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che
affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo
indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco;
ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole.
Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e
l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di
Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo
più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata
dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A
Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante
l’Apocalisse», con riferimento alle devastazioni di Napoli. Purtroppo,
ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha
mai restituito.
Malaparte si era avvicinato al PCI in quel momento.
Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di
essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa!
Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall’Unione Sovietica, il 27
marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da
due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a
Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de «l’Unità»:
Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso
dell’11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova
politica del partito. L’incontro fu molto cordiale. Malaparte mi
raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo
avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che
Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne
autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul
fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni
Strozzi.
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
Sì, e all’indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su
«Rinascita», accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale
al valore e alla… sincerità di quel documento.
Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani.
Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina
di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a
mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le
adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch’io.
Naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La collaborazione con il PCI s’interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell’agosto 1944.
Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti
influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i
trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle
proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non
fu più in condizione di difenderlo.
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell’epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello,
il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel
partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione,
descritto ne La pelle. Alicata era diventato condirettore di un
quotidiano frontista, «La Voce», e mi propose di fondare con altri due
compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio.
Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l’accoglienza
calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi
versi nell’anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei
poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e
pubblicò a Napoli, in edizione privata,
alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i
ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della
Camera, all’inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera
politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono
incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare
nella mentalità dell’epoca.
Fu il vostro ultimo contatto?
No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel
1956-57, quando partì per l’urss e la Cina e inviò delle corrispondenze
sempre scintillanti a «Vie Nuove», diretto da Maria Antonietta
Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla
«Sanatrix».
Come l’accolse?
Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non
perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte.
Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava
uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: «Che impressione mi ha
fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio…».
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