sabato 29 ottobre 2016

La presunta morte di Cipputi



Articolo suggestivo, non saprei dire quanto veridico. Certe affermazioni paiono vere e non lo sono, infatti. Si è proprio estinto il proletariato industriale? Socialmente occupa meno spazio, non si colloca più al centro della scena, ma scomparso non è neppure da noi, figuriamoci poi in Cina o in Bangladesh. E anche con meno operai di fabbrica in giro, il lavoro resta tuttora un tema importante. Quello che è soprattutto mutato è il clima. Caduto il messianismo, rimane una visione disincantata che porta interrogarsi sul futuro della condizione umana nell'orbe terracqueo. Non sembra un tema tanto marginale, anche se in tempi postmoderni molti possono senza danno guardare altrove.  (Giovanni Carpinelli)



Diego Gabutti, La letteratura di fabbrica è invecchiata di colpo, Italia oggi, 29 giugno 2013

In una delle due prefazioni a Fabbrica di carta. I libri che raccontano l'Italia industriale, Laterza 2013, pp. 346, 20,00 euro, un libro a cura di Giuseppe Lupo e Giorgio Bigatti, il primo storico della letteratura alla Cattolica, il secondo storico dell'economia alla Bocconi, Giuseppe Lupo cita, ragionando «per paradossi», i «versi d'Inferno XXI, 11-15, che descrivono “l'arzanà de' veneziani”, il grande cantiere dove gli operai spalmano pece sulle carene delle navi, ravvolgono funi, modellano remi e chiglie con le pialle» come la più remota testimonianza della «letteratura industriale o letteratura di fabbrica».
Chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più vïaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte; / chi terzeruolo e artimon rintoppa.
Con letteratura industriale s'intendono la narrativa e (più raramente) la poesia che si sono occupate della produzione, dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e della condizione operaia. È una letteratura per lo più di denuncia: lo sfruttamento, gl'incidenti sul lavoro, la repressione poliziesca, il lavoro minorile. All'origine ci sono Charles Dickens ed Émile Zola, persino un po' Jules Verne con le sue Indie nere (una sottospecie di Germinale, il capolavoro di Zola su un grande sciopero dei minatori organizzato dai socialisti della Prima Internazionale). Prima ancora, originario, c'è il grandissimo reportage di Friedrich Engels, futuro socio al cinquanta per cento di Karl Marx nell'impresa del socialismo scientifico, sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra. Che non è un romanzo ma non è neppure un'inchiesta sociologica. Con largo anticipo su Tom Wolfe e Truman Capote, che con La baby aerodinamica kolor caramella e A sangue freddo fondarono il genere, La situazione della classe operaia in Inghilterra è new journalism: per metà letteratura, per metà racconto storico in presa diretta, grande eloquenza, retorica a badilate.
Da noi, dopo i Tre operai di Carlo Bernari che nel 1934 racconta una storia epica e commossa di lotte sindacali e proletarie che si svolge all'inizio del secolo, c'è stata una grande fioritura della letteratura d'ispirazione marxista, mai troppo devota agli ideali un po' monumentalistici del realismo socialista sovietico ma non di meno fortemente ideologizzata, tra l'accigliato e il predicatorio. Alcune storie operaie, tra quelle che Bigatti e Lupo ricordano nel loro libro con qualche pagina ben scelta, si sollevano sopra la routine evangelizzatrice: Una nuvola d'ira di Giovanni Arpino, La vita agra di Luciano Bianciardi, alcuni titoli (non tutti) di Vasco Pratolini, La nuvola di smog d'Italo Calvino, le storie di Vigevano di Lucio Mastronardi su su fino ai romanzi operai d'Antonio Pennacchi, forse un po' sopravvalutati. Oltre alla letteratura di fabbrica d'ispirazione marxleninista — il cui punto più alto (a mio giudizio, e posso sbagliare) è stato Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, che nel 1971 (scontate i birignao tecnici, tipo l'assenza di punteggiatura e altre uggiose licenze sperimentaliste) riuscì a coniugare Emilio Salgari con l'autunno caldo in un romanzo insieme realistico e scanzonato — ci fu anche la letteratura industriale d'ispirazione «olivettiana», da Adriano Olivetti, magnate delle macchine da scrivere e guru ante litteram dell'antipolitica e della democrazia diretta. Mentre gli scrittori devoti alla vulgata marxista vogliono abbattere il capitalismo, e il proletariato industriale è la leva con la quale si propongono d'annientarlo, come già Engels nel suo libro sul proletariato inglese, gli autori d'obbedienza olivettiana, più moderati ma non più teneri con «lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo», vogliono invece soltanto «superare» il capitalismo (cosa voglia dire, non si sa).
Di questa letteratura particolare, salvo qualche titolo qua e là, che si può ancora leggere con profitto ma anche con fatica, non rimane granchè. C'è da dubitare che Italo Calvino sarà ricordato, in futuro, per Una nuvola di smog invece che per I nostri antenati. Legata com'era a una Weltanschauung, all'epoca dominante ma oggi tramontata con l'estinzione del proletariato industriale, la letteratura di fabbrica è invecchiata di colpo e non spiega più niente, quando la sua ambizione — la stessa dell'arte sacra — era spiegare tutto.


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