Ci sono sempre su Internet delle belle cose che passano quasi inosservate. Cercavo oggi qualche estratto dalla biografia di Ingrid Bergman. Non sono riuscito a trovarlo. Mi sono imbattuto invece in una voce di enciclopedia che aveva per oggetto l’attrice svedese. Mi è sembrata un piccolo gioiello. Conteneva il percorso biografico dell’attrice. si pronunciava va via via sul valore delle sue apparizioni cinematografiche e teatrali: ne veniva fuori un ritratto della persona, di ciò che era stata e un quadro ben congegnato di ciò che la Bergman medesima aveva significato nella storia del cinema. Spesso anche tra gli studiosi si pensa che la verità stia nei documenti che giacciono negli archivi, nei diari inediti, nella corrispondenza, in foto mai rese pubbliche. Eppure che cosa è stata Ingrid Bergman per gli spettatori dei tanti film da lei interpretati non è propriamente un segreto. Ore e ore di cinema lo lasciano intuire senza tante difficoltà. Ci potranno poi essere e ci sono gli approfondimenti critici. Ciò non toglie che la verità elementare dei fatti è perfettamente accessibile. Si tratta di guardare con attenzione, annotare con scrupolo e riferire. E’ quanto ha fatto Monica Trecca nel testo che segue.
Monica Trecca
BERGMAN, Ingrid
Enciclopedia del cinema, 2003Attrice cinematografica e teatrale svedese, nata a Stoccolma il 29 agosto 1915 e morta a Londra nel 1982 nello stesso giorno della sua nascita. A partire dagli anni Quaranta si era imposta negli Stati Uniti come star profondamente amata, acclamata in tutto il mondo come una delle più raffinate interpreti della storia del cinema, in parti che sono patrimonio dell’immaginario e che le valsero sette nominations e tre premi Oscar oltre a numerosi altri prestigiosi riconoscimenti anche per i suoi ruoli teatrali. Dotata di una luminosa bellezza e di una grande sensibilità, fu sempre pronta a rimettersi in discussione, incapace di rimanere prigioniera di ruoli circoscritti e prefissati nella vita privata come in quella professionale.
La sua infanzia era stata funestata da lutti dolorosi: a soli due anni aveva perso la madre (la tedesca Frieda Adler), a dodici il padre (un fotografo che le aveva insegnato il gusto di posare), quindi la zia che l’aveva allevata. Cresciuta nella famiglia dello zio paterno, nel 1933 entrò a far parte della scuola del Dramatiska Teater di Stoccolma. Ottenne quindi una breve parte in un film di Gustaf Molander e in poco tempo si affermò come giovane promessa del cinema svedese. Dopo essersi sposata nel 1937 con un medico, Petter Aron Lindström, e aver girato un film in Germania, nel 1939 giunse negli Stati Uniti chiamata dal produttore David O. Selznick, colpito dalla sua interpretazione in Intermezzo (1936), ancora di Molander. Ottenuto un personale successo con il remake del film svedese, diretto in quello stesso anno da Gregory Ratoff, e dopo due film non memorabili, la B. decise di imprimere una prima svolta alla sua carriera per sfuggire alla prigione hollywoodiana costituita dai ruoli rassicuranti della dolce eroina romantica dal sorriso radioso. Scelta per interpretare la fidanzata remissiva nel nuovo film di Victor Fleming Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1941; Il dottor Jekyll e Mr Hyde), al fianco di Spencer Tracy, s’impose per ottenere il ruolo di Ivy, la spregiudicata cameriera dapprima salvata da Jekyll e poi tormentata da Hyde in una claustrofobica prigione di paura. Furono quelli anni segnati da clamorosi successi (proprio in corrispondenza con il ritiro dalle scene dell’altra grande attrice svedese Greta Garbo) che ne fecero la diva più ammirata dal pubblico, quasi venerata come modello di perfezione, madre e moglie esemplare. A consacrare la sua affermazione fu Casablanca, diretto nel 1942 da Michael Curtiz e destinato nel tempo a divenire il film culto per eccellenza, che la vide accanto a Humprey Bogart e nel quale le incertezze sul set circa l’andamento della storia e il finale sembrano sublimarsi nell’interpretazione della B., tormentata fino all’ultimo tra la scelta d’amore e quella del dovere. Egualmente intenso fu il pathos recitativo che seppe esprimere in Gaslight (1944; Angoscia) di George Cukor, interpretando una donna condotta sull’orlo della pazzia dal marito (Charles Boyer), ruolo per il quale ottenne il suo primo Oscar nel 1945. Ma anche i film meno riusciti come For whom the bell tolls (Per chi suona la campana) diretto nel 1943 da Sam Wood, patinata versione del romanzo di E. Hemingway, che aveva indicato proprio in Ingrid l’interprete ideale della sua Maria, e il successivo Saratoga trunk (1945; Saratoga), pastiche romantico sempre diretto da Wood e ancora accanto a Gary Cooper, le procurarono comunque un enorme successo di pubblico e l’apprezzamento dei critici. Fu però Alfred Hitchcock, conquistato dalla sensualità apparentemente mascherata di freddezza della B., a comprenderne più profondamente la complessità di donna e di artista. Così dapprima riuscì a modellare sulla sua severità affascinante il personaggio della razionale psicoanalista che si abbandona all’amore in Spellbound (1945; Io ti salverò). Quindi le offrì di animare di profonda umanità il ruolo, costruito per lei, di Alicia Huberman protagonista di Notorious (1946; Notorious ‒ L’amante perduta). In quella parte l’attrice seppe esprimere tutta la sua personale inquietudine, riuscendo a far affiorare, grazie anche all’intesa con il partner Cary Grant, la ricchezza di emozioni che attraversano la storia d’amore al centro di una cupa vicenda di spionaggio venata di ambiguità: bisogno di fiducia, dolorosa diffidenza, desiderio di riscatto. Successivamente, malgrado la gioia di portare a teatro il suo personaggio preferito, Giovanna d’Arco, interpretando il dramma di Maxwell Anderson, sia Arch of Triumph (1948; Arco di Trionfo) di Lewis Milestone, sia la stessa riduzione cinematografica del testo di Anderson per la regia di Fleming (Joan of Arc, 1948, Giovanna d’Arco: ridondante epopea medioevale in cui a venire santificata era la diva), e persino Under Capricorn (1949; Sotto il Capricorno o Il peccato di Lady Considine), girato in Inghilterra con la regia dell’amico Hitchcock, che volle valorizzare l’intensità della sua interpretazione con lunghi e insistiti piani-sequenza, la lasciarono insoddisfatta. Professionista rigorosa, profondamente innamorata del suo lavoro, sentiva la necessità di misurarsi con esperienze artistiche più stimolanti. Colpita dalla visione di Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini, la cui poetica avvertiva così lontana dagli stereotipi hollywoodiani, l’attrice scrisse al regista italiano desiderosa di lavorare con lui. I film che a seguito di ciò interpretò in Italia appartengono a un mondo immaginativo e artistico completamente diverso da tutto ciò che la B. aveva realizzato sin lì, e il drammatico impatto tra la straniera protagonista di Stromboli ‒ Terra di Dio (1950) e l’aspra terra di Sicilia ne è quasi un metaforico manifesto. L’attrice conferì quindi intenso spessore alla Irene di Europa ’51 (1952), singolare attualizzazione al femminile della figura di San Francesco, tratteggiata sul limite tra pazzia e santità; mentre in Viaggio in Italia (1954) anticipò con rarefatta sensibilità futuri ritratti di donne prigioniere dell’angoscia dell’esistere, suscitando l’entusiasmo dei critici dei “Cahiers du cinéma”. Sempre per la regia di Rossellini, la B. era inoltre apparsa nel solare episodio Ingrid Bergman di Siamo donne (1953), ricco di humour, che la vede nei panni di sé stessa alla caccia di una gallina, e in La paura (1954), girato a Monaco di Baviera, disegnò invece una figura femminile estremamente moderna che però all’epoca non venne compresa. Fu ancora una splendida Giovanna d’Arco nell’oratorio Giovanna d’Arco al rogo di P. Claudel e A. Honegger, portato in tournée in numerose città d’Italia e d’Europa e da cui Rossellini trasse un film (1954) con il medesimo titolo, capolavoro di cinema sul teatro. Ma il sodalizio artistico e sentimentale tra l’attrice e il regista (che si erano sposati per procura in Messico nel 1950) aveva suscitato un enorme scandalo soprattutto negli Stati Uniti ove era stato vissuto come il tradimento di un’immagine, provocando un vero ostracismo morale e violente stroncature del lavoro dell’attrice e del regista. Esauritosi ormai anche il rapporto tra i due (il matrimonio verrà annullato nel 1958 e l’attrice si risposerà con l’impresario teatrale svedese Lars Schmidt), la B. tornò a recitare con altri registi, e prima Jean Renoir con Eléna et les hommes (Eliana e gli uomini) e quindi Anatole Litvak con Anastasia, entrambi del 1956, la restituirono al pubblico e alla critica in ruoli assai vicini a quelli che l’avevano resa famosa a Hollywood. In particolare, il personaggio della presunta ultimogenita di Nicola II le valse il secondo Oscar (1957) che segnò la riconciliazione tra gli Stati Uniti e la diva ritrovata. Seguì la commedia sofisticata Indiscreet (1958; Indiscreto) di Stanley Donen in cui la B. interpreta un’attrice di successo, sorta di suo sorridente doppio. I film successivi non le offrirono in quegli anni ruoli di grande spessore, mentre ottenne soddisfazioni in opere teatrali di successo: da Edda Gabler di H. Ibsen, recitata in francese, a More stately mansions di E. O’Neill, a The constant wife di W.S. Maugham. Per il cinema fu invece la missionaria laica di The inn of the sixth happiness (1958; La locanda della sesta felicità) di Mark Robson; la malinconica protagonista di Goodbye again (1961; Le piace Brahms?) ancora di Litvak; l’interprete dell’ultimo episodio di The yellow Rolls-Royce (1964; Una Rolls-Royce gialla) di Anthony Asquith e di uno degli episodi di Stimulantia (1967) diretto dal regista che l’aveva lanciata, Molander. E ancora l’efficiente e apparentemente glaciale infermiera della commedia Cactus flower (1969; Fiore di cactus) di Gene Saks, che segnò il suo ritorno a Hollywood. Con la breve eppure perfetta interpretazione della missionaria svedese in Murder on the Orient-Express (1974; Assassinio sull’Orient-Express) di Sidney Lumet, ripresa in un unico piano-sequenza, si aggiudicò il terzo Oscar nel 1975. L’anno successivo accettò di prendere parte ad A matter of time (Nina), ultimo film diretto da Vincente Minnelli, dolente e malinconica riflessione sulla fama e sulla paura della solitudine e del declino. Nel 1978 la B. offrì una delle sue più toccanti prove interpretando, per la regia di Ingmar Bergman, una grande pianista che al successo ha sacrificato il rapporto con i figli in Höstsonaten (Sinfonia d’autunno), ruolo nel quale seppe dare tanto di sé, del dubbio doloroso che l’aveva sempre tormentata di aver trascurato soprattutto la figlia Pia, avuta dal primo marito (altri tre erano nati dal legame con Rossellini). Anche l’ultimo suo ritratto di donna, protagonista di uno sceneggiato per la televisione, la bruna Golda Meir, dai tratti marcati, fisicamente tanto lontana da lei, così alta e chiara, fu un’ennesima prova di bravura nella quale l’attrice, ormai molto malata, seppe trasfondere la comprensione per questo personaggio forte, dalle scelte dure e difficili. La morte sopraggiunse infatti solo pochi mesi più tardi, al termine di una lunga e coraggiosa lotta contro la malattia.In precedenza, nel 1980, aveva pubblicato l’autobiografia, Ingrid Bergman, my story, alla cui stesura aveva collaborato lo scrittore A. Burgess.
Bibliografia
J.H. Steele, Ingrid Bergman, an intimate portrait, New York 1959.
C.F. Brown, Ingrid Bergman, New York 1973 (trad. it. Milano 1981).
E. Schaake, Ingrid Bergman: ihr Leben, München 1980.
L.J. Quirk, The complete films of Ingrid Bergman, New York 1989.
D. Spoto, Notorious: the life of Ingrid Bergman, New York 1997 (trad. it. Torino 2000).
http://www.film.it/film/foto/dettaglio/art/ingrid-bergman-la-regina-di-cannes-42846/
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