venerdì 31 dicembre 2021

Oh Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo?

 

Una dichiarazione d’amore tra le più famose nella storia della letteratura. Le possiamo attribuire anche il valore di un richiamo per noi all’importanza permanente dell’eros. Rappresenta poi un modo per guardare con altri occhi al mondo attuale.
Pensiamo dalla solitudine,  fenomeno molto diffuso nella società degli individui. Come si esce dalla solitudine? Attraverso la fusione/immersione in un gruppo: è una possibilità. Oppure attraverso il rapporto con l’altro. Nella sua forma più esaltante questo rapporto implica lo slancio erotico, il desiderio e anche al tempo stesso il dono: il bisogno di uscire da noi stessi andando incontro all’altro, simile e complementare. Un altro che ci valorizza. Da qui l’impulso al dono, la generosità. E l’approdo alla trascendenza, ossia a qualcosa che va oltre noi stessi e oltre il tempo.
Tutto questo e molto altro c’è nelle parole di Giulietta a Romeo. Grandezza di Shakespeare: Bandello aveva già raccontato quella storia, ma il rapporto tra gli amanti nella sua versione era molto più banale. 


Matteo Bandello 

Andava spesso di notte Romeo ed in quella vietta si fermava, sí perché quel camino non era frequentato ed altresí perché stando per iscontro a la finestra sentiva pur talora la sua innamorata parlare. Avvenne che essendo egli una notte in quel luogo, o che Giulietta il sentisse o qual se ne fosse la cagione, ella aprí la finestra. Romeo si ritirò dentro il casale, ma non sí tosto ch’ella nol conoscesse, perciò che la luna col suo splendore chiara la vietta rendeva. Ella che sola in camera si trovava, soavemente l’appellò e disse: – Romeo, che fate voi qui a quest’ore cosí solo? Se voi ci foste còlto, misero voi, che sarebbe de la vita vostra? Non sapete voi la crudel nemistá che regna tra i vostri e i nostri e quanti giá morti ne sono? Certamente voi sareste crudelmente ucciso, del che a voi danno e a me poco onore ne seguirebbe. – Signora mia, – rispose Romeo, – l’amor ch’io vi porto è cagione ch’io a quest’ora qui venga; e non dubito punto che se dai vostri fossi trovato, ch’essi non cercassero d’ammazzarmi. Ma io mi sforzarei per quanto le mie deboli forze vagliano, di far il debito mio, e quando pure da soverchie forze mi vedessi avanzare, m’ingegnerei non morir solo. E devendo io ad ogni modo morire in questa amorosa impresa, qual piú fortunata morte mi può avvenire che a voi vicino restar morto? Che io mai debbia esser cagione di macchiar in minimissima parte l’onor vostro, questo non credo che avverrá giá mai, perché io per conservarlo chiaro e famoso com’è mi ci affaticherei col sangue proprio. Ma se in voi tanto potesse l’amor di me come in me di voi può il vostro, e tanto vi calesse de la vita mia quanto a me de la vostra cale, voi levareste via tutte queste occasioni e fareste di modo che io viverei il piú contento uomo che oggidí sia. – E che vorreste voi che io facessi? – disse Giulietta. – Vorrei, – rispose Romeo, – che voi amassi me com’io amo voi e che mi lasciaste venir ne la camera vostra, a ciò che piú agiatamente e con minor pericolo io potessi manifestarvi la grandezza de l’amor mio e le pene acerbissime che di continovo per voi soffro. – A questo Giulietta alquanto d’ira accesa e turbata gli disse: – Romeo, voi sapete l’amor vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa persona amare, e forse piú di quello che a l’onor mio si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me godere oltra il convenevole nodo del matrimonio, voi vivete in grandissimo errore e meco punto non sarete d’accordio. E perché conosco che praticando voi troppo sovente per questa vicinanza potreste di leggero incappare negli spiriti maligni ed io non sarei piú lieta giá mai, conchiudo che se voi desiderate esser cosí mio come io eternamente bramo esser vostra, che debbiate per moglie vostra legitima sposarmi. Se mi sposarete, io sempre sarò presta a venir in ogni parte ove piú a grado vi fia. Avendo altra fantasia in capo, attendete a far i fatti vostri e me lasciate nel grado mio vivere in pace. – Romeo che altro non bramava, udendo queste parole, lietamente le rispose che questo era tutto il suo disio e che ogni volta che le piacesse la sposeria in quel modo che ella ordinasse.

William  Shakespeare

GIULIETTA: O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all’amor mio, ed io non sarò più una Capuleti.

ROMEO (fra sé): Starò ancora ad ascoltare, o rispondo a questo che ha detto?

GIULIETTA: Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa “Montecchi”? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un’altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! Che cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa.

ROMEO: Io ti piglio in parola: chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato; da ora innanzi non sarò più Romeo.

GIULIETTA: Chi sei tu che, così protetto dalla notte, inciampi in questo modo nel mio segreto?

ROMEO: Con un nome io non so come dirti chi sono. Il mio nome, cara santa, è odioso a me stesso, poiché è nemico a te: se io lo avessi qui scritto, lo straccerei.

GIULIETTA: L’orecchio mio non ha ancora bevuto cento parole di quella voce, ed io già ne riconosco il suono. Non sei tu Romeo, e un Montecchi?

ROMEO: Né l’uno né l’altro, bella fanciulla se l’uno e l’altro a te dispiace.

GIULIETTA: Come sei potuto venir qui, dimmi, e perché? I muri del giardino sono alti, e difficili a scalare, e per te, considerando chi sei, questo è un luogo di morte, se alcuno dei miei parenti ti trova qui.

ROMEO: Con le leggere ali d’amore ho superati questi muri, poiché non ci sono limiti di pietra che possano vietare il passo ad amore: e ciò che amore può fare, amore osa tentarlo; perciò i tuoi parenti per me non sono un ostacolo.

GIULIETTA: Se ti vedono, ti uccideranno.

ROMEO: Ahimè! c’è più pericolo negli occhi tuoi, che in venti delle loro spade: basta che tu mi guardi dolcemente, e sarò a tutta prova contro la loro inimicizia.

GIULIETTA: Io non vorrei per tutto il mondo che ti vedessero qui.

ROMEO: Ho il manto della notte per nascondermi agli occhi loro; ma a meno che tu non mi ami, lascia che mi trovino qui: meglio la mia vita terminata per l’odio loro, che la mia morte ritardata senza che io abbia l’amor tuo.

GIULIETTA: Chi ha guidato i tuoi passi a scoprire questo luogo?

ROMEO: Amore, il quale mi ha spinto a cercarlo: egli mi ha prestato il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Io non sono un pilota: ma se tu fossi lontana da me, quanto la deserta spiaggia che è bagnata dal più lontano mare, per una merce preziosa come te mi avventurerei sopra una nave.

GIULIETTA: Tu sai che la maschera della notte mi cela il volto, altrimenti un rossore verginale colorirebbe la mia guancia, per ciò che mi hai sentito dire stanotte. Io vorrei ben volentieri serbare le convenienze; volentieri vorrei poter rinnegare quello che ho detto: ma ormai addio cerimonie! Mi ami tu? So già che dirai “sì”, ed io ti prenderò in parola; ma se tu giuri, tu puoi ingannarmi: agli spergiuri degli amanti dicono che Giove sorrida. O gentile Romeo, se mi ami dichiaralo lealmente; se poi credi che io mi sia lasciata vincere troppo presto, aggrotterò le ciglia e farò la cattiva, e dirò di no, così tu potrai supplicarmi; ma altrimenti non saprò dirti di no per tutto il mondo. E’ vero, bel Montecchi, io son troppo innamorata e perciò la mia condotta potrebbe sembrarti leggera. Ma credimi, gentil cavaliere, alla prova io sarò più sincera di quelle che sanno meglio di me l’arte della modestia. Tuttavia sarei stata più riservata, lo devo riconoscere, se tu, prima che io me n’accorgessi, non avessi sorpreso l’ardente confessione del mio amore: perdonami dunque e non imputare la mia facile resa a leggerezza di questo amore, che l’oscurità della notte ti ha svelato così.

ROMEO: Fanciulla, per quella benedetta luna laggiù che inargenta le cime di tutti questi alberi, io giuro…

GIULIETTA: Oh, non giurare per la luna, la incostante luna che ogni mese cambia nella sua sfera, per timore che anche l’amor tuo riesca incostante a quel modo.

ROMEO: Per che cosa devo giurare?

GIULIETTA: Non giurare affatto; o se vuoi giurare, giura sulla tua cara persona, che è il dio idolatrato dal mio cuore, ed io ti crederò.

ROMEO: Se il caro amore del cuor mio…

GIULIETTA: Via, non giurare. Benché io riponga in te la mia gioia, nessuna gioia provo di questo contratto d’amore concluso stanotte: è troppo precipitato, troppo imprevisto, troppo improvviso, troppo somigliante al lampo che è finito prima che uno abbia il tempo di dire “lampeggia”. Amor mio, buona notte! Questo boccio d’amore, aprendosi sotto il soffio dell’estate, quando quest’altra volta ci rivedremo, forse sarà uno splendido fiore. Buona notte, buona notte! Una dolce pace e una dolce felicità scendano nel cuor tuo, come quelle che sono nel mio petto.

ROMEO: Oh! mi lascerai così poco soddisfatto?

GIULIETTA: Quale soddisfazione puoi avere questa notte?

ROMEO: Il cambio del tuo fedele voto di amore col mio.

GIULIETTA: Io ti diedi il mio, prima che tu lo chiedessi; e tuttavia vorrei non avertelo ancora dato.

ROMEO: Vorresti forse riprenderlo? Per qual ragione, amor mio?

GIULIETTA: Solo per essere generosa, e dartelo di nuovo. Eppure io non desidero se non ciò che possiedo; la mia generosità è sconfinata come il mare, e l’amor mio quanto il mare stesso è profondo: più ne concedo a te, più ne possiedo, poiché la mia generosità e l’amor mio sono entrambi infiniti.

 

giovedì 30 dicembre 2021

La donna della domenica



 
Luigi Firpo, La donna della domenica. Giallo a Torino, La Stampa, 25 aprile 1972  

Non mi resta nella giornata molto tempo per leggere romanzi. E quelli che mi capita di leggere non suscitano in me troppi rimpianti per gli altri che sfrecciano sotto gli occhi, copertine multicolori, nudi titoli […] Le parole ci sono, magistrali talvolta: mancano le cose da dire.

Ben venga dunque questo grosso racconto di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La donna della domenica, scritto a due mani senza un’incrinatura né un percepibile salto di stile, che si degusta pagina per pagina con complicità maliziosa e si vorrebbe poter leggere tutto d’un fiato, tanto si impossessa di noi con i suoi ironici sortilegi. Non vorrei che qualcuno lo guardasse con sufficienza o se ne sbrigasse alla brava, trattandolo da sottoprodotto di letteratura poliziesca. Certo è la storia di due misteriosi delitti e il più simpatico dei tanti protagonisti è un commissario di polizia siciliano. In ogni caso non si tratta di “giallo” alla britannica, gremito di enigmatici sospetti e di angosce notturne, né di un “giallo” made in Usa, carico di esplosiva violenza e tutto risolto nell’azione: semmai si potrebbe richiamare Simenon e il suo lentissimo scavo psicologico tra velleità contuse e reticenze risentite, sullo sfondo di grigie città di provincia.

L’intreccio non ha nulla di artificioso o di gratuito: la macchina complessa muove i suoi rotismi con una naturalezza quasi fisiologica, l’ingegnosità è tanto sottile da mimetizzarsi totalmente. Ne deriva un intrigo tanto capillare da apparire casuale, da identificarsi con il caso stesso nella sua gratuità pura. Personaggi si incrociano, sfiorano, urtano, estranei in gran parte l’un l’altro, eppure connessi da sotterranei fili; tutti si implicano e compromettono vicendevolmente, ignorandosi, come appunto accade nella vita. I conati più diversi si intersecano, guidati ciascuno da una sua interna razionalità, ma volti a scopi illusori, settorialmente angusti: l’esito non è perciò l’ordine, ma il caos, un brulichio d’insetti multicolori.

La difficoltà dell’indagine risolutrice sta appunto in questa sfuggente logica dell’insieme, nella regìa di una rappresentazione in cui troppi personaggi recitano a soggetto. Il segreto filo conduttore non è tanto l’intreccio, quanto il giocare con la sostanziale ambiguità di ogni comportamento e parola: l’artificio scontato della suspense tradizionale, cioè la moltiplicazione dei possibili indiziati attraverso illusori sospetti (fino a celare il vero colpevole sotto le spoglie più candide e insignificanti) qui si rende superfluo. Sono le cose in sé che offrono significati molteplici, non in quanto soggettivamente elusive, ma perché oggettivamente polimorfe. […]

A questo gioco scontato fa da sfondo una Torino che sembra di toccare tanto è vera – muri, atmosfere, strade, botteghe, gente per via – messa a nudo con realismo impietoso. Ogni lettore che ci abiti non potrà fare a meno di ravvisarvi il ritratto di un vicino di casa,di un compagno di lavoro. Questa città individualista e reticente, rimasta a mezza via tra passato e futuro, sterminata periferia industriale che sommerge il centro storico risorgimentale e i quartieri perbene dei burocrati umbertini senza trovare idee e slancio da metropoli del Duemila, è uno scenario ideale per rappresentare alienazioni e compromessi, snobismi e luoghi comuni, l’affollamento disorganico e l’incomunicabilità. E’ una Torino vera fino alla sfumatura dialettale dei diversi ceti o al dettaglio topografico; ogni particolare vi è perfettamente riconoscibile e collima. […] qui uno dei protagonisti, la prima vittima, abita in una delle ultime trincee del perbenismo piccolo borghese, in via Peyron, e ha un pied-à-terre in via Mazzini, in uno di quei cortili declassati e promiscui in cui si ravvisano a stento i relitti di un funereo decoro ottocentesco. E’ una Torino vista con occhi impietosi, anonima e involgarita, frustrata e sterilmente ironica, fra l’esibizionismo di incolti dirigenti industriali che investono rotonde gratifiche in dipinti falsi e l’ostinazione di vecchi rentiers che difendono con espedienti e finzioni le parvenze di un’agiatezza perduta. 

Quasi sintetizzando la loro insofferenza per questi provincialismi e grettezze, gli autori sembrano denunciare con animosità eccessiva “difetti e virtù di una Torino sepolta di fresco o comunque in rapida decomposizione: la parsimonia, ma incancrenita nei modi del morto di fame; il riserbo, ma degradato a losca elusività; il conformismo, ma fermentato in progressive purulenze; la cortesia, ma liquefatta in adulazione; il vecchio stile, ma mangiato dai vermi di abbiette civetterie, di atroci vezzi*”. Sono parole molto dure, ma tutto il racconto poi le discioglie in impercettibili compiacimenti e tenerezze, si abbandona a vibrazioni di luce, suoni indistinti, lembi di cielo, prospettive consuete, fino a tradire in modo quasi commovente, sotto la censura dell’intelligenza, il moto segreto del cuore e un amore inconfessato, trepidante di pudore e di gelosia. Perciò, anche dove Fruttero e Lucentini graffiano e pungono con capricciose perfidie e allusioni impietose, il tono generale resta quello stimolante dell’arguzia, senza le verghe sanguinose della  satira.

Tante altre cose ci sarebbero da dire di questo libro così vivo d’intelligenza e così intriso d’ironia, che si vorrebbe poter leggere d’un fiato e che si depone col rammarico della fine, come di chi guarda il cielo nero dopo che l’ultimo fuoco d’artificio s’è spento: segno che è un romanzo vero e non solo un “giallo” di cui si legga frettolosamente l’ultima pagina tanto per sapere chi è l’assassino. L’ultima pagina poi, anzi, per l’esattezza, l’ultima riga, rappresenta la più pudica e allusiva narrazione di un adulterio nelle letterature di tutti i tempi, il che, in epoca di erotismi ostinati e triviali, non è cosa da poco. 

Quanto a me, sono grato agli autori per avermi liberato da un complesso inibitorio: grazie a loro dopo tanti gratuiti arzigogoli e noie mortali, posso dire di aver letto finalmente un libro divertente. E, alla buon’ora, non me ne vergogno.


http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,3/articleid,0142_01_1972_0097_0003_4983896/

* F&L stanno parlando dell’architetto Garrone e attribuiscono in realtà a lui le caratteristiche elencate.

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Attorno ai personaggi principali ruotano numerose altre figure, delle più diverse estrazioni sociali: le anziane sorelle Tabusso, rintanate con la domestica nella loro villa in collina, assediata da un florido traffico di prostitute e clienti; il gallerista Vollero che, pur temendo di essere scoperto dai suoi clienti, si rifornisce di cornici al Balon; l’americanista Bonetto, un intellettuale immaturo, perso dietro improbabili, inutili (e probabilmente immaginarie) schermaglie culturali con odiati colleghi. Per tale ricchezza di personaggi e per la profondità dell’analisi psicologica il romanzo costituisce un vivido ritratto della società torinese di quegli anni. [Wikipedia]

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Giovanni Damele, Facebook, 20 settembre 2024

Quando ero all’università, andavo dallo stesso tabacchino di Lucentini. Cioè, ero andato per caso, una volta, da quel tabacchino all’angolo di piazza Vittorio e ci avevo trovato Lucentini, che viveva lì accanto. E da allora ci andavo sempre sperando di ritrovarcelo ancora (accadde, al massimo, ancora un paio di volte in 4 anni). Lui comprava Gitanes senza filtro, che avevano un pacchetto caratteristico (una specie di grande scatola di fiammiferi con la gitana nera che danzava su uno sfondo blu, avvolta in spire di fumo bianco), io il tabacco e le cartine Gauloises, che mi sembravano degne di uno studente di filosofia a Torino (per uno che aveva fatto il liceo a Savona, era un po’ come passare da Marsiglia a Parigi, si parva licet). F&L li scoprii negli anni dell’università. Per me, liceale di provincia e ancor di più del Ponente ligure, Torino era il Calvino degli anni dell’Einaudi o, al massimo, Pavese. Da quando lessi La donna della domenica, per me Torino è rimasta, e sarà sempre, F&L. Sembrava anche un po’ impossibile, ai miei occhi, che due torinesi avessero uno sguardo così meravigliosamente scettico e ironico su Torino e la sua società. Era un punto di vista un po’ minoritario, un po’ laterale, ma che avrei trovato anche in un mio grande maestro: Carlo Augusto Viano. Ma c’era, ovviamente, un’altra cosa che, all’inizio, non sapevo. E cioè che Lucentini non era torinese, e che quella meravigliosa combinazione tra un torinese tutto sommato abbastanza tipico e un romano alquanto atipico era stata indispensabile per dar vita a quel libro perfetto e, più in generale, a quell’ingranaggio infallibile che era la loro prosa. Lucentini mi stava istintivamente più simpatico. Un giorno lessi che da giovane liceale aveva lanciato a scuola dei volantini con degli slogan antifascisti, ma per non indulgere in una retorica uguale e contraria, su alcuni aveva scritto “viva la fica”. Divenne un mio eroe. Negli anni dell’impegno furono accusati di qualunquismo, ma negli anni dell’impegno chi era più qualunquista: loro o chi li accusava? Per me, la risposta divenne abbastanza semplice. Soprattutto osservando i miei compagni di università che frequentavano i famosi “centri sociali” torinesi. Ho letto tanto di F&L, ma nulla è entrato a far parte del mio canone personale come La donna della domenica e A che punto è la notte, i loro due romanzi più torinesi. E anche se la mia Torino è stata quella degli anni 90, e non quella dei romanzi, alla fine un pezzetto di quella città l’ho condiviso con loro e sento che senza F&L non sarebbe diventata una delle “mie” città. Oggi sarebbe il compleanno di Fruttero.


mercoledì 29 dicembre 2021

Pasolini novax

 


 

Fulvio Abbate, Pasolini improbabile icona no-vax, Huffington Post, 6 dicembre 2021

Pier Paolo Pasolini icona no-vax? Improbabile. Ai morti non andrebbero attribuiti pensieri postumi. O almeno così eleganza pretende. Chi ha detto che Pasolini porterebbe attualmente in piazza la sua voce, a protestare contro la “dittatura sanitaria”, magari accanto a chi affermi che l’epidemia del Covid-19 nasconda un complotto globale? Sulla bacheca social di persone (presumibilmente) ostili al vaccino e, così ancora c’è da immaginare, alla “schedatura” del green pass, scorgo, incorniciate con partecipata commozione retorica zoppicante, alcune affermazioni che appartengono proprio a Pier Paolo Pasolini, espressamente riferite alla sua rivolta a oltranza contro l’omologazione consumistica, nel rifiuto del “progresso”, parole storicamente datate e connotate, sia detto per chiarezza:

“Io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma inespressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo”.

Le ho riportate quasi per esteso poiché, sia pure in filigrana, mostrano, così temo, la cifra principale che scandirà il prossimo - la ricorrenza cade il 5 marzo 2022 – ormai imminente anniversario della nascita del più evidente poeta “civile” del trascorso secolo; Antonio Gramsci, politico e filosofo comunista, tra i suoi riferimenti perfino poetici.

Cento anni esatti, proprio così. Eppure ad alcuni di noi sembra ieri che ne leggevamo le invettive politiche, le riflessioni di segno antropologico (si pensi all’articolo “contro i capelloni”) sul “Corriere della Sera”, partecipando al dibattito collettivo sullo “scandalo”, parola ormai desueta, che giungeva anche dai suoi film, “Il Decameron” su tutti.

Essere fraintesi appartiene alle prevedibili eventualità dell’umano; ancora più da morti, da trapassati, fraintesi e insieme travisati.

La persona in carne e ossa Pasolini è assente al mondo dal novembre del 1975. Nei decenni che hanno fatto seguito alla sua scomparsa, lo scrittore, il polemista, il poeta “corsaro”, il regista, è stato evocato in modo puntuale e continuo, fra molto altro, per quel suo atto di denuncia: “Io so i nomi”, riferito alle menzogne di Stato sulle stragi: Piazza Fontana e oltre. E ancora per una nostalgia riferita al tempo delle “lucciole”, il mondo pre-industriale, contadino; e ancora, altrettanto, così da destra, per il suo rifiuto dell’aborto.

Infine, su tutto, appunto, come cadavere sfigurato sullo spiazzo sterrato dell’Idroscalo di Ostia, la sconfitta della sua “disperata vitalità”, bulimica omosessualità venata perfino di masochismo, come mostrano alcune pagine di “Petrolio”.

Un caso in chiaroscuro di cronaca criminale, da osservare muovendo da dubbi, ragioni e tecnica spicciola di un assassinio che lo vede “martire” per alcuni, esempio di “depravazione” per altri, come nelle invettive fotografiche che gli riservava il settimanale di destra “Il Borghese”: una infinita autopsia postuma, quasi. Delitto politico o tragica eventualità di una condotta personale e sessuale al limite d’ogni possibile rischio?

Non si può dire che altrettanta attenzione critica, polemica e perfino apologetica abbia riguardato altre figure di intellettuali suoi contemporanei [...].

Ho però una sensazione premonitrice: a dispetto della complessità dell’autore Pasolini, e perfino del dato cronologico della sua stessa morte, i giorni, le settimane, i mesi, l’intero anno che ne accompagneranno le celebrazioni, il centenario tondo, vedrà il volto, la voce e il corpo stessi di Pier Paolo Pasolini innalzati segnatamente dalla ampia e variegata comunità che ormai d’abitudine definiamo no-vax e complottista, ossia da chi affermi l’esistenza in atto di una “dittatura sanitaria”. Dunque, Pasolini impropriamente, arbitrariamente sollevato come totem, garante morale immobile della denuncia contro il “regime” del “pensiero unico”, del “grande reset” e ogni altra categoria che voglia muovere attraverso i social e la sua piazza un sentire subculturale espressamente antisistema, perfino nell’accezione fascista del termine.

Non sarà così affatto semplice ribadirne il marxismo che dimorava in lui, ammesso che questa parola abbia ancora realtà nel dibattito delle idee.

Assai più probabilmente, in nome di ciò che i psichiatri definiscono pensiero magico, il rifiuto cieco e ostinato d’ogni razionalità, risulterà impossibile sottrarre alla falsificazione chi scriveva che “L’intelligenza non avrà mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da uno dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione, di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato”.

I primi germi di questa attitudine qualunquistica, propria delle opinioni assimilabili agli ormai paradigmatici “tatuatori e antennisti laureati su Facebook” (cit.) in nome della difesa di chissà quali “belle bandiere” della (presunta) libertà dal presidio poliziesco sanitario della scienza, li vediamo fiorire in rete, attraverso l’attribuzione impropria del volto del cadavere Pasolini alla necessità di un ritrovato antagonismo che si nutre di poche apodittiche sentenze: “… quella gloriosa bandiera è stata calpestata soprattutto dai suoi eredi che si sono venduti al globalismo capitalista almeno da noi in Italia, e tutto questo avrebbe trovato il Poeta del tutto contrario come peraltro si evince dai suoi scritti.” (sic) e ancora: “… quando una persona dice la verità e fa autocritica diventa scomodo” (sic) cui segue faccina con lacrima.

Anche dai nostri occhi, si “evince” qualcosa. Sarà tempo perso ricordare che ai morti non dovrebbero essere attributi pensieri e adesioni mai espressi. Povera la nostra battaglia persa in partenza. 



lunedì 27 dicembre 2021

Draghi alla resa dei conti

 


 

Gad Lerner, Governissimo dell'irrealtà, Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2021

Per i disorientati laudatori dello status quo, secondo i quali non può esistere governo migliore di quello in carica, l’optimum sarebbe revocare la separazione dei poteri prevista dalla Costituzione e consentire a Draghi il cumulo delle cariche: presidente della Repubblica (con annessa sovrintendenza su Forze Armate e Magistratura), presidente del Consiglio dei ministri e in sovrappiù – perché no, visto il suo curriculum? – magari anche Governatore della Banca d’italia. Un’ipotesi, com’è noto, già accarezzata dai fedelissimi Giorgetti e Brunetta che per primi lo hanno pubblicamente candidato al Quirinale. Peccato che la cura tecnocratica, escogitata per “salvare” l’italia dal disfacimento della politica parlamentare, debba fare i conti con l’ostacolo rappresentato dalle nostre regole costituzionali.

E poi ci sarebbe il suffragio universale, altro fastidioso intralcio. Si può tenere duro fino al 2023, non oltre. Vero è che la pandemia Covid è già servita un paio di volte come pretesto per rinviare elezioni regionali e comunali. Ma è impensabile che basti la variante Omicron a posticipare la scadenza del mandato di Mattarella.

O a congelare i pericolanti assetti emergenziali di unità nazionale che martedì Draghi ha voluto svincolare dalla sua persona.


Neanche i più entusiasti ammiratori di Supermario hanno finto di prenderlo sul serio quando egli ha dichiarato il suo “missione compiuta”. Hanno assistito con disagio all’incepparsi della sua azione di governo, dacché le opposte visioni dei partiti lo hanno costretto a rinviare o annacquare o rimangiarsi buona parte delle riforme pattuite con Bruxelles. Solo sulla giustizia, col M5S recalcitrante, lo hanno incoraggiato a forzare la mano. Da lì in avanti, lo hanno frenato, costringendolo a temporeggiare. Draghi ha capito di non poter più combinare molto a Palazzo Chigi e ha deciso di sfidare anche l’istinto proprietario di Berlusconi – che l’ha fatto accusare di diserzione dai suoi scherani – ritenendosi più adatto al ruolo di garante sul Colle più alto.

Spiace per i fautori della cura tecnocratica, spiazzati dal loro paladino, ma la politica si sta prendendo la rivincita. Per adempiere alla richiesta di Draghi, e cioè far propria la prospettiva di lungo periodo del governissimo con tutti dentro, Letta, Conte, Speranza e Salvini dovrebbero ripudiare la missione che si sono dati di fronte ai loro militanti e all’elettorato. Non un rospo da ingoiare momentaneamente, bensì un vero e proprio annullamento.

Per questo la candidatura di Draghi al Quirinale segna piuttosto la fine di una breve stagione che non l’inaugurazione di un’era nuova. La pretesa di investire Draghi del ruolo simultaneo di esecutore e garante, in una prolungata sospensione della politica, risuona come un periodo ipotetico dell’irrealtà. Velleitaria. Il governissimo che sognano è una creatura di fantasia che piacerebbe, certo, all’establishment nostrano e internazionale, ma richiederebbe il rinvio sine die di ogni campagna elettorale.

Tra le conseguenze nefaste del culto della personalità di Draghi e delle sue decantate virtù salvifiche, c’è anche la falsa illusione propagata nell’opinione pubblica secondo cui per risolvere i problemi dell’italia ci vuole un “uomo forte”, distaccato dalle piccinerie della politica.

Non stupisce che in questo clima i sondaggi registrino un favore crescente per una riforma presidenzialista, cavalcata entusiasticamente dalla Meloni, ma contraria allo spirito della nostra Costituzione. L’esatto opposto della scelta di Mattarella che, escludendo la propria ricandidatura, segnala la necessità di un ricambio fisiologico al vertice delle istituzioni, indice di salute dei sistemi democratici capaci di rispettare nonni e bisnonni (quando meritano rispetto) ma anche di rimpiazzarli con energie nuove quando il tempo è venuto.

La soluzione tecnocratica, nel mentre prefigura modelli illiberali, sospinge un numero crescente di cittadini insoddisfatti a rifiutare la politica. L’astensionismo dilagante troverebbe in un governo di unità nazionale guidato da uno sbiadito vice-draghi il più forte degli incentivi.

Il messaggio di Draghi è contraddittorio: “La mia missione è compiuta, ma questa formula di governissimo deve continuare”. Lo sconcerto con cui è stato accolto, e la volontà ribadita ieri dal vertice riunito a casa Berlusconi di dare vita prima possibile a un governo di destra, senza Pd e M5S, lasciano presagire che l’unità nazionale stia giungendo al capolinea. Anche i draghisti se ne faranno una ragione: dovrebbero pur sapere che la destra italiana ha una vocazione storica estremista che si lascia malvolentieri imbrigliare da chicchessia. Può darsi che alla fine, saziata la volontà di potenza dell’ex Cavaliere, faccia loro comodo trovare proprio in Draghi il garante più utile a legittimarli all’estero.

 

giovedì 23 dicembre 2021

Draghi, il braccio di ferro


 

Come era prevedibile, Mario Draghi ha parlato. Si è pronunciato sulla eventualità di una sua elezione a presidente della Repubblica. Si è detto disponibile. Ha aggiunto di voler agire in modo tale da consentire una prosecuzione della legislatura. Ha infine indicato un percorso. La Lega dovrebbe votare per lui fin dall'inizio, altrimenti ci sarebbe una spaccatura nella maggioranza di governo. Fratelli d'Italia potrebbe a sua volta convergere sul nome del candidato sostenuto dall'attuale maggioranza di governo. E il gioco sarebbe fatto. Senza dar luogo a un semipresidenzialismo di fatto, in quanto lo stesso Draghi intenderebbe essere soltanto un garante.
Quello che Draghi chiede di ottenere non rappresenta un mutamento di poco conto nell'attuale configurazione del sistema politico italiano. Lega e Fratelli d'Italia dovrebbero voltare le spalle a Berlusconi con il risultato di portare la rappresentanza parlamentare della destra a un livello molto più basso di quello attuale. Potremmo avere per questa via una sorta di presidenzialismo suppletivo, al di là delle intenzioni espresse da singole forze o persone.
Insomma Draghi pur esaltando l'importanza dei partiti potrebbe trovarsi a svolgere un ruolo di assoluta preminenza rispetto ai partiti. Non è detto che vi sia una docile sottomissione delle varie forze politiche a un destino simile. Molto dipende da come si muoveranno Fratelli d'Italia e la Lega. La partita resta aperta, come sembra incline a pensare anche Alessandro Sallusti in un editoriale che tiene nel debito conto tutte le novità delle ultime ore. 

Alessandro Sallusti, Parte la corsa per il Quirinale, Libero, 23 dicembre 2021.

Mario Draghi si candida di fatto a Presidente della Repubblica facendo una affermazione («questo governo può andare avanti indipendentemente da chi lo guiderà») e ricorrendo a una metafora: «Io sono un nonno al servizio delle istituzioni». E ciò accade proprio nel giorno in cui diventa pubblica la notizia, data dal settimanale Chi, che Silvio Berlusconi è diventato per la prima volta bisnonno essendo nata Olivia, figlia della figlia che Piersilvio ha avuto da una relazione giovanile. Nonno Mario contro bisnonno Silvio (al Cavaliere piace sempre stare un passo avanti a chiunque in qualsiasi campo) non è solo una divertente coincidenza di notizie parentali ma il primo nodo politico da sciogliere nella corsa al Quirinale. Perché fino a che Berlusconi rimarrà in campo, sia pure non ufficialmente, per contarsi alla quarta votazione quirinalizia a maggioranza semplice è difficile che Lega e Fratelli d’Italia convergano su Mario Draghi nei primi tre scrutini che richiedono una maggioranza dei due terzi, pena una spaccatura probabilmente irreparabile con Berlusconi e Forza Italia.

Per essere ancora più chiaro, ieri sera bisnonno Berlusconi ha ribadito che a suo avviso nonno Draghi deve restare a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura nel 2023, respingendo di fatto l’autocandidatura al Quirinale dell’attuale premier. Del resto tra i due è in corso una guerra a distanza: in mattinata Draghi, rispondendo a una domanda sulla possibilità che Berlusconi salga al Colle, aveva risposto scocciato: «Non sta a me dare valutazioni».

Ci siamo, insomma. Al tavolo dove si gioca la partita per la sostituzione di Sergio Mattarella i giocatori calano le prime carte, che non sono ancora i jolly ma qualche strategia si comincia a vedere. Partita complicata perché per la prima volta nella storia della Repubblica uno dei candidato eccellenti, Mario Draghi, è anche Presidente del Consiglio in carica. Non essendo previsto il doppio incarico – osservazione stupida ma per dire che anche le emergenze hanno dei limiti invalicabili in democrazia - che ne sarà del governo Draghi dopo Draghi se Draghi dovesse traslocare? «Si può andare avanti senza di me e con la stessa maggioranza di oggi, il lavoro è ben avviato», ha minimizzato ieri il premier per tranquillizzare il Parlamento sul fatto che con lui al Colle la legislatura potrà tranquillamente continuare. Ma Draghi immagino sappia che dicendo questo la fa un po’ troppo semplice, che va bene la stima e la fiducia nei suoi confronti ma che potere, ambizioni e appetiti sono altra cosa, tanto che il suo discorso è stato accolto con garbata freddezza da un po’ tutti i partiti poco disposti ad accettare soluzioni preconfezionate e per di più a scatola chiusa. Nessun patto e nessun annuncio possono garantire che via Draghi da Palazzo Chigi tutto continuerà come se nulla fosse. Non dico che ciò è impossibile, penso che oggi non ci siano le condizione perché accada tante sono le tensioni e le divergenze tra i partiti che compongono la maggioranza. E poi chi dovrebbe essere il suo successore alla guida del governo? Un politico puro lo escluderei e per questo non credo alle ipotesi che circolano in queste ore sui nomi di Giorgetti o Brunetta (ma anche di chiunque altro). Un tecnico? Dopo Draghi, chiunque sarebbe una scelta al ribasso non accettabile dai partiti poco disposti a ulteriori, per di più gratuite, cessione di potere.

Ed ecco che allora si torna al punto di partenza: tenere insieme le tre ipotesi care a Draghi, cioè lui al Quirinale, avanti con la stessa maggioranza e quindi niente elezioni anticipate è davvero dura. Come è dura per Matteo Salvini e Giorgia Meloni non sostenere fino in fondo, o quantomeno fino all’ultimo minuto possibile, la candidatura di Silvio Berlusconi primo presidente di centrodestra. Al momento quindi è una guerra di nervi tra nonno Mario e bisnonno Silvio. Gli altri, nipotini naturali o acquisiti, tutti a guardare e ad aspettare il primo passo falso di uno dei due.







lunedì 20 dicembre 2021

Sgurbiól


 

Giovanna Scalzo, Lelia, 90 anni di battaglie, Corriere della sera, 19 dicembre 2021

Il fascismo e la guerra, la vita nei campi, le lotte in fabbrica: grandi e piccoli avvenimenti a partire da una cascina nella Bassa modenese.

 Di Lelia senti i passi piccoli e veloci mentre va a raccogliere fiori lungo il fiume. Ignora il pericolo della corrente dell’acqua, che ha già portato via alcuni bambini come lei. Ad attenderla a casa ci sono le urla dei genitori, pronti a sgridarla. Ma di Lelia senti anche i passi, sempre piccoli e sempre più veloci, che portano pane e vino ai partigiani nascosti tra il fitto della campagna. Ignora il pericolo del rastrellamento, che ha già portato via tantissime persone. Ad attenderla c’è il silenzio carico di terrore.

La storia di Lelia inizia nel 1931, quando nasce in una cascina di Villavara, frazione di Bomporto, provincia di Modena, in Emilia. Ed è proprio dall’infanzia che Lelia inizia il suo racconto. Un vero racconto, dove c’è Lelia che parla e Antonella Romeo che trasforma le sue parole in una preziosa testimonianza. Sgurbiól. Delle cose e del tempo di Lelia, pubblicato da Edizioni Seb21, è il risultato di questo dialogo intenso. Sgurbiól è un termine dialettale modenese che viene affibbiato a Lelia dalla sua famiglia: non più una bambina, non ancora una donna. E proprio come sta a cavallo di queste due fasi della sua vita, Lelia vive a cavallo di due storie. I grandi parlano di cose che Lelia non capisce, usano termini come resistenza, insurrezione. Ai nomi di famiglia, come il fratello Uber — morto per mano delle Brigate nere —, si sovrappongono altri nomi, come Palmiro Togliatti, il quale esprime riconoscenza per la comunità modenese durante quegli anni difficili. Mentre ricorda la cugina Elda, la cui famiglia fu sterminata dai fascisti, Lelia nomina anche i fratelli Cervi, dispiacendosi allo stesso modo.

Lelia non riesce a trovare una distinzione tra la sua storia e quella che verrà poi tramandata alle generazioni future. Ed effettivamente una distinzione non c’è, alcune storie sono inevitabilmente legate ad altre: raccontandone una, in realtà se ne racconta anche un’altra, attraverso la piccola storia si comprende anche quella grande.

Lelia cresce con altre 35 persone — sono parenti, soprattutto cugini e zii. Racconta di grandi stanze dove dormire tutti insieme e di animali da accudire e curare. Racconta dei genitori che si alzano all’alba, di mani che impastano il pane una volta alla settimana. È la storia di Lelia bambina — non ancora sgurbiól — che si gode la sua infanzia. Ma si percepisce anche che questo racconto non è solo il racconto della sua infanzia: è un racconto sociale, dove emergono le dinamiche di potere all’interno di una tipica famiglia mezzadrile del territorio emiliano; ed è un racconto corale, in cui storia e Storia si mescolano.

Ecco allora che Lelia cresce, inizia a portare il cibo ai partigiani, viene informata della morte di Uber, capisce che cosa è successo ai fratelli Cervi. Anche grazie a queste rivelazioni Lelia si trasforma in una sgurbiól, a metà tra la bambina e la donna, una sorta di essere mitologico che poco alla volta lascia la sua infanzia e le regole che la confinano tra le mura di una cucina, in un anonimo casale sperduto nella provincia modenese.

Raggiunge la città, accetta un lavoro, uno stipendio. Si sposa, mette su famiglia. Lelia passa dall’aiutare a spennare i polli al lavorare in fabbrica come operaia: monta cerniere, un lavoro che la renderà indipendente e la aiuterà a sostenere i genitori. Studierà alla scuola del partito, proprio come il marito, ma soltanto i quaderni di quest’ultimo verranno conservati.

Lelia continua a raccontare la sua storia, una storia che di nuovo appare normale, soprattutto a Lelia. Ma non al lettore, il quale si ritrova — ancora una volta — nel bel mezzo di una storia che non ha nulla di normale.

Compaiono di nuovo i grandi nomi, avvenimenti che abbiamo già conosciuto. Lelia, nel frattempo, si trasforma in un’altra creatura fantastica, per la quale non c’è un nomignolo dialettale, simile ai supereroi. È protagonista ignara, senza mezzi speciali, se non le sue scelte e il suo impegno: spianerà una strada che nemmeno c’è, permettendo a tutti noi di renderci conto che esistono ancora problemi come la disparità salariale e la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia. Lelia non è più soltanto a cavallo di due storie, ma di più epoche, risultando attuale e credibile anche ai giorni nostri.

In Lelia ci si può (e forse ci si deve) immedesimare, perché alle due storie fin qui raccontate, se ne aggiunge una terza: la nostra storia.

Lelia ci racconta quindi tante cose, ma ci lascia anche tante indicazioni — più o meno implicite — su come proseguire: nella foto di Lelia adulta — non più sgurbiól — che accompagna il libro la si vede intenta a indicare un fienile posto in alto, dove dormiva il nonno, considerato la colonna portante della famiglia. Ma si può anche vedere Lelia che indica la direzione da continuare a seguire: un punto indefinito verso il futuro, da guardare rigorosamente a testa alta, senza paura.

 

domenica 19 dicembre 2021

Morti sul lavoro


 
 
 Simone Lorenzati

 
La tragedia di oggi a Torino è qualcosa di terribile. Stringe il cuore leggere ciò che è accaduto, vedere anche solo una foto.
Tre vite distrutte in un attimo, una triplice morte assurda.
Io lì, a venti metri da quell'incrocio, ho abitato. Io lì, per nove anni, ho preso il caffè in quel bar. Io lì, ieri mattina alle undici, ci sono passato.
Ero fermo al semaforo rosso, e ho alzato gli occhi al cielo. Ho visto tre persone appese che stavano lavorando.
Ventiquattro ore dopo quelle tre vite non esistono più.
Non credo ci sia nulla da dire, se non che il conto dei morti sul lavoro aumenta a dismisura, una carneficina quotidiana che pare non toccare nessuno. Fino a quando non succede in un posto che conosci come le tue tasche.
E allora nomi e luoghi sconosciuti non sono più tali. C'è il posto dove parcheggiavi, il marciapiedi dove camminavi, l'incrocio a cui ti sei fermato una miriade di volte. Non è più qualcosa di astratto, è carne viva che senti pulsare sotto di te.
Questa è, purtroppo, la realtà lavorativa di molti, di troppi.
Di quei ragazzi che sfrecciano sotto la pioggia, magari pure col semaforo rosso, per consegnare prima la nostra pizza.
Di quei sessantenni che, furgoncino sotto il sedere, non devono tardare la consegna del nostro pacco preziosissimo.
E i cinque euro ad articolo per altri, quando arrivano si intende.
E i contratti che scadono come lo yogurt. Sempre che non scada prima tu.
Il lavoro - per non pochi - è questo.
Sarebbe ora che qualcuno lo dicesse.
Magari avvertendo anche Mattia Feltri.

martedì 14 dicembre 2021

Teodorico di Verona


 
Giosuè Carducci, La leggenda di Teodorico, Rime nuove 1906, poesia numero LXXVI
Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò 
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre; 
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú, 
Ed il bel verde paese 
Che da lui conquiso fu.
Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l'età nostra. 
Egli ha i pié d'acciaro a smalto, 
Ha le corna tutte d'òr.
— Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator. 
— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d'un tratto al re da canto 
Un corsier nero nitrí. 
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale: 
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò. 
Il re scendere vorría,
Ma staccar non se ne può. 
Il più vecchio ed il più fido
Lo seguía de' suoi scudieri,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri: 
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi be' dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí. 
Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta? 
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? — 
— Mala bestia è questa mia, 
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. — 
Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria: 
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covría,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva 
Dio su 'l capo al goto re. 
Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma: 
Quivi giunto il caval nero 
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò. 
Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine; 
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.

 

domenica 12 dicembre 2021

Valérie Pécresse, presidenziabile


 
 
Valérie Pécresse punta all’Eliseo e alla rivincita del gaullismo
Al ballottaggio? La candidata dei Républicains supera nei sondaggi Marine Le Pen e diventa un’avversaria temibile per Emmanuel Macron

«Effet primaire». «Effetto primarie»: la Francia lo conosce bene. Anche in questa occasione, tutto è cambiato. La vittoria finora certa di Emmanuel Macron alle presidenziali di aprile è ora in dubbio; e l’elemento dirompente non è stata la discesa in campo di Éric Zemmour, il polemista radicale che imita De Gaulle, ma la vittoria alle primarie dei Républicains di Valérie Roux Pécresse che del generale può considerarsi un' erede politicamente “legittima”.

I sondaggi, soprattutto se letti in successione temporale, sono abbastanza chiari. La presidente della regione parigina dell’Ile de France non ha goduto nei mesi precedenti le primarie di un consenso superiore al 10%. Altri candidati della sua stessa area sembravano più popolari, a cominciare da Xavier Bertrand, il presidente della regione degli Hauts de France che, con una fuga in avanti, si era candidato ufficialmente nell’agosto 2020. Dopo la proclamazione degli iscritti al partito - quel partito da cui lei era uscita criticandone il tradimento della sua cultura repubblicana - Pécresse è “esplosa”: il suo consenso - nei sei sondaggi finora effettuati - ha superato i livelli più alti, e ormai dimenticati, di cui godeva a inizio 2021, e hanno raggiunto il 20%, contro il 24% stabile di Emmanuel Macron, che dopo cinque anni di presidenza non sembra essere riuscito ad aumentare i suoi potenziali voti (24% fu il risultato dl primo turno del 2017). Il calo simultaneo dei consensi di Marine Le Pen, insidiata nel suo stesso bacino elettorale da Zemmour, porta a uno scenario del tutto nuovo. Al ballottaggio è molto probabile che si assista a uno scontro tra Macron e Pécresse, e l’esito non è scontato. Dei due sondaggi effettuati sul secondo turno, uno prevede la vittoria del presidente uscente, l’altro quello della sfidante gollista: nella sfida, Macron non potrebbe più contare sul sostegno della destra repubblicana al quale ha potuto attingere, e che ha potuto coccolare, nei momenti di difficoltà.

Basta questo per fare di Valérie Pécresse, in ogni caso, la vera novità di queste elezioni. Tutto può ancora cambiare, ma Pécresse potrebbe segnare la rivincita dei gaullisti, travolti nel 2017 dallo scandalo che colpì il candidato François Fillon (aveva “assunto” la moglie come assistente parlamentare) e poi alle europee del 2019 dalla svolta verso la destra radicale voluta da Laurent Wauquiez: +8,5% il tragico responso delle urne per un partito in realtà ancora molto radicato in Francia. Alle elezioni dipartimentali e regionali del 2021, Les Républicains sono risultati il primo partito con il 28% dei consensi (correttamente indicati dai sondaggi), oscurando un po’ il Rassemblement National che in quell’occasione non ha mantenuto le sue promesse.

Pécresse ha inoltre puntato molto sull’”ortodossia” repubblicana. Di fronte alla disinvoltura del partito nella sua collocazione politica, lei è apparsa più coerente. All’opposizione durante la leadership di Wauquiez, ha rinunciato alla possibilità di diventare presidente del partito dopo la débâcle alle europee, per rendere autonomo il proprio movimento, Soyons Libres (Siamo liberi), sposando un repubblicanesimo liberale, centrista, diverso dall’anima “sociale” di altre componenti del gaullismo. Anche oggi, Pécresse spiega di voler ispirarsi per un terzo a Margareth Thatcher - una scelta scomoda, in Francia, anche se ormai un po’ “antica” - e per due terzi a Angela Merkel.

Esterna al partito fino a ottobre, ha prevalso alle primarie di inizio dicembre, aperta ai soli iscritti superando Éric Ciotti, che rappresentava l’anima più radicale dei repubblicani, più vicina alle posizioni dei populisti (in Francia tutti, anche a sinistra, usano la retorica della “sovranità”). Eppure la nuova candidata è l’espressione di quel mondo francese che ama presentarsi, ed è considerato, come élite, ed è oggi disprezzato proprio per questo: nipote dello psichiatra Louis Bertagna, il medico di Henry Malraux, cattolico e resistente; figlia dell’economista Dominique Roux, ex presidente della Bolloré Telecom, Pécresse si è laureata in economia, ha frequentato l’Ena, e ha insegnato diritto costituzionale a Science Po. È stata ministro dell’Università e della Ricerca nei governi Fillon I, II, e II e ministro delegato del Budget, dei Conti pubblici e della Riforma dello Stato e portavoce dell’Esecutivo nel governo Fillon III. Suo marito Jérôme Pécresse è Pdg (Presidente-direttore generale) di Ge Renewable Energy (l’ex Alstom Renewable Energy) e vicepresidente di Alstom. È considerata una gran lavoratrice, molto metodica, conosce il russo, il giapponese, l’inglese.

«Sono una donna che vince», ha detto alla vigilia della sua vittoria alle primarie, in un confronto che ha riportato i Républicains a ragionare attorno ai valori fondanti del partito: la République, ovviamente, vista da destra, una destra che con De Gaulle rivendicava i valori di Liberté, egalité, fraternité a differenza di quanto avviene in genere nel mondo conservatore; lo Stato; la laicità (è una cattolica tiepida che considera la religione un fatto privato); l’istruzione; e soprattutto l’”ordine”, termine che le permette di distanziarsi dalla retorica sulla “sicurezza” ormai dominante in Francia. Consigliere regionale dell’Ile de France dal 2004 e presidente da dicembre 2015, Pécresse si è dovuta occupare di aree socialmente turbolente: è quindi favorevole all’uso dell’esercito nelle “zone-di-non-diritto”. Popolare tra i più anziani, Pécresse vuole un’Europa forte, mentre punta a diminuire le spese pubbliche e le imposte su imprese e successioni. Intende sopprimere 200mila posti di funzionari pubblici, portare l’età pensionabile da 62 a 65 anni, abrogare le 35 ore, ridimensionare i sussidi di disoccupazione e vendere le quote di minoranza possedute dallo Stato.

 

venerdì 10 dicembre 2021

Parole primordiali

 


 

LA BIBBIA (LA NUOVA DIODATI, 1991) 

 1 Nel principio DIO creò i cieli e la terra. 2 La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso; e lo Spirito di DIO aleggiava sulla superficie delle acque. 3 Poi DIO disse: "Sia la luce!". E la luce fu. 4 E DIO vide che la luce era buona; e DIO separò la luce dalle tenebre. 5 E DIO chiamò la luce "giorno" e chiamò le tenebre "notte". Così fu sera. Poi fu mattina: il primo giorno. 

 

Edna O'Brien, Uno splendido isolamento, trad. Anna Bassan Levi, Feltrinelli, Milano 1997 

La storia è dovunque. S'infiltra nel terreno, penetra nel sottosuolo. Come la pioggia, o la grandine, o la neve, o il sangue. Una casa ricorda. Una rimessa ricorda. Un popolo riflette. La storia cambia a seconda di chi la racconta.

mercoledì 8 dicembre 2021

Attualizzo ossia distruggo

Gianpasquale Santomassimo Per molti secoli è stata normale, addirittura doverosa, l'attualizzazione delle vicende legate alla storia, per lo più sacra. Il fedele doveva vedere negli affreschi in chiesa i personaggi vestiti in foggia medievale o rinascimentale. Ma ci si rivolgeva a fedeli per lo più analfabeti e digiuni di storia, privi di istruzione. L'opera lirica, a partire soprattutto dall'Ottocento, si rivolge invece a un pubblico borghese ma anche popolare, che ha ormai la sua cultura e in molte regioni italiane pratica un vero e proprio culto dell'opera, come testimoniano i nomi di battesimo ispirati a quelle vicende e non più alla tradizione biblica. L'attualizzazione avviene mentalmente, senza artificio scenico o registico, per la forza di vicende ambientate in un passato determinato ma che riescono a parlare anche all'oggi. Attualizzare e stravolgere ambientazione dell'opera sembra essere l'unica carta giocata da registi apparentemente fantasiosi, ma in realtà banali e ripetitivi nel loro artificio. Quante divise naziste abbiamo visto in scena negli ultimi decenni per impersonare i cattivi? Lo snaturamento dell'opera procede anche e soprattutto attualizzando in forme illogiche ogni vicenda. Lasciamo perdere per pietà il Rigoletto brutalizzato di recente a Roma e soprattutto a Bregenz. Accennerei ad alcune attualizzazioni giudicate spiritose e fortunate dell'Elisir d'amore, che ho visto recentemente ambientato tra hostess di un aeroporto e lungo la piscina di un idroscalo. Ma la vicenda narra di un villaggio sperduto di analfabeti, dove un'unica ragazza, la protagonista, legge e si informa (Essa legge, studia, impara... non vi ha cosa ad essa ignota... Io son sempre un idïota, io non so che sospirar, canta Nemorino nell'aria di apertura). Solo un villaggio come questo può mostrarsi indifeso a fronte di un ciarlatano come Dulcamara. Trasportare le villanelle del villaggio sulle sedie a sdraio di una piscina, mostrarle mentre leggono Sorrisi e canzoni e compilano la Settimana Enigmistica significa rendere incomprensibile tutta la trama. La motivazione ufficiale è che bisogna avvicinare i giovani all'opera. Motivazione in realtà disperata e anche insultante, che non ritiene i "giovani" capaci di comprendere che sono esistite epoche diverse dalla nostra. Far comprendere invece ai "giovani" che la storia è più complicata rispetto all'eterno presente - senza passato e senza futuro - in cui si pretende che vivano avrebbe anche un valore educativo.

A Vespa non si sfugge

Cavoli a merenda C'era da aspettarselo. Era già successo altre volte. Uno si appresta a seguire lo spettacolo inaugurale della nuova stagione scaligera e si ritrova di fronte il faccione di Bruno Vespa, associato a un'altra figura del repertorio Rai romano. All'eterna mediocrità non si sfugge. Chissà se moriremo democristiani. E non è dato neppure sapere quanto durerà l'associazione di Bruno Vespa al potere in Rai.

giovedì 2 dicembre 2021

E' stata la mano di Dio

Simone Lorenzati E’ stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (Italia, 2021) - A tien' 'na cosa 'a raccuntà? - Sì! - E dimmell'! - La realtà non mi piace più. La realtà è scadente. In questo dialogo tra l’alter ego del giovane Paolo Sorrentino ed un maestro di teatro e di cinema – ma potrebbe anche leggersi come uno stesso Sorrentino che riguardi al proprio passato – vi è l’essenza di E’ stata la mano di Dio. Il regista partenopeo si mette a nudo mostrandoci una riflessione sulla propria carriera, sul suo cinema, in primis sulle scelte di stile che lo ha portato a quella che, di fatto, è ormai la sua “immagine di marca”. Un intreccio stretto, insomma, tra biografia ed estetica a fare la forza del film, un mondo che spazia dall’esuberanza sessuale della zia Patrizia (una Luisa Ranieri di una bravura pari solamente alla bellezza) alla passione di zio Alfredo per Maradona (da qui la mano di Dio del titolo), dalle spacconerie di un amico contrabbandiere all’altezzosità di una decaduta baronessa. Eccola, ancora, la strettissima connessione tra follia ed umanità, per uno spaccato di vita quanto mai sincero. E poi il contesto. Napoli, solamente a Napoli. Quando la mamma di Fabietto prepara la spremuta d’arance pare di sentirne il profumo, esattamente come quando, in un connubio tra tradizione e famiglia, preparano tutti insieme la conserva. Vi sono le miriadi di sfumature del sentimento confuso della vita nel film autobiografico di Paolo Sorrentino che si veste da Fabietto, miniatura del futuro regista, già osservatore minuzioso e silenzioso della commedia umana, un artista sublime in grado di trasformare la realtà tutta, compresa quella scadente, in grande cinema. Teresa Saponangelo e Toni Servillo interpretano perfettamente i genitori di Fabietto e, grazie anche a loro, ecco che iniziano a mischiarsi sacro e profano, cinema e calcio, citazioni di Dante e scherzi telefonici. Si viene immersi in tutta la verità, insieme al folclore familiare, degli Schisa. Parentesi. Cosa rende grande un film? Al di là della storia e degli attori, si intende. Per chi scrive, il pubblico, meglio le reazioni dello stesso. Ecco, Sorrentino ci fa ridere fino alle lacrime. Mi guardavo intorno, ed erano davvero risate sincere, forse anche liberatorie visto il momento che tutti quanti stiamo attraversando. Poi, improvvisamente, sulla sala torinese, a metà film, cala il silenzio. Insieme alle lacrime, che bagnano le mascherine. Fabietto ed il fratello - quello che vorrebbe fare l’attore ma a cui Fellini ha detto che ha la faccia di un cameriere di Anacapri – si trovano sulle spalle un mondo che è crollato. Ché la vita, a volte, è davvero così, dalla commedia si passa alla tragedia. Ed è toccante, perché si mischiano, nuovamente, le nostre vicende personali a quelle del film, per di più film autobiografico. Un racconto familiare sincero quello di Paolo Sorrentino, colore e affetto ma anche crepe - il papà affettuoso ha anche un’altra donna e persino un altro figlio, eccolo lì il matrimonio all’italiana - ed è proprio la scoperta di quelle crepe che costringe Fabietto a crescere, anticipando quello scontro con il dolore profondissimo che porterà sempre con sé. A metà film, dunque, Fabietto – così simile nelle movenze e nell’andatura a quello che fu un altro grandissimo napoletano, ovvero Massimo Troisi - è divenuto Fabio. E l’arrivo a Capri con il contrabbandiere - nella piazzetta di una Capri desolata quanto spettrale – gli dipingono in volto quella voglia di curiosità, quella curiosità che ti fa prendere appunti mentali per il futuro. Il cinema che diventa sogno ed evasione, con un Paolo Sorrentino che tenta di rifugiarsi nel cinema per scappare dalla realtà ed a ispirarlo, nella pellicola così come nella realtà, ci sono gli insegnamenti di Federico Fellini, con quel suo tentativo di arrivare alla verità attraverso la fantasia. Ed il passato del regista napoletano emerge attraverso il racconto della sua città natale, rivista e riecheggiata attraverso l’occhio sapiente della macchina da presa, esattamente come accadeva per lo stesso Fellini in Amarcord. Il mare del golfo di Napoli, sin dalle prime inquadrature di È stata la mano di Dio, è un elemento che ritorna spesso, una sorta di rappresentazione in grado di mescolare libertà e speranza. Il mare è il vero filo conduttore delle vicende e delle storie che accadono a Napoli, quel mare azzurro come le divise del Napoli. Una Napoli di una bellezza incantevole in cui riescono a convivere, come in pochissime altre città, alto e basso, cultura e scaramanzia, presente e passato, onestà e contrabbando, vendetta e amore. O munaciell, San Gennaro, una miriade di personaggi pittoreschi. Paolo Sorrentino ce la mostra in tutta la sua essenza, senza dimenticare, mai, il popolo, l’uomo comune che può, spesso, nascondere - dentro e fuori di sé - tutto un universo mondo, quell’universo mondo che unisce il barocchismo al quotidiano. E lo si sente sì quel velo felliniano, in un film – due ore e dieci minuti che letteralmente volano - dalle tantissime sfaccettature emozionali, da quelle più divertenti a quelle più amare e ciniche. Il tutto lasciandoci cullare e trasportare dalle onde del mare verso un futuro fatto di sogni e speranze: dal voler assistere a una partita di calcio giocata dal proprio idolo – il cui arrivo fa trattenere, letteralmente, il fiato all’intera città - al sogno di far parte del magico e onirico mondo del cinema. Paolo Sorrentino ce l’ha fatta. Ci ha saputo raccontare qualcosa. La teniss 'na cosa 'a raccuntà.
Paolo Di Paolo E mi ha fatto capire che bisogna imparare a piangere. E che non basta avere un dolore per diventare artisti. Ci vuole qualcosa di più esatto; e vedere il “munaciello” per strada, e sapere che la vita immaginata è migliore di quella reale, che è scadente, anche se poi in fondo amiamo quella, ci manca quella, e a dire il vero ci manca chiunque - della folla di comparse che ci fanno ridere e disperare e tremare. È un film molto bello, “È stata la mano di Dio”. Mi piace l’idea che per raccontare una storia così - così semplice e così dolorosa -, per fare questo film, che poteva essere il primo, Paolo Sorrentino abbia atteso, dal primo, vent’anni.